18 gennaio 2019 13:46

Rania al Baz, autrice dell’autobiografia Sfigurata è stata la prima saudita a usare i social network per denunciare la violenza domestica in Arabia Saudita, 15 anni fa. Il 4 aprile 2004, suo marito, geloso del suo successo, le spaccò il viso sul pavimento di cucina causandole 13 fratture al volto. Rania accettò all’epoca di pubblicare una testimonianza del suo viso tumefatto sui social network, prima volta in assoluto nel regno. Il viso di Rania, già uno dei più conosciuti della tv saudita – lei presentava il programma di successo Il regno questa mattina – era diventato altrettanto famoso per l’orrore delle violenze domestiche.

Le violenze e gli abusi sulle donne non sono una prerogativa dell’Arabia Saudita, ma le donne in questo paese sono considerate legalmente come minorenni e non possono viaggiare senza l’autorizzazione di un uomo. In questo contesto sociopolitico, scappare dagli abusi e dalle violenze diventa quasi impossibile.

Nuove frontiere da abbattere
La giovane saudita Rahaf Mohamed però ci è riuscita: ha approfittato di un viaggio della famiglia in Kuwait per fuggire in aeroporto e poi in Thailandia. Voleva raggiungere l’Australia. Chiusa in una stanza d’albergo ha lanciato da lì una chiamata d’aiuto tramite il suo account Twitter, ed è stata accolta come rifugiata il 15 gennaio in Canada.

La generazione di queste giovani ragazze sta rompendo nuove frontiere: scappano dal paese quando devono scappare da casa. E questo grazie ai social media: l’Arabia Saudita è il quarto paese al mondo per l’uso di Twitter, con 11 milioni di utenti.

Secondo The Economist sarebbero circa mille ad avere tentato di fuggire. C’erano state le due sorelle Ashwaq e Areej Hamoud che hanno utilizzato una campagna sui social media nel 2017 per rendere pubblico il loro problema. Ma sono state arrestate in Turchia e lottano ancora contro l’ordine di deportazione verso l’Arabia Saudita. Il ricercatore sul Medio Oriente dell’organizzazione per i diritti umani di Human Rights Watch, Adam Coogle, raccontava nel 2017 di Mariam al Oteibi, 29 anni, e di Dina Ali Lasloom, 24 anni, che hanno anche loro provato a fuggire dall’Arabia Saudita verso l’Australia. Entrambe sarebbero oggi in centri di detenzione sauditi.

La campagna di Twitter intorno a Rahaf, sostenuta da Human Rights Watch è stata velocissima, #SaveRahaf ha raggiunto un milione di utenti in 12 ore.

L’organizzazione sottolinea però che per una Rahaf, molte altre donne non ce la fanno. Michael Page, vicedirettore per il Medio Oriente di Human Rights Watch si è felicitato per la sorte di Rahaf Mohamed ma ha anche ricordato che “proseguono le interferenze illecite delle autorità saudite all’estero che contribuiscono a forzare il ritorno di donne che fuggono da abusi e violenze delle loro famiglie. Apparentemente, le autorità saudite vogliono non solo perpetuare la discriminazione delle donne a casa, ma anche impedire alle donne saudite di viaggiare liberamente, assicurandosi che quelle che sono riuscite a scappare siano obbligate a tornare a una vita di abusi”.

Secondo i giornali ufficiali sauditi, il Canada persegue “una politica cieca”: in un editoriale sul quotidiano Okaz, Khalid Al Jammarah scrive: “Il governo canadese ignora milioni di persone sfollate a causa della guerra ma si preoccupa di un semplice problema di famiglia”.

Per la professoressa saudita Madawi Al Rasheed della London School of Economics, la questione è invece da gestire politicamente: “La vera riforma sarà quando le donne – e gli uomini – si sentiranno sicure nel loro paese, libere dagli abusi della famiglia o delle forze di polizia. Perché questo succeda, ci vuole una volontà politica forte per gestire tutti quegli aspetti del patriarcato oppressivo che limita le scelte delle donne”.

Rahaf ha chiesto di potere vivere nell’anonimato perché quello che l’ha spinta a intraprendere questo lungo viaggio era semplicemente il fatto di “non avere più nulla da perdere”.

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