26 febbraio 2018 13:42

Una delle poche cose che si possono dire su Donald Trump senza scontentare né i suoi sostenitori più fedeli né i critici più accaniti è che è un presidente istintivo. Nel suo primo anno alla Casa Bianca ha dimostrato che spesso le risposte impulsive agli eventi sono il principale – e a volte l’unico – movente per scegliere quali battaglie combattere e perfino quali provvedimenti adottare.

La maggior parte dei suoi istinti è alimentata dall’ira. Dallo scontro con i giocatori di football che si inginocchiano durante l’esecuzione dell’inno nazionale – “mandate via dal campo quei figli di puttana” – alla decisione di bombardare una base dell’esercito di Bashar al Assad come risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, Trump – un uomo che tende a circondarsi di persone che lo spronano a essere se stesso – quasi sempre ha agito nella convinzione di dover rispondere a comportamenti inaccettabili con un gesto furioso che sistemasse la faccenda una volta per tutte.

Tenere a freno i tweet
Nei primi mesi di mandato l’ira è stata rivolta soprattutto all’inchiesta sui presunti tentatitivi del governo russo di condizionare il risultato delle elezioni del 2016 per aiutare Trump e sfavorire la candidata democratica Hillary Clinton.

Un tweet dopo l’altro, il presidente l’ha definita “la più grande caccia alle streghe” della storia della politica americana, un “complotto” dei democratici che non volevano accettare l’esito del voto, una “farsa” finanziata con i soldi dei contribuenti.

A un certo punto è arrivato perfino ad attaccare Jeff Sessions – il ministro della giustizia che si è fatto da parte sull’inchiesta russa quando si è scoperto che aveva mentito al resto dell’amministrazione sui suoi contatti con l’ambasciatore russo in campagna elettorale – giudicandolo troppo debole e incapace di mettere a tacere la vicenda, e varie fonti interne alla Casa Bianca davano Trump sul punto di licenziare Robert Mueller, il procuratore speciale che sta indagando sui legami tra funzionari russi e il comitato elettorale repubblicano.

Poi, verso la fine del 2017, il presidente ha cominciato a tenere a freno la sua ira. Nelle ultime settimane non si è fatto problemi a scagliarsi contro l’Fbi (dopo la strage di Parkland, in Florida, in cui un ragazzo di 19 anni ha ucciso 17 persone, ha incolpato la polizia federale di occuparsi troppo della vicenda russa e poco di prevenire la stragi) e perfino contro il suo dipartimento di giustizia – “una sciagura”– ma si è tenuto alla larga da Mueller.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

È paradossale che sia successo proprio mentre il procuratore speciale aggiungeva una serie di tasselli a un’inchiesta che alla lunga rischia di mettere a rischio il futuro dell’amministrazione. Negli ultimi dieci giorni Mueller ha incriminato tredici cittadini russi sospettati di aver segretamente aiutato Trump a vincere le elezioni, poi ha presentato altre accuse contro Paul Manafort, che per alcuni mesi ha guidato la campagna elettorale di Trump, e ha raggiunto un accordo di collaborazione con Rick Gates ex vicedirettore della campagna che dopo le elezioni si è occupato di mettere insieme la squadra della nuova amministrazione.

A questo si aggiungono le incriminazioni di Michael Flynn ex stretto collaboratore di Trump e suo primo consigliere per la sicurezza nazionale, e contro George Papadopoulos, un ex consulente del presidente, che si è dichiarato colpevole di aver mentito all’Fbi sui suoi contatti con intermediari di Mosca. Senza dimenticare che Mueller sta anche indagando per capire se Trump ha licenziato il direttore dell’Fbi James Comey per ostacolare un’inchiesta che, per sua stessa ammissione, “lo ha messo sotto grande pressione”.

Di fronte a questa situazione, con Mueller che continua ad accumulare prove e si assicura la collaborazione di persone che con le loro testimonianze potrebbero danneggiare seriamente l’amministrazione, Trump sembra insolitamente tranquillo.

Trump è forse ancora convinto che la vicenda russa non lo riguardi

Il 23 febbraio, lo stesso giorno in cui Gates si è dichiarato colpevole, il presidente ha partecipato alla Conservative political action conference, l’incontro annuale degli attivisti e politici conservatori. “Non vi dispiacerà se vado fuori copione, visto che qui è tutto così noioso”, ha esordito. Ha continuato come se la campagna elettorale fosse ancora in corso: “Abbiamo dei mezzi d’informazione corrotti, e anche una candidata corrotta”, facendo partire il coro “lock her up, lock her up”, arrestatela.

