31 maggio 2019 10:06

Israele si prepara a indire nuove elezioni dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare il nuovo governo e gli Stati Uniti sperano che questo non avrà ripercussioni sul piano di pace per il Medio Oriente che presenteranno in Bahrein a fine giugno. Intanto, però, i palestinesi hanno qualcosa di più urgente a cui pensare: sopravvivere. “Stiamo risparmiando su tutto. Compriamo solo le cose fondamentali”, ha detto all’agenzia Reuters Kadhim Harb, un dipendente del ministero dell’economia che abita a Ramallah, in Cisgiordania.

Quando a febbraio il governo israeliano ha deciso di rendere effettiva una legge approvata nel luglio 2018 per congelare una parte delle tasse e dei dazi palestinesi riscossi da Israele e trasferiti ogni mese all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), in molti hanno pensato a una mossa elettorale in vista del voto del 9 aprile.

Il voto è passato, ma poi le cose si sono complicate per Netanyahu, che è già incriminato per corruzione, frode e abuso d’ufficio in tre diversi casi. Il primo ministro non è riuscito a trovare l’accordo per formare una nuova coalizione di governo a causa delle divisioni tra gli alleati laici e religiosi e nella notte tra il 29 e il 30 maggio i parlamentari hanno dissolto la knesset, spianando la strada a nuove elezioni, fissate per il 17 settembre.

Sull’orlo del precipizio
In questa impasse politica, unica nella storia di Israele, è molto improbabile che si possa trovare una soluzione alle difficoltà economiche dei palestinesi. Il blocco del denaro palestinese è ancora in vigore. E rischia di trascinare l’Anp sull’orlo di un precipizio che potrebbe inghiottire non solo la leadership palestinese, ma anche la stabilità di Israele e ogni speranza residua di arrivare a una soluzione del conflitto che infiamma il Medio Oriente.

La legge entrata in vigore a febbraio consente al governo israeliano di trattenere ogni mese il 5 per cento dei 190 milioni di dollari di entrate fiscali palestinesi. L’importo equivale ai 138 milioni di dollari che ogni anno l’Anp versa alle famiglie dei palestinesi in carcere in Israele per reati legati alla sicurezza. Per Israele quei soldi servono a finanziare il terrorismo.

Il trasferimento di tasse e dazi da Israele all’Anp è stabilito dal protocollo di Parigi del 1994. Si tratta delle tasse provenienti dai palestinesi che lavorano in territorio israeliano e dalle importazioni che raggiungono la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza attraverso i porti israeliani. Deciso a non subire quella che considera un’ennesima umiliazione, il presidente palestinese Abu Mazen ha rifiutato del tutto il trasferimento di denaro dal governo israeliano e ha messo in atto delle misure di austerità che stanno stritolando la popolazione.

Come ricorda David Rosenberg su Haaretz, doveva trattarsi di un accordo temporaneo in vista della creazione di uno stato palestinese che avrebbe raccolto da solo le tasse e i dazi doganali. “Ma questo non è mai successo e negli anni l’Anp è diventata questa strana creatura fiscale che riceve la maggioranza delle sue entrate da Israele e dalle donazioni estere”.

L’ennesimo colpo si abbatte su una società palestinese già messa a dura prova da un “politica di punizione economica” voluta dagli Stati Uniti

L’occupazione israeliana e la corruzione interna all’Anp hanno contribuito a impedire l’affermazione di un settore privato che potesse creare lavoro e crescita economica, e così l’Anp è diventato il principale datore di lavoro e il motore dell’economia palestinese. Secondo i dati del Palestinian central bureau of statistics (Pcbs), nel 2018 circa il 30 per cento dei lavoratori palestinesi era occupato nel settore pubblico. E considerando che nello stesso anno il tasso di disoccupazione in Palestina era del 31 per cento, un posto nel settore pubblico può essere ritenuto un obiettivo molto ambito.

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Così le misure di austerità introdotte dall’Anp hanno messo in difficoltà migliaia di famiglie. A febbraio, marzo e aprile l’Anp ha versato a circa 150mila funzionari solo la metà dei loro stipendi. Per il mese del Ramadan, cominciato il 6 maggio, è arrivato al 60 per cento, con un minimo di 554 e un massimo di 2.770 dollari. La linea di austerità è prevista fino a luglio, sperando che nel frattempo si trovi un compromesso. Altrimenti, come ha avvertito Rosemay Di Carlo, sottosegretaria per gli affari politici delle Nazioni Unite, l’Anp rischia “il collasso economico”. Secondo la Banca mondiale, il trasferimento di denaro proveniente da Israele, stimato in 2,4 miliardi di dollari all’anno, costituisce il 65 per cento delle entrate dell’Anp e il 15 per cento del pil palestinese.

