28 settembre 2018 14:12

Omar Rajeh, figura chiave della danza contemporanea libanese, presenta nell’ambito del Romaeuropa festival una creazione in anteprima: Minaret, una coreografia ispirata al minareto della Grande moschea di Aleppo, in Siria, distrutto dai combattimenti della guerra civile nell’aprile del 2013. In scena ballerini, droni e musicisti, in una performance che vuole spingere lo spettatore a chiedersi com’è possibile che una città ci sparisca da davanti agli occhi.

Omar Rajeh è nato nel 1975, l’anno in cui in Libano cominciò il conflitto durato quindici anni che lasciò in macerie gran parte della capitale Beirut. La guerra libanese, racconta Rajeh, “non l’ho vissuta in prima persona, ero molto giovane, per me era quasi un gioco”. Quella in Siria, invece, “non si può non vedere, a causa della profusione d’immagini di violenza, morte, e distruzione”.

Rajeh è un importante esponente della scena artistica libanese. Coreografo e danzatore, ha alle spalle un lungo percorso creativo, con lavori come Mushrooms and fig leaves (2011), That part of Heaven (2013) o Beytna (”casa nostra”, del 2016). A Rajeh è attribuito il merito di aver creato uno spazio per la danza contemporanea a Beirut e in altre capitali del mondo arabo.

Tutto da zero
È arrivato alla danza contemporanea attraverso la dabka, un ballo tradizionale diffuso in tutto il Medio Oriente. Inizialmente si esibiva con la compagnia di Abdel Halim Caracalla, le cui performance mescolavano modernità e folklore. Poi Rajeh ha sentito la necessità di esprimersi in modo più personale. Ma non c’erano luoghi dove poteva presentare i suoi lavori, così ha lanciato un festival, Bipod, che oggi è alla quindicesima edizione. L’anno scorso ha inaugurato Citerne Beirut, uno spazio dedicato a queste rappresentazioni. Perché caricarsi di un tale fardello? “Non ho mai pensato di avere un’altra scelta”, spiega Rajeh. “Se volevo presentare un lavoro che mi corrispondesse, dovevo creare il contesto adatto”.

Bipod si è ampliato, coinvolgendo altre capitali arabe che soffrivano della stessa mancanza di luoghi di rappresentazione: c’è un’edizione ad Amman, in Giordania, e una a Ramallah. “La gente di Ramallah ha l’impressione di essere tagliata fuori dal mondo, Bipod l’aiuta a sentire il legame culturale e artistico tra gli artisti arabi. E poi siamo così vicini, neanche due ore di auto…”, osserva Rajeh.

La solidarietà tra ballerini arabi è una costante della sua carriera. Rajeh ha aiutato molti giovani artisti della regione a emergere. Oggi con Minaret rivolge lo sguardo a un’altra città molto vicina a Beirut: Aleppo, città millenaria, centro della musica classica araba più raffinata, oggi devastata dal terribile assedio finito nel 2016.

È cominciato tutto con un video di Aleppo che Rajeh ha visto su Facebook

È cominciato tutto con un video di Aleppo che Rajeh ha visto su Facebook: la ripresa fatta da un drone svelava una città distrutta; la moschea di Aleppo, uno dei gioielli dell’architettura della dinastia Omayyade, bombardata, il suo minareto a terra. “Dovevo mettere ‘mi piace’ a quelle immagini di distruzione? O dovevo continuare lo scroll?’”, si è chiesto Rajeh. “A Beirut vivono 1,5 milioni di profughi siriani. È impossibile non sentirsi toccati da quella tragedia”.

Minaret prevede anche una “coreografia per drone”: sulla scena c’è un drone dotato di una telecamera che riprende i movimenti dei danzatori. Le immagini di distruzione di Aleppo, come quelle di altre città mediorientali, sono ormai viste attraverso le riprese di questi apparecchi. “Come si può gestire questa violenza? Come vogliamo vivere con questo? Guardando o non guardando? È possibile che una città sparisca così davanti ai nostri occhi?”, si chiede il danzatore.

Rajeh ormai presenta le sue creazioni in tutto il mondo e praticamente vive in tournée. Gli si pone così una nuova domanda: partire o rimanere a Beirut, un ambiente piuttosto ristretto per la danza contemporanea? La sua attività creativa potrebbe essere più comoda in Europa, ma Rajeh è un artista impegnato: “Mi sento ‘responsabile’, sento che c’è ancora una causa da difendere in Libano. E quello che faccio ha un senso nel mio paese”. Intanto porta un po’ di Beirut e di Aleppo a Roma.

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