15 maggio 2017 15:47

Nel fine settimana ho partecipato al festival Sabir a Siracusa, il festival diffuso delle culture mediterranee, come lo definiscono i suoi organizzatori (Arci, Acli e Caritas italiana e altre piccole associazioni). Il festival s’ispira a Sabir, la lingua franca parlata dai pescatori siciliani, tunisini, egiziani per i loro commerci nel mar Mediterraneo, una lingua che si serviva di parole italiane, spagnole e arabe. Proprio al mar Mediterraneo e a chi lo attraversa è stata dedicata questa terza edizione, con un’attenzione particolare alle organizzazioni che in questi ultimi anni si sono occupate di soccorrere i migranti in mare, in un momento in cui queste associazioni subiscono un attacco senza precedenti.

“Siamo stanchi di dover spiegare sempre le stesse cose”, dice Riccardo Gatti, il coordinatore della ong spagnola Proactiva Open Arms, “quello che facciamo è salvare vite umane e lo facciamo seguendo il protocollo della guardia costiera italiana e delle autorità internazionali”. Ma negli ultimi tempi accuse e sospetti sono stati amplificati da politici e mezzi d’informazione e si sono estesi a tutte le organizzazioni che si occupano di solidarietà.

Regina Catrambone, fondatrice e direttrice del Moas, un’altra organizzazione che soccorre i migranti in mare, dice che preferirebbe essere convocata dalla procura invece di doversi difendere da accuse confuse e generiche sui mezzi d’informazione. “Vivendo a Malta, ho saputo delle accuse contro di noi da amici italiani che mi hanno avvertito”, confessa. Padre Mosè Zerai, punto di riferimento della comunità eritrea in Italia e in Europa, spiega che l’offensiva contro le ong porterà a un parziale ritiro dei soccorsi e a un aumento dei morti, perché l’Europa vuole usare i morti come “deterrente, ma è già stato dimostrato che oltre a essere inumano questo metodo non funziona. Sono morte decine di migliaia di persone nel Mediterraneo negli ultimi anni, ma malgrado questo si continua a partire”.

Gli operatori che lavorano nel soccorso e nell’accoglienza sono stanchi, la campagna contro le ong che salvano vite nel Mediterraneo si è estesa velocemente a tutte le organizzazioni umanitarie. “Riceviamo su Twitter e sul telefono messaggi di ogni tipo con le accuse più gravi”, racconta Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci. “Addirittura ci è stato detto che stiamo lavorando a una sostituzione etnica e queste posizioni sono state rafforzate dalle dichiarazioni irresponsabili fatte dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro davanti alla commissione difesa del senato”, continua Miraglia. “Un servitore dello stato non dovrebbe esprimere giudizi politici, ma dovrebbe fare il suo lavoro: svolgere indagini”. Secondo Miraglia, “Bisogna respingere tutti insieme l’attacco che coinvolge l’idea stessa di solidarietà”.

Gli effetti collaterali
In questo clima si moltiplicano le aggressioni contro gli operatori e le organizzazioni umanitarie: il 13 maggio il gruppo di estrema destra, Generazione identitaria, ha provato a bloccare la nave Aquarius di Sos Méditerranée nel porto di Catania, il 4 marzo i neofascisti di Forza Nuova hanno attaccato la sede dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), l’attivista Nawal Soufi ha ricevuto minacce da gruppi xenofobi catanesi, il 6 maggio al festival Mediterraneo downtown a Prato ha fatto irruzione un gruppo del Movimento nazionale e di Gioventù identitaria gridando lo slogan “Ong scafiste”.

Molti operatori sono sconfortati. Si trovano sempre più soli a dover gestire situazioni disperate. Valentina Brinis dell’associazione A buon diritto spiega che allo sportello legale che gestisce a Roma si presentano casi sempre più complicati, complici le leggi italiane ed europee che producono problemi invece che risolverli. “Ultimamente sto seguendo il caso di un ragazzo albanese malato terminale di tumore a cui non viene concessa la protezione umanitaria e che è in una situazione di irregolarità”, racconta.

“Un tempo si trovava sempre una soluzione per casi limite come questo e invece ora è sempre più difficile, ci si scontra con leggi complicate e irrazionali”. Anche Giorgia Girometti di Medici senza frontiere conferma le difficoltà quotidiane di chi è in prima linea: “Sulle navi di soccorso ci troviamo di fronte persone sempre più giovani, provate del viaggio e invece di pensare alla loro assistenza dobbiamo spendere molte energie per contrastare gli attacchi che riceviamo da tutte le parti”.

“A essere messo sotto attacco è lo stesso concetto di solidarietà, che da motivo di orgoglio è diventato oggetto di sospetto”, hanno scritto in un appello Arci, Caritas Italiana, Acli, Asgi, Amnesty International in cui chiedono a cittadini e associazioni di schierarsi al fianco di chi ogni giorno lavora per l’inclusione e l’accoglienza.

Ridurre i danni
Anche il quadro legislativo, tuttavia, è sempre più problematico. “Il decreto Minniti Orlando sull’immigrazione introduce un diritto diseguale, minore, per i cittadini stranieri, abolendo il secondo grado di giudizio per i ricorsi presentati dai richiedenti asilo”, spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del senato. E poi c’è l’estensione della rete degli ex Centri per l’identificazione e l’espulsione (Cie), ribattezzati Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Ce ne sarà uno in ogni regione per un totale di 1.600 posti. Il ministro dell’interno Marco Minniti a febbraio aveva promesso che sarebbero stati diversi dai vecchi Cie, più piccoli e più attenti al rispetto dei diritti umani. “Ma la lista che è stata diffusa recentemente dal Corriere della Sera mostra che undici centri sorgeranno nelle stesse strutture dei vecchi Cie”, continua Manconi.

Dopo essersi battuto per anni per la chiusura di questi centri inumani e inutili, Manconi è stato sorpreso dalla decisione del governo di estenderli: “Erano delle strutture ormai in dismissione perché ne avevamo dimostrato l’inutilità”. Infatti secondo l’ultimo rapporto della commissione diritti umani del senato sui centri, aggiornato al maggio del 2017, negli ultimi anni “la percentuale delle persone rimpatriate dopo essere transitate dai Cie, oscilla tra il 49 e il 50 per cento”. Solo la metà delle persone rinchiuse nei centri viene in effetti rimpatriata dopo essere stata detenuta. Manconi però non si sente sconfitto e invita a pensare alla politica come un tentativo di ridurre i danni. “Nel 2014 con un emendamento abbiamo limitato i tempi di trattenimento massimo nei Cie da 18 mesi a 90 giorni”, afferma. “Faccio politica perché sono pessimista”, conclude.

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