10 gennaio 2018 13:33

Il giudice del tribunale militare israeliano chiede all’adolescente Ahed al Tamimi: “Come hai fatto a dare uno schiaffo a un nostro soldato?”. Lei risponde: “Toglietemi le manette e vi faccio vedere”. È nata un’icona della ribellione palestinese.

Ahed al Tamimi ha 16 anni e proviene da un piccolissimo paese della Cisgiordania, Nabi Saleh, abitato da meno di 500 persone e completamente circondato da insediamenti israeliani. Il suo nome si sta aggiungendo alla lunga lista di donne palestinesi che dopo Leila Khaled, negli anni settanta, hanno combattuto quanto gli uomini e hanno incarnato la moderna lotta palestinese agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

La vicenda comincia il 14 dicembre, quando Mohamed Tamimi, 14 anni, cugino di Ahed, viene colpito alla testa da un proiettile sparato a bruciapelo da un soldato israeliano. La pallottola lo prende al naso e gli rompe la mascella prima di perforare la parte sinistra del cervello. Mohamed è sopravvissuto ma ha perso metà del volto.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Poche ore dopo dei soldati si appostano nella proprietà della famiglia mentre altri cercano di entrare in casa di Ahed: la ragazza vuole scacciarli, ne spintona uno e cerca di schiaffeggiare l’altro. L’unica cosa straordinaria di quest’evento, normale nei territori occupati, è che la mamma filma l’accaduto e lo pubblica in streaming. Il video è diventato virale.

La guerra in diretta
La telecamera è al centro della questione. Per Richard Silverstein del Middle East Eye, i soldati non hanno risposto allo schiaffo solo perché erano filmati ed è anche per questo che in Israele, dove l’adolescente è sotto processo, l’opinione su Ahed al Tamimi è drasticamente diversa che in Palestina. Il ministro dell’istruzione Naftali Bennett ha dichiarato alla radio che dovrebbe essere “chiusa in galera gettando la chiave”. Il giornalista Ben Caspit ha scritto su Maariv (e ripetuto in televisione) “che meriterebbe una punizione, al buio, senza testimoni e senza telecamere”, chiaro invito allo stupro di una ragazza di 16 anni. Perché tanto odio verso Ahed che, in fondo, ha solo cercato di dare uno schiaffo?

Per l’opinione pubblica israeliana, la ragazza ha “umiliato” il soldato, ed è per questo che hanno reagito solo dopo che il video è diventato virale. Nella notte del 19 dicembre sono andati a prenderla a casa per farle affrontare un processo con ben 12 capi d’accusa contro di lei. Sulla rivista israeliana online+972, l’avvocata della ragazza tiene a specificare: “Non è un tribunale israeliano civile, ma un tribunale militare, nel quale il giudice indossa la stessa divisa dell’accusa”.

Shooting back
L’andamento della “questione” Ahed al Tamimi fa tornare in mente un progetto lanciato nel 2010 da una ong israeliana che aveva regalato 150 telecamere a dei giovani palestinesi per “rispondere al fuoco con le immagini” – shooting back, che in inglese significa allo stesso tempo rispondere con un’arma e filmare – e documentare la realtà palestinese dall’interno per raccontarla al mondo.

Per i palestinesi è una questione di sopravvivenza: l’opinione pubblica internazionale è un interlocutore fondamentale per la Palestina, che vive sotto occupazione, non ha un’economia propria e vive di aiuti esteri. Ovviamente, fin da quando da bambina era stata fotografata mentre dava un morso a un soldato per fargli lasciare suo fratello (aveva dieci anni), in questa guerra delle rappresentazioni gli elementi di un razzismo ordinario non mancano: la folta chioma e i suoi occhi chiari per alcuni la rendono meno palestinese, come racconta Jonathan Ofir nel suo articolo “Basta parlare dei capelli di Ahed al Tamimi”.

Ora sulla pagina Facebook #FreeAhedTamimi ci sono migliaia di ritratti e fotografie che raccontano la costruzione di un mito: Ahed su un cavallo bianco pronta, come Saladin, a difendere Gerusalemme con i suoi lunghi capelli al vento, o ancora rappresentata come una novella Giovanna d’Arco.

Di fatto, i social network non fanno che amplificare una guerra delle immagini che nel conflitto israelopalestinese si svolge da sempre. Leila Khaled (militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina accusata di terrorismo) era stata dipinta e innalzata come un’eroina quanto Che Guevara sulle T-shirt della sinistra di mezzo mondo, mentre altri si erano sentiti offesi da una mitologia costruita intorno a una terrorista. Per Ali Amro, professore di sociologia all’Università del Cairo “Israele ha sempre temuto le icone palestinesi, con nomi, visi e storie, che permettono ai palestinesi e al mondo di attribuire una faccia e umanizzare le complesse questioni israelopalestinesi che spesso cadono nella più oscura astrazione, spesso in favore di Israele”.

La posta in gioco è però molto alta. Anche perché bisogna ricordare che questa ragazza è imprigionata per essersi difesa come altri 331 minori palestinesi in detenzione militare dallo scorso maggio e come i 375 minori palestinesi che vengono arrestati in Israele, in media, ogni mese.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it