05 novembre 2017 10:04

“Qui è tutto fuori uso e abbiamo la sensazione di essere stati cacciati dal nostro paese”, scrive Ana Teresa Toro, 33 anni, giornalista e scrittrice di Puerto Rico, in un’email appassionata in cui racconta la situazione nell’arcipelago quaranta giorni dopo il passaggio dell’uragano Maria. È addolorata perché vede che il paese in cui è cresciuta non esiste più ed è arrabbiata perché si rende conto che non interessa a nessuno. “Sono passati 37 giorni dall’uragano e a Río Grande, la città dove vivo, siamo senza corrente elettrica, senza collegamenti telefonici e senza internet. Non abbiamo acqua potabile, e questo ha provocato epidemie di leptospirosi e diarrea. Tra le altre cose, siamo tornati a fare il bucato al fiume”.

A settembre, nel giro di due settimane, su Puerto Rico si sono abbattuti due violenti uragani. Il primo, Irma, ha causato la morte di quattro persone e ha lasciato circa un milione di abitanti senza elettricità; il secondo, Maria, è passato sull’arcipelago il 20 settembre, uccidendo 51 persone e catapultando da un giorno all’altro 3,5 milioni di portoricani in una società primitiva. È stato il colpo di grazia per un paese già in ginocchio a causa della crisi economica, che in dieci anni ha prodotto un debito pubblico di più di settanta miliardi di dollari e ha costretto centinaia di migliaia di persone a emigrare.

La maggioranza della popolazione non ha accesso alla luce né all’acqua potabile. I sistemi di comunicazione sono ancora fuori uso

Toro vive nel nordest dell’isola principale. Lei e il suo fidanzato si sono sposati tra un uragano e l’altro e dopo il matrimonio, invece di andare in luna di miele, hanno preso un aereo per Boston, dove hanno incontrato i rappresentanti della comunità portoricana statunitense e del mondo imprenditoriale per chiedere aiuti economici e sostegno politico. “A Río Grande, che è la città più alta del paese sul livello del mare, più di duemila famiglie sono rimaste senza casa. La maggior parte di queste persone è andata a vivere con i familiari. Stanno in dieci o quindici in case costruite per quattro persone o in centri d’accoglienza. Oggi in tutta l’isola ci sono circa 4.500 profughi”.

In realtà sono stime approssimative e non ufficiali, perché l’uragano ha mandato in tilt l’intero sistema di comunicazione dell’isola e ha ridotto la già limitata capacità del governo di prestare soccorso alle zone lontane dalla capitale San Juan. Toro racconta di famiglie che sono rimaste isolate per settimane e hanno dovuto seppellire i morti nel giardino di casa. “Il bilancio del governo è di 45 morti, ma ci sono almeno 113 dispersi e soprattutto non si tiene conto delle persone malate che sono morte quando i macchinari che le tenevano in vita hanno smesso di funzionare perché non c’era energia elettrica, o dei pazienti diabetici e nefropatici deceduti perché rimasti senza cure”.

L’aspetto più preoccupante è che Puerto Rico non ha i mezzi per uscire dall’emergenza. “Oggi la corrente elettrica raggiunge solo il 20 per cento dell’isola”, racconta Toro. “La grande maggioranza della popolazione non ha accesso alla luce né all’acqua potabile. I sistemi di comunicazione sono ancora fuori uso ed è complicatissimo fare una telefonata o connettersi a internet se si vive fuori dall’area metropolitana di San Juan” (ogni giorno Toro fa la spola tra Río Grande e San Juan per connettersi a internet per qualche ora, l’unico modo per continuare a comunicare con il mondo esterno).

Le parole di Donald Trump
La mancanza di elettricità colpisce in modo drammatico gli ospedali. Nelle ultime settimane sono state pubblicate online delle immagini che testimoniano le condizioni precarie in cui sono costretti a lavorare i medici di molti degli ospedali del paese. In una, diffusa il 21 ottobre dall’ex governatore di Puerto Rico Alejandro García Padilla, si vede un chirurgo chinato sul paziente su un tavolo operatorio illuminato solo dalla luce di un telefono. “Questo è quello che Donald Trump ha definito un dieci in pagella”, ha commentato Padilla in riferimento alle parole del presidente statunitense, che qualche giorno prima si era complimentato con se stesso e con la sua amministrazione per la risposta all’emergenza.

Il rapporto con gli Stati Uniti e lo status giuridico di Puerto Rico è forse l’aspetto più problematico di questa vicenda. Dalla fine dell’ottocento, dopo la guerra ispano-americana, Puerto Rico è sotto la giurisdizione degli Stati Uniti. È considerato uno “stato non incorporato”: i portoricani sono cittadini statunitensi ma non possono votare per eleggere il presidente degli Stati Uniti, e il loro rappresentante al congresso non ha diritto di voto; pagano per finanziare la previdenza sociale e il Medicare (il programma di assistenza sanitaria per le persone sopra i 65 anni) ma non le tasse federali. Nel novembre del 2012 si è tenuto un referendum con cui i portoricani hanno chiesto di abbandonare il loro status attuale e diventare il 51° stato americano. La richiesta per ora non è stata accolta dal congresso degli Stati Uniti.