Politicizzazione dell’aiuto umanitario
Questo ennesimo colpo si abbatte su una società palestinese già messa a dura prova da quella che il quotidiano francese Le Monde ha definito una “politica di punizione economica” portata avanti dall’amministrazione statunitense di Donald Trump “con l’obiettivo di piegare l’Anp in vista del piano di pace”. Il 31 agosto 2018 il dipartimento di stato ha annunciato il taglio dei finanziamenti statunitensi all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi. Con circa 300 milioni di dollari all’anno, Washington è stata a lungo il principale donatore dell’Unrwa, sui cui programmi nel campo dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali fanno affidamento cinque milioni di rifugiati palestinesi. Qualche giorno prima gli Stati Uniti avevano ritirato anche i circa 200 milioni di dollari destinati nel 2017 dall’agenzia per lo sviluppo internazionale Usaid a programmi realizzati nella Striscia di Gaza.

Pierre Krähenbühl, commissario generale dell’Unrwa, parla di “politicizzazione dell’aiuto umanitario”. A margine di un incontro all’Istituto affari internazionali a Roma, Krähenbühl spiega che “questa decisione politica è legata all’annuncio del trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Il riconoscimento da parte degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele ha provocato la dura reazione dei palestinesi e la controreazione di Washington è stata di tagliare tutti i finanziamenti ai palestinesi, compresi gli aiuti umanitari. È la prima volta che succede”.

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La prima conseguenza del taglio dei fondi statunitensi, ricorda il commissario generale, è stata “un aumento immediato dell’ansia” tra i profughi palestinesi, preoccupati per la possibile chiusura di scuole, centri sanitari e altri progetti gestiti dall’Unrwa non solo nei Territori occupati, ma anche in Giordania, in Siria e in Libano. “Il momento peggiore è stato nel luglio del 2018, quando abbiamo esaurito i fondi destinati alle emergenze e abbiamo dovuto tagliare 118 posti di lavoro a Gaza e ridurre alcune delle nostre attività”, si rammarica Krähenbühl. “Ma poi, grazie alla mobilitazione di molti paesi in tutto il mondo, dell’Unione europea, ma anche dei singoli stati che la compongono, tra cui l’Italia, siamo riusciti a garantire tra il 95 e il 98 per cento dei nostri servizi”.

Soluzioni di breve periodo
Anche l’Anp è stata soccorsa dai suoi partner abituali. Il 6 maggio il Qatar ha annunciato un nuovo aiuto da 480 milioni di dollari, mentre il 21 aprile la Lega araba ha promesso cento milioni di dollari al mese. Ma si tratta di rimedi provvisori, che non eliminano la necessità di una soluzione di lungo periodo. L’economista palestinese Mohammed Samhouri scrive sul sito del Carnegie endowment for international peace che “in un’economia palestinese in cui il consumo pubblico e privato sono il principale motore di crescita, le misure di austerità prolungate raggiungeranno un punto oltre il quale avranno ripercussioni negative su una crescita economica già anemica, che secondo le proiezioni dell’Fmi sarà dell’1,5 per cento nel 2019, e di conseguenza aggraveranno la disoccupazione e i tassi di povertà e faranno diminuire il reddito pro capite”. Difficilmente un aumento della disoccupazione e della povertà non si tradurrà in un aumento della violenza.

Continuare a resistere
È in questo clima che i palestinesi si preparano all’“accordo del secolo” per la pace in Medio Oriente, voluto dal presidente Donald Trump, che sarà presentato il 25 e il 26 giugno a Manama, la capitale del Bahrein, e che molti considerano “morto in partenza”, come riferisce la giornalista di Al Jazeera Kimberly Halkett. La leadership palestinese “non è stata consultata a proposito dell’incontro né del contenuto, dell’esito o della tempistica”, ha detto il 20 maggio il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh. Come denunciano diversi funzionari, inoltre, l’accordo non prende in considerazione le questioni politiche centrali del conflitto: i confini definitivi, lo status di Gerusalemme e il destino dei rifugiati palestinesi. Il timore, come hanno sottolineato in molti, è che la Casa Bianca tenti di comprare i palestinesi offrendogli grandi investimenti in cambio della rinuncia ad avere un loro stato indipendente.

In quest’ottica la morsa finanziaria che sta stritolando i palestinesi assume le sembianze di un cappio al collo. Come ha denunciato ancora Shtayyeh: “La crisi economica che sta vivendo oggi l’Autorità Palestinese è il risultato della guerra economica lanciata contro di noi con l’obiettivo di ottenere concessioni politiche”. Nella prigione a cielo aperto di Gaza, nella Cisgiordania soffocata dalle colonie e in un Israele sempre più segnato dall’apartheid, si profilano mesi difficili per i palestinesi, sempre più divisi, umiliati e disillusi. Quello che succederà dipenderà probabilmente dalla reazione delle potenze straniere, dalla vicinanza dei paesi arabi e dalle decisioni della leadership politica. Da parte loro i palestinesi probabilmente continueranno a fare quello che fanno da più di settant’anni: resistere.

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