13 dicembre 2019 16:24

Una vittoria storica per i conservatori. Un riallineamento politico dopo dieci anni di governi deboli, coalizioni e parlamenti “appesi”. Era dal 1987 che i tory non avevano una maggioranza parlamentare di 38 deputati. E dal 1935 che i laburisti non conquistavano così pochi seggi, 203 per l’esattezza. Una riflessione in cinque punti per capire un voto che ridisegna il panorama della vita pubblica britannica e spalanca le porte alla Brexit dopo tre anni e mezzo di tentennamenti e incertezze.

1. Gli errori di Corbyn

In un sistema bipartitico come quello britannico le grandi forze politiche – quindi i conservatori e i laburisti – devono avere una vocazione maggioritaria. Se dimenticano questa semplice verità – come sembra aver fatto il leader del Labour Jeremy Corbyn – si condannano alla sconfitta. Moltiplicare gli iscritti, coinvolgere i giovani, aprirsi alla società non è bastato: bisognava conquistare un elettorato più ampio. E, come forse sapevano i deputati laburisti che nel 2015 hanno combattuto e perfino sabotato la sua nomina, Corbyn non è mai stata la persona adatta per un compito simile.

Con la Brexit che sembrava cosa fatta, nelle elezioni del 2017 ha incassato una dignitosissima sconfitta, aumentando di quasi il 10 per cento i voti rispetto a due anni prima e facendo parlare della rinascita di una nuova sinistra laburista. Ci è riuscito spostando il discorso dall’Europa alle questioni di politica interna. Forse a quel punto il partito avrebbe dovuto capire che quei quasi 13 milioni di consensi erano il massimo a cui il Labour corbyniano poteva aspirare. Stavolta, invece, l’operazione di ignorare la Brexit per parlare di economia e disuguaglianze non ha funzionato, perché dopo tre anni e mezzo di negoziati infruttuosi mettere la parola fine allo snervante percorso cominciato con il referendum del 2016 era davvero l’obiettivo prioritario per i britannici.

Poi c’è la questione della persona Corbyn. Le sue simpatie repubblicane e l’appoggio dato in passato ai nazionalisti irlandesi possono avergli alienato parte dei vecchi simpatizzanti laburisti nel nord dell’Inghilterra; e la riluttanza a prendere una posizione chiara sulle accuse di antisemitismo gli è costata l’appoggio della comunità ebraica e una dolorosa rottura con una fetta dell’elettorato urbano e progressista. Gli stessi elettori che non hanno apprezzato la sua incertezza sulla Brexit e il rifiuto a schierarsi apertamente per la permanenza in Europa.

Poi c’è la questione del programma: troppo lungo, troppo ambizioso e troppo radicale per essere credibile e convincere la maggioranza dei cittadini. Più che un manifesto elettorale, un progetto di lungo periodo per la trasformazione del paese. Per una convincente ed efficace piattaforma di sinistra forse poteva essere sufficiente promettere più tasse sui redditi alti, investimenti pubblici e un rilancio del servizio sanitario nazionale, magari anche la nazionalizzazione di aziende idriche e ferrovie. Ma la settimana lavorativa di quattro giorni, la confisca progressiva del 10 per cento dei titoli delle grandi aziende da distribuire ai lavoratori e la nazionalizzazione della banda larga hanno solo aggiunto confusione, offrendo il fianco a critiche più che sensate. Difficile pensare che simili idee fossero realizzabili in una legislatura. Tutti errori che la stampa, anche quella solitamente vicina ai laburisti, aveva individuato già prima del voto.

2. Il vero populista

Dimenticate i biondi ciuffi ribelli. Boris Johnson non è Donald Trump. Il paragone, alimentato da una certa similitudine tra il carattere guascone ed eccentrico, e in fondo profondamente inglese, del premier britannico e la rude e infantile schiettezza del presidente americano, è in realtà fuorviante. Johnson non è un outsider, un leader antisistema, tutto il contrario. Con scuole a Eton e Oxford e un ineccepibile pedigree da conservatore aristocratico è il perfetto esempio dell’uomo dell’establishment. Anche se ha fatto arrabbiare i custodi dell’ortodossia liberale (il Financial Times e l’Economist gli hanno negato l’endorsement) e ha litigato con l’ala più moderata del suo partito.