Ha detto che il muro al confine con il Messico sarà costruito ancora più alto. Ha ribadito di voler sabotare l’Obamacare e di voler armare il personale scolastico per evitare altre stragi. Ha parlato dei suoi capelli. Nessun riferimento all’inchiesta sulla Russia, all’incriminazione di Gates e nessun attacco a Mueller.

Ci sono vari motivi per cui Trump non sembra essere troppo preoccupato dall’inchiesta sulla Russia. Per prima cosa è probabile che i suoi consiglieri e i suoi avvocati siano riusciti finalmente a convincerlo a non seguire la strada percorsa da Richard Nixon, che durante lo scandalo Watergate andò allo scontro frontale con le persone che indagavano su di lui e sulla sua cerchia, ordinò il licenziamento del procuratore speciale che gestiva l’inchiesta, perse l’appoggio di tutti i suoi alleati e si avviò alla messa in stato d’accusa.

Il secondo motivo è che Trump è forse ancora convinto che la vicenda russa non lo riguardi. In Fire and fury, il libro sui primi mesi della nuova amministrazione, Michael Wolff racconta che dopo ogni nuova rivelazione dei giornali e dopo ogni nuova prova presentata da Mueller il presidente chiedeva stupito ai suoi collaboratori perché dovesse perdere tempo a occuparsi di quella storia. In un certo senso non ha tutti i torti. Trump non sbaglia quando dice che finora non è stato toccato dall’inchiesta, e che finora Mueller non ha dimostrato che ci sia stata collusione tra l’amministrazione e la Casa Bianca.

Nel documento sull’incriminazione dei tredici cittadini russi c’è un vago riferimento a contatti con “individui all’oscuro di tutto” legati alla campagna elettorale di Trump, ma non è chiaro se sia un riferimento a collaboratori della cerchia ristretta del presidente.

Inoltre, le accuse contro Manafort e Gates finora riguardano operazioni di riciclaggio di denaro che risalgono ai tempi in cui i due funzionari lavoravano per leader ucraini legati al Cremlino, quindi prima che entrassero nel comitato elettorale di Trump. Infine Michael Flynn e George Papadopoulos: si sono dichiarati colpevoli solo di aver mentito sui loro contatti con funzionari russi, e non di aver instaurato dei rapporti con Mosca che possano provare un’accusa di collusione con un governo straniero.

Buone e cattive notizie
Questo non vuol dire che alla Casa Bianca siano tutti tranquilli. Christopher Ruddy, amministratore delegato di Newsmax e amico del presidente, ha riassunto bene la questione al New York Times: “La buona notizia è che in 18 mesi non è venuta fuori nessuna prova di collusione. La cattiva è che il procuratore speciale ha messo in piedi una strategia che punta a far cadere uno dopo l’altro i collaboratori del presidente”. Questo ci porta al punto centrale di tutta la vicenda: nessuno al di fuori della squadra di Mueller sa cosa abbiano in mano gli inquirenti e che strada stia prendendo l’inchiesta. Di sicuro le recenti incriminazioni dimostrano che il procuratore voglia colpire personaggi più importanti di Flynn e Manafort.

La chiave di volta di tutta la vicenda potrebbe essere Jared Kushner, genero di Trump e uno dei funzionari più importanti dell’amministrazione (il presidente ha detto che Kushner porterà la pace in Medio Oriente). La Cnn spiega che Mueller sta cercando di capire non solo perché Kushner abbia partecipato, nell’estate del 2016, a un incontro con un’avvocata russa che diceva di avere informazioni compromettenti su Hillary Clinton, ma anche i suoi movimenti finanziari con investitori stranieri durante il periodo di transizione.

Alla fine del 2017 Trump ha detto che qualsiasi intromissione di Mueller sulle finanze della sua famiglia sarebbe una violazione inaccettabile, una sorta di linea rossa che il procuratore dovrebbe stare attento a non superare. In realtà Mueller ha il mandato per indagare non solo sui legami con la Russia ma su tutto quello che verrà fuori dall’inchiesta, e i passi fatti finora fanno pensare che stia per varcare quella linea. A quel punto Trump potrebbe perdere il poco di pazienza e di autocontrollo di cui dispone, portare l’intera amministrazione allo scontro con la giustizia e trasformare le elezioni di metà mandato in un referendum su se stesso e la sua famiglia.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it