09 luglio 2018 17:24

“Tareq? Mi senti? Dove sei?”.

“Sto provando ad attraversare una frontiera, che altro? Quando sei palestinese…”.

Non c’è migliore introduzione allo “spirito 47” che un’intervista al telefono a cavallo tra due frontiere. La musica dei 47Soul è il ritorno a una melodia orientale senza confini, precedente alla divisione della Palestina del 1947. I quattro componenti del gruppo musicale sono palestinesi, ma ognuno ha un passaporto diverso: quelli di El Far3i ed El Jehaz sono giordani, Z the People è nato a Washington da famiglia palestinese, Sbait ha un passaporto israeliano. Si sono incontrati ad Amman nel 2013 perché “la Giordania è uno dei paesi più facili dove entrare con i nostri passaporti. Ma poi è comunque molto difficile muoversi nella regione”, e così hanno deciso di spostarsi a Londra per la loro musica.

We are good they saw us alive
But we need more light

Stiamo bene, ci hanno visti vivi
Ma abbiamo bisogno di più luce

Le parole di Mo light sono state scritte all’inizio della loro residenza a Londra: “Al nostro arrivo la vita non è stata facile “, spiega Tareq Abu Kwaik, alias El Far3i. “E quando una nostra ex manager ci ha chiesto come stavamo, questo è quello che le abbiamo risposto: bene, ma abbiamo bisogno di vedere la luce. Questa rima si adatta anche molto alla situazione palestinese odierna… e a molte altre”.

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L’intervista va avanti a tratti, per un palestinese non è mai facile passare una frontiera, ma alla fine tutto va bene, anche con l’umorismo e il buon umore contagioso del gruppo: 47Soul è una stella nascente della scena elettronica palestinese, il loro successo attraversa tutte le frontiere. Nel mondo arabo sono ascoltati ovunque, e ora stanno facendo un tour di 17 date in Europa e suoneranno anche in Italia: il 12 luglio a Cividale del Friuli (in provincia di Udine) e il 17 agosto all’Ariano Folk Festival.

La dabka
Con il primo album, Shamstep, 47Soul ha ripreso i ritmi a cadenza velocissimi della dabka, la danza conviviale e familiare che fa ballare generazioni di arabi dalla Siria alla Palestina, dalla Giordania al Libano. Ogni occasione è buona per lanciare una dabka: dai matrimoni alle feste di quartiere. La danza ha la particolarità di includere tutti, dai più piccoli ai più grandi. I migliori danzatori, quelli con più energia, sono all’inizio della fila per dare l’impulso e, a mano a mano, tutti seguono. “Non mi ricordo neanche la prima volta che ho sentito la musica della dabka. È così diffusa in Palestina e in Giordania che è completamente parte di noi. Walaa (uno dei musicisti del gruppo) è un danzatore professionista. È lui ad averci poi insegnato a ballare e a creare un ritmo e una danza estatici”.

La dabka negli ultimi anni è diventata un vero patrimonio culturale, l’affermazione di un’identità palestinese festosa: alla frontiera di Gaza, dove i giovani palestinesi manifestavano durante la Marcia del ritorno, il gruppo di ragazzi che balla davanti ai militari israeliani – il video ha fatto il giro del mondo – ha scelto un loro pezzo remixato per danzare. E il successo è intergenerazionale: “Un signore anziano, in taxi a Ramallah spiegava che gli piace la nostra musica perché gli piace sentire i giovani che fanno ‘hop hop’ (hip hop) mescolato a una musica così tradizionale come la dabka”.

In un mondo che chiude le frontiere, il gruppo palestinese ha qualcosa da dire che va molto oltre i conflitti del Medio Oriente. Il loro tour è intitolato Balfron promise (promessa di Balfron): “Il titolo ricorda allo stesso tempo la dichiarazione di Balfour che ha promesso la Palestina a Israele nel 1947 –senza chiedere il permesso ai suoi abitanti – e la torre Balfron a Londra dove abbiamo cominciato a vivere appena arrivati nel Regno Unito. Piano piano gli abitanti della torre sono stati cacciati di casa per via della gentrificazione della città. È un messaggio per tutte le persone cacciate di casa ovunque nel mondo, è universale”, spiega Tarek.

Scena elettronica entusiasmante
47Soul appartiene a un movimento mediorientale che riscopre le musiche tradizionali popolari come lo chaabi in Egitto o la gnawa in Marocco e che fa ballare i giovani grazie all’accompagnamento elettronico. E così, in una regione in fiamme, questa nuova generazione di palestinesi apre le frontiere culturali. È la cultura shami, cioè del Bilad al Sham: “Storicamente il Bilad al Sham è la regione che comprende Palestina, Giordania, Siria e anche, secondo alcuni, parte della Turchia e Cipro”, spiega Tarek. Ora, a causa delle guerre, le frontiere si fanno permeabili, con i palestinesi rifugiati in Libano o in Giordania dal 1947 o, più recentemente, con i sei milioni di siriani spostati ovunque nel Bilad al Sham. 47Soul è la risposta positiva alla tragedia, un ritorno festoso, metaforico e felice a una cultura comune malgrado gli esodi, le frontiere, le dogane.

“Ora che giriamo molto in Europa incontriamo tanti siriani alla fine dei concerti. Un giovane, una sera, ci ha raccontato che ascoltavano la nostra musica sul gommone mentre fuggivano. È terribile da sentire, ma ci tocca profondamente”.

La terza, e anche la quarta generazione di palestinesi esuli usa così l’arabo quanto l’inglese e parla a tutti: “We don’t care where are you from…” (non ci interessa da dove vieni), dice una canzone. Questo loro sano attaccamento a una cultura palestinese e shami diventa così il migliore manifesto per le frontiere aperte, ballando.

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