Come ha scritto di recente l’Atlantic, se in Gran Bretagna c’è un leader populista e antisistema, per certi versi accostabile a Trump, è Corbyn, non Johnson. Se poi si guarda oltre i modi arruffati del premier e l’apparente improvvisazione con cui ha gestito la Brexit negli ultimi mesi, si deve riconoscere che la sua strategia era ben congegnata sin dall’inizio. Ha sfidato il parlamento, si è opposto a una proroga della scadenza dell’uscita dall’Europa e, in extremis, ha siglato un accordo con Bruxelles, che il parlamento non ha votato. Così ha potuto convocare le elezioni e presentarsi agli elettori come l’uomo che aveva trovato la quadratura del cerchio e a cui il parlamento si era irresponsabilmente opposto. Viene da pensare che tutto sia stato architettato fin nei dettagli già da luglio. Tutto questo solleva diverse domande su quale Johnson sarà quello che, forte di una solidissima maggioranza parlamentare, governerà il paese nei prossimi cinque anni e guiderà i negoziati sul futuro assetto dei rapporti tra il Regno Unito e l’Europa. Non è da escludere che si riveli ben più responsabile e moderato di quanto mostrato finora.

3. Il Regno disunito

La Scozia è un mondo a parte. Dal 2015 sembra aver imboccato una traiettoria politica autonoma, del tutto indipendente rispetto al resto del paese. Dopo la vittoria degli unionisti nel referendum sull’indipendenza del 2014, alle elezioni legislative dell’anno seguente gli scozzesi hanno mandato al parlamento di Westminster 56 deputati dello Scottish national party (Snp) sui 59 da loro eletti. Nel 2010 i nazionalisti scozzesi avevano fatto eleggere solo 6 deputati e il Labour 41. Nella prossima legislatura i parlamentari nazionalisti saranno 48. È evidente che questo riassestamento, che ormai si può definire strutturale, è uno dei motivi della debolezza del Labour, che prima del referendum aveva sempre fatto incetta di seggi a nord del vallo di Adriano.

Ma il tema più delicato è la tenuta del Regno Unito. La leader nazionalista scozzese Nicola Sturgeon l’ha detto chiaramente: la Scozia ha votato per rimanere in Europa e Johnson non ha nessun mandato per portarla fuori dall’Unione. La soluzione è un nuovo referendum sull’indipendenza. Che però il primo ministro conservatore ha più volte affermato di non voler concedere. Sarà questo uno dei punti d’attrito da tenere d’occhio nei prossimi cinque anni. Oltre, ovviamente, alla questione nordirlandese. Per la prima volta da decenni la regione ha eletto più deputati repubblicani e nazionalisti irlandesi che unionisti. E questi ultimi non sono per niente soddisfatti dell’accordo con l’Europa siglato da Johnson, che di fatto introduce un confine marittimo tra la l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. A oltre vent’anni dagli accordi del venerdì santo, che nel 1998 misero fine a trent’anni di troubles, il tema dell’Irlanda unità torna di attualità.

4. Le ragioni del remain

La Brexit è stata senza dubbio il tema chiave del voto. E i britannici hanno dato una schiacciante maggioranza al partito che prometteva di voltare pagina e uscire dall’Europa senza ulteriori esitazioni. Ma, se si guardano i numeri, si scopre che i voti per le forze favorevoli alla permanenza in Europa, o a un nuovo accordo da sottoporre a voto popolare, sono in maggioranza. I britannici che hanno votato per il Labour, i Liberaldemocratici, l’Snp e i Verdi sono in totale 16,8 milioni. I voti conservatori sono invece 13,9 milioni.

Com’era già successo negli ultimi tre anni, e come dimostrato dal fallimento della campagna per un secondo referendum sulla Brexit, le forze europeiste non hanno saputo costruire una piattaforma comune. Il voto dei leaver, al contrario, è stato monopolizzato dai conservatori, che – anche grazie a un accordo di desistenza – hanno praticamente azzerato il Brexit party di Nigel Farage, il quale a sua volta aveva sostituito lo United Kingdom indipendence party (Ukip). L’opinione pubblica, insomma, è spaccata, molto più di quanto faccia immaginare la distribuzione dei seggi in parlamento, figlia di una sistema di voto (maggioritario uninominale secco a turno unico) che tra i tanti meriti non ha certo quello di rappresentare fedelmente la volontà degli elettori.

5. Londra e l’Europa

Se non ci saranno sorprese, il Regno Unito uscirà dall’Europa il 31 gennaio 2020. Poi ci saranno da negoziare i futuri rapporti tra Londra e l’Unione, e non è affatto detto che l’ottimistica scadenza del 31 dicembre 2020 sarà rispettata. Da più parti si dice che il divorzio dai britannici potrebbe offrire l’opportunità per costruire un’Unione più solida, più coesa e più “politica”. Non sarà facile. Perché i paesi membri rimangono comunque 27 , parecchi per immaginare un’improvvisa unità d’intenti. Perché inevitabilmente i motivi di contrasto – sul bilancio, la libertà di movimento, l’emergenza climatica, l’allargamento – non si esauriranno. E perché un nuovo fronte in grado di frenare un ulteriore consolidamento delle istituzioni comunitarie ha già preso forma. Ed è rappresentato da Polonia e Ungheria.

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