19 ottobre 2017 17:28

E se una donna fantastica avesse un passato da uomo? E se un giorno fosse addirittura un fatto normale che un certo numero di donne fossero ritenute tali malgrado siano state uomini in precedenza e viceversa?

Siamo in un’epoca incerta con grandi potenzialità per il futuro. Un’epoca che si ridefinisce in modo radicalmente nuovo e forse per questo frenata da resistenze “arcaiche”, sempre più aggressive. Il regista cileno Sebástian Lelio con Una donna fantastica realizza un gioiello di leggerezza e profondità su questioni importanti grazie al ritratto di un personaggio spinto da una gran voglia di trovare un posto nel mondo, di definirsi, animato da un’urgenza che lo spinge a farsi valere a ogni costo malgrado i tanti ostacoli che la società frappone. Una società moderna nei comfort, nelle architetture e nelle tecnologie, ma che nei rapporti umani funziona ancora in gran parte seguendo schemi antiquati.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Nel comporre il suo ritratto Lelio fa uso di una forma filmica ipnotica, morbida, estremamente piacevole, che rende quasi impossibile non lasciarsi trascinare dalla narrazione. Il lungo prologo con i titoli di testa che scorrono su cascate filmate dall’alto (le cascate di Iguazú in Brasile) rimarranno la chimera sognata di cui il prologo è come un’evocazione. L’evocazione poetica di un altrove sognato e di un (possibile) futuro leggero e sereno. Le cascate, private del rombo e del frastuono, sono invece accompagnate da una musica classica che sembra emanata da un cinema del passato. Cascate che riassumono anche la forma del film. La leggerezza onirica, la dimensione quasi ovattata, soprattutto il suo essere un flusso naturale.

Il regista cileno, nato nel 1974, è al quinto lungometraggio, il secondo distribuito in Italia dopo l’ottimo Gloria (2013). Una donna fantastica, premiato quest’anno al festival di Berlino dove ha vinto l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura e scelto per rappresentare il Cile agli Oscar, vede tra i produttori anche l’altro regista cileno Pablo Larraín (No. I giorni dell’arcobaleno, Il club, Neruda, Jackie), e tra i co-produttori la tedesca Maren Ade (Vi presento Toni Erdmann). Fanno tutti parte di una generazione che potremmo definire transnazionale e paritaria tra i sessi.

Una donna fantastica racconta la storia di Daniel, anzi di Marina (interpretata dall’attrice transessuale Daniela Vega) come chiede instancabilmente a tutti di essere chiamata questa transessuale di 27 anni, ancora in una fase di passaggio giuridico e forse anche fisico da uomo a donna (Lelio, è importante notarlo, fa in modo che l’ambiguità resti). Ma se a un certo momento la questione non venisse fuori nemmeno ce ne accorgeremmo. Qui sta la naturalezza del film nella rappresentazione delle cose. Se non lo sapessimo chi vedrebbe la differenza? È dunque tutta una questione di apparenze? E di questo, di apparenze, tratta il film. A vedere Marina con il ben più maturo compagno Orlando si pensa a una bella coppia con una bella differenza d’età, null’altro.

L’angelo custode vola via
Orlando, un rassicurante angelo custode, improvvisamente scompare. E sarà proprio la sua sottrazione a far evolvere definitivamente Marina, spingendola ad andare contro venti e maree. Non è un film ottimistico anche se lascia spazio all’ottimismo, ma quanto è dura la conquista di (un nuovo) sé. In quest’avventura di conquista verso il riconoscimento della dignità intrinseca dovuta a ogni essere umano Marina esplora suo malgrado quella terra di nessuno rappresentata dal ben definito ma vuoto mondo postmoderno. Lelio ci accompagna per mezzo di una forma che non è mai vuota, sempre ricondotta a una dimensione in qualche modo non troppo lontana a quello che interessava ai surrealisti nel cinema, un flusso ipnotico veicolo dell’inconscio, in altre parole veicolo dell’interiorità nella sua espressione più pura.

Ma è anche una questione di regia, di tagli d’inquadrature e montaggio e infine di come tutto l’insieme viene saldato al lavoro sull’estetica della fotografia, dell’immagine. Le larghe inquadrature sugli ambienti sono continue, regalano spesso splendidi scorci e a volte svolgono un importante ruolo didascalico. La regia incornicia incessantemente l’ambiente lavorando con finezza sui piani architettonici negli appartamenti, in un ristorante, in un garage o per strada, con movimenti di camera spesso eleganti e sempre fluenti come nella parte iniziale la carrellata in avanti che segue Orlando mentre entra in un locale dove si suona e canta musica locale. Chi canta è ovviamente Marina.

Anche la musica è dunque molto importante e le musiche scelte sono spesso in opposizione tra loro. Le luci degli ambienti sono calde, avvolgenti, come nel caso del lento ballato in discoteca. A questi movimenti avvolgenti della macchina da presa seguono stacchi improvvisi che hanno un effetto di spaesamento.

Ci voleva una transgender per offrirci uno dei personaggi femminili più forti, umani e definiti del cinema recente

A partire dalla morte di Orlando il punto di vista scelto è quello di Marina e il suo punto di vista gradualmente diviene il nostro spaesamento. Attraverso Marina perlustriamo la città, oscillando dai freddi grattacieli moderni ma circondati di verde, ad architetture più calde, con i muri dagli intonaci scrostati della parte vecchia della città. Liriche carrellate laterali di una città filmata in sezione diventano le immagini simboliche per eccellenza del film, paradigmatiche di chi cerca a tutti i costi di andare avanti nel proprio cammino, contro tutti e controvento.

Non mancano begli ammiccamenti al cinema di genere in quest’opera mutevole, che però servono principalmente ad accentuare il senso di spaesamento venuto a crearsi quando un angelo custode è diventato un’ombra nell’oscurità. Un’oscurità in cui quella borghesia cilena, che dai tempi di Pinochet anela a un mondo congelato e immobile, non vede o non vuole vedere il mondo reale e i suoi mutamenti, di cui Marina è lo specchio.

Per il regista “la diversità salverà l’umanità”. “Hai fatto l’operazione? Non so chi sei”. Questa domanda-affermazione (di spregio) perseguita la protagonista e definisce con precisione la borghesia contro la quale Marina deve combattere. La sua liberazione dal fantasma di Daniel è la liberazione da una borghesia poco umana nella forma, più che gelida nel profondo. Ci voleva una transgender per offrirci uno dei personaggi femminili più forti, umani e meglio definiti del cinema degli ultimi anni: una donna fantastica.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it