12 ottobre 2017 17:05

La carriera di Niccolò Fabi ha avuto uno strano percorso. Diventato famoso con Capelli, pezzo premiato dalla critica al festival di Sanremo nel 1996, ci ha messo degli anni per togliersi di dosso l’immagine da cantante pop della Roma bene e costruirsi un solido repertorio da cantautore sospeso tra pop e folk.

Dopo tanta fatica, e anni di ottimi concerti, a quasi vent’anni dall’esordio, nel 2016 Fabi ha pubblicato il disco più bello della sua carriera, Una somma di piccole cose, scritto e registrato in soli due mesi nel paese di Campagnano, alle porte della capitale, dove l’artista si è rinchiuso imitando il Bon Iver di For Emma, forever ago.

Dopo aver portato in tour il disco, e prima di prendersi una pausa temporanea dal mondo della musica, Fabi ha deciso di festeggiare i vent’anni di carriera con la doppia raccolta Diventi inventi 1997-2017, che raccoglie i suoi principali successi, molti dei quali reinterpretati in chiave acustica, e una serie di demo e registrazioni inedite. Il disco uscirà il 13 ottobre. Le celebrazioni si chiuderanno il 26 novembre con un concerto al Palalottomatica di Roma.

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Diventi inventi è una raccolta atipica, perché hai risuonato tanti brani, trasformandoli rispetto alle versioni originali. Perché l’hai fatto?
Una raccolta nel 2017 è una cosa molto diversa da un greatest hits di tanti anni fa. Oggi le playlist sono molto diffuse e non avrebbe avuto senso mettere le versioni originali dei pezzi una accanto all’altra. Parliamo di vent’anni di musica, quindi di registrazioni eterogenee e a me piacciono i dischi compatti, in cui l’ascoltatore in 40 minuti entra dentro uno stato d’animo preciso. Con Una somma di piccole cose penso di aver raggiunto il mio apice creativo, per questo ho trasportato il linguaggio di questo disco all’interno di alcuni pezzi vecchi.

Come hai scelto i demo da inserire?
Il secondo disco è la parte più interessante, per i miei fan. Ci ho messo delle registrazioni pescate dai miei cassetti, che spesso hanno atmosfere completamente opposte a quelle dei brani originali. Volevo far capire al mio pubblico quanto è difficile gestire il proprio repertorio. Se per esempio si ascolta Capelli, che qui è presente con il titolo Senza capelli, si capisce che il demo ha un’atmosfera opposta rispetto alla versione in studio del 1995. Non era un pezzo così spensierato come sembrava, anche se era pur sempre un brano scritto da un ventenne che non aveva ancora capito bene quale direzione musicale prendere.

Che rapporto hai con questi pezzi più scanzonati, che sono così diversi dal resto del tuo repertorio?
Hanno cambiato la mia vita, probabilmente in meglio. Mi hanno dato una buona opportunità, ma mi hanno anche costretto a fare una fatica bestiale per costruire il resto della mia carriera. Sono due eccezioni nel mio repertorio, alla fine si tratta solo di Capelli e di Dica, che ho scritto per il mio primo disco insieme a Riccardo Sinigallia per dare un singolo alla Virgin, la mia casa discografica dell’epoca. Dica però, a differenza di Capelli, la disconosco completamente e infatti non c’è nella raccolta.

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Tra i demo che hai scelto c’è anche Il primo della lista, un brano notevole che però non è mai finito in nessun disco. Perché l’hai scartato ai tempi?
L’ho capito solo a posteriori che quel pezzo valeva molto. Capita. Non sei sempre lucido nei confronti di quello che fai. A volte l’insicurezza ti porta a metterti il trucco prima di andare in scena. Ho registrato Il primo della lista a casa mia, suonando da solo chitarra, basso e batteria. È stato scritto durante la preproduzione del disco Ecco, il primo che pubblicavo dopo la morte di mia figlia Olivia, scomparsa nel 2010 per una meningite fulminante. E forse in quel periodo non me la sono sentita di pubblicare un pezzo così cupo.

Da un punto di vista musicale, in questi anni come hai cercato di elaborare la morte di tua figlia?
Un mese dopo la morte di Olivia ho fatto un tour da solo nei teatri, nel quale il palco era pieno di strumenti e oggetti che io durante il concerto portavo progressivamente fuori dalla scena. Caricarmi addosso tutto quel lavoro mi ha aiutato a resistere al dolore. Dopo, pian piano, è arrivata l’onda lunga di quello che era successo, anche nella mia musica, e i dischi successivi sono stati più malinconici in effetti.

Nelle tue canzoni ricorrono spesso metafore legate alla crescita lenta, come in Costruire oppure in Giardiniere, La Promessa o Filosofia agricola.
Io non sono un talento puro nella scrittura. I miei miglioramenti artistici sono dovuti al mio approccio alla musica, alla cura per i dettagli e alle scelte che ho fatto in questi anni. La mia forza sta nella sensibilità e in una lucidità quasi sacerdotale nel coltivare ogni canzone come una pianta. Tutti cantautori hanno dieci anni di creatività iniziale in cui scrivono l’80 per cento del loro repertorio, per me è stato il contrario, le persone che vengono oggi ai concerti vogliono sentire soprattutto le cose più recenti. E poi sono un tipo solitario, che trova conforto nel rapporto con la natura.

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Che rapporto hai con il mondo della musica indie. Non pensi che chiamarsi Niccolò Fabi ti abbia impedito di fare breccia in certi ambienti?
È normale che sia così, non è solo una questione di snobismo. Semplicemente la mia musica non ha mai circolato molto in alcuni circuiti, per motivi che non conosco neanche io. All’inizio il mio pubblico era troppo diverso da me, non mi sentivo a mio agio. Oggi è diverso, ai miei concerti viene un pubblico che mi assomiglia molto. Io non sono mai stato alla moda come oggi lo è Calcutta, ma va bene così.

Dopo aver smentito il tuo presunto ritiro, cos’hai in programma di fare?
Adesso mi prendo una pausa. Poi vorrei provare a fare qualcosa di diverso da Una somma di piccole cose, magari faccio un disco metal o elettronico, chi lo sa. Ma non sono sicuro, per questo ho bisogno di tempo per pensare. Ora sono stanco e ho bisogno di riposarmi e di ripartire da una pagina bianca. Vorrei fare qualcosa di nuovo, vivendo la musica in modo più divertente. C’è solo un problema: quello che faccio adesso lo so fare bene, ma potrei non essere bravo a fare altro. La responsabilità dei musicisti è anche quella di rischiare. Molti artisti famosi, in particolare quelli italiani, lottano solo per mantenere il proprio status e il proprio pubblico, senza provare mai qualcosa di diverso. Questa però è la morte della creatività.

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