Per Puerto Rico questo status giuridico intermedio – non essere un paese, quindi non poter prendere decisioni politiche ed economiche autonome, e non essere uno stato degli Usa, quindi non aver potere contrattuale con il governo di Washington – continua a essere una zavorra che affossa ogni spinta alla crescita. Lo dimostra la gestione degli aiuti umanitari e delle risorse stanziate dopo l’uragano Maria.

A qualsiasi altro paese gli Stati Uniti avrebbero offerto più aiuti – e con meno restrizioni – di quelli dati a Puerto Rico

A metà ottobre il senato di Washington ha deciso di concedere a Puerto Rico un prestito di circa cinque miliardi di dollari. “Mi viene da piangere”, commenta Ana Teresa Toro. “Un prestito per un’isola che è già in ginocchio. A qualsiasi altro paese gli Stati Uniti avrebbero offerto più aiuti – e con meno restrizioni – di quelli dati alla loro colonia”.

La ripresa e la ricostruzione saranno particolarmente lente anche perché i principali motori dell’economia locale, come il turismo e l’industria del pollame, sono stati praticamente azzerati: “Nella zona di Río Grande tutte le fattorie hanno avuto gravi perdite”, racconta Toro. “Sono morti decine di migliaia di polli e ci vorranno altri otto mesi prima che la produzione di carne e uova ricominci. La foresta tropicale El Yunque, la principale attrazione turistica della zona, è rimasta tagliata fuori dal sistema di comunicazione e il parco è stato chiuso per la quantità di alberi caduti e per i corsi d’acqua distrutti”.

Incatenati a un debito
La crisi economica di Puerto Rico viene da lontano. La fase acuta è cominciata nel 2006, quando Washington ha eliminato dal codice tributario la sezione 936, cioè le agevolazioni fiscali alle imprese statunitensi che aprivano attività a Puerto Rico. Per coprire il deficit crescente il governo di San Juan ha cominciato a prendere soldi in prestito. A giugno del 2015 Padilla ha annunciato che lo stato non era in grado di ripagare il suo debito di 72 miliardi di dollari. In seguito il governo ha aumentato le tasse, ha tagliato servizi e ha imposto misure di austerità.

Qualche mese fa il congresso degli Stati Uniti ha dato via libera a un piano – chiamato Promesa – per ristrutturare il debito di Puerto Rico. Il programma, secondo gli economisti Joseph Stiglitz e Martin Guzman, si basa su previsioni economiche troppo ottimistiche ed è destinato a mettere il paese in un circolo vizioso di austerità, ulteriore indebitamento e depressione economica. E le previsioni di Stiglitz e Guzman risalgono a prima del passaggio dell’uragano Maria: oggi, a detta di tutti gli esperti, il quadro è ancora più buio e preoccupante; secondo José Joaquín Vilamil, economista portoricano, l’uragano ha causato danni per almeno venti miliardi di dollari e ci vorranno dodici o tredici anni solo per tornare al prodotto interno lordo del 2006, anno d’inizio della crisi.

Per tutti questi motivi il flusso di persone che scappano dall’arcipelago è destinato ad aumentare. Per Ana Teresa Toro, una portoricana orgogliosa che non rinuncia al sogno di vivere in un paese indipendente, è un dolore difficile da sopportare. “Ogni settimana almeno cinquemila portoricani se ne vanno dal paese. Sono stata varie volte all’aeroporto di San Juan. È devastante. La maggioranza di quelli che partono ha un biglietto di sola andata per Orlando o per Miami, in Florida, dove riescono a trovare dei lavori dignitosi tramite il dipartimento dell’istruzione. In questo momento ci sono più portoricani negli Stati Uniti (circa quattro milioni) che a Puerto Rico (3,5 milioni prima dell’uragano). I giovani stanno portando i loro genitori e gli anziani fuori dal paese, e fanno bene, perché qui la situazione non migliora: gli scaffali dei supermercati sono vuoti e abbiamo poche speranze che torni la corrente elettrica”.

Quando l’uragano Maria si è abbattuto su Puerto Rico, Ana Teresa Toro era a Guaynabo, una città a pochi chilometri da San Juan, a casa di sua sorella. Dice che quei giorni sono stati i più spaventosi che abbia mai vissuto, e quella sensazione – il timore di poter essere spazzata via da un momento all’altro – non è ancora andata via: “Ancora oggi, ogni volta che piove muoio di paura. Il giorno dopo esci di casa, timorosa, vedi tutti i vicini che si danno da fare per aprire delle vie d’accesso, resti impressionato dalla quantità di alberi caduti. Le montagne, che prima brillavano di tutte le tonalità di verde del mondo, adesso sembrano secche, come se ci fosse caduta sopra una bomba. Non riconosci i paesaggi di quando eri bambino perché non ci sono più. È come andartene di casa senza uscire di casa. O forse è peggio, perché la casa – letteralmente per alcuni e metaforicamente per tutti – non esiste più”.

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