05 febbraio 2019 16:12

Non è stata solo una photo opportunity per gli emiri di Abu Dhabi né l’occasione per un nuovo santino con l’immagine dell’abbraccio tra il papa e un imam. La visita di Francesco negli Emirati Arabi Uniti ha vari aspetti inediti che dettano un nuovo passo al dialogo interreligioso e alle dinamiche per costruire nuove forme di convivenza.

Il viaggio del papa è nato per partecipare all’Incontro interreligioso sulla fraternità umana promosso dal Consiglio musulmano degli anziani (un’organizzazione islamica di dialogo e promozione della pace promossa dagli Emirati) a cui hanno partecipato circa 700 leader di varie fedi, tra cui cristiani, ebrei, musulmani, buddisti e indù. Una partecipazione non scontata, ma facilitata dal fatto che negli Emirati la pratica religiosa è garantita anche dalla disponibilità dei rispettivi luoghi di culto (oltre ad alcune chiese e templi induisti è presente anche una sinagoga).

Nonostante la libertà di culto e la presenza di una comunità cattolica composta da circa un milione di persone (perlopiù immigrati filippini e indiani) è stata la prima visita di un pontefice nella penisola arabica, anche se l’alleanza di Abu Dhabi con i vicini dell’Arabia Saudita e le critiche per lo scarso rispetto dei diritti umani avevano suscitato qualche dubbio sull’opportunità di una visita papale.

Alla fine il papa ha deciso di andare e molti avevano sottolineato la convergenza del viaggio con l’anniversario dell’incontro tra un altro Francesco, quello che veniva da Assisi, e il sultano d’Egitto Malik al Kamil avvenuto esattamente 800 anni fa, nel 1219.

I discorsi tenuti dai due leader religiosi sono stati insolitamente diretti e pragmatici.

Come Francesco d’Assisi anche Bergoglio ha cercato in questi anni un interlocutore per dialogare con l’islam e con cui costruire una narrativa diversa da quella degli estremisti, che hanno sequestrato il linguaggio religioso usandolo per riedificare califfati del passato, terrorizzare intere popolazioni o uccidere migliaia di persone. Francesco lo ha trovato nel grande imam di Al Azhar, l’egiziano Ahmed al Tayyeb, con cui si è incontrato ad Abu Dhabi per la quinta volta. I due uomini hanno molto in comune, e dal loro incontro al Cairo, nel 2017, si chiamano reciprocamente fratelli: sono due religiosi mistici (Al Tayyeb viene da una famiglia sufi), di indole riflessiva (per il papa è il gesuitico discernimento), hanno un temperamento incline alla sobrietà e un condiviso senso di responsabilità verso il futuro del pianeta e del genere umano.

Per questo i discorsi tenuti dai due leader religiosi sono stati insolitamente diretti e pragmatici.

“Alle religioni spetta in questo delicato frangente storico, un compito non più rimandabile: contribuire attivamente a smilitarizzare il cuore dell’uomo. La corsa agli armamenti, l’estensione delle proprie zone di influenza, le politiche aggressive a discapito degli altri non porteranno mai stabilità. La guerra non sa creare altro che miseria, le armi nient’altro che morte! La fratellanza umana esige da noi, rappresentanti delle religioni, il dovere di bandire ogni sfumatura di approvazione dalla parola guerra. Restituiamola alla sua miserevole crudezza. Penso in particolare allo Yemen, alla Siria, all’Iraq e alla Libia. Insieme, fratelli nell’unica famiglia umana voluta da Dio, impegniamoci contro la logica della potenza armata, contro la monetizzazione delle relazioni, l’armamento dei confini, l’innalzamento di muri, l’imbavagliamento dei poveri”, ha detto il papa nel suo intervento, cominciato con il saluto Al salamu alaikum.

Alla fine dell’incontro Francesco e Al Tayyeb hanno firmato una dichiarazione congiunta i cui si chiede “a noi stessi e ai leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale (…) Chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione nel diffondere i princìpi di questa Dichiarazione a tutti i livelli regionali e internazionali, sollecitando a tradurli in politiche, decisioni, testi legislativi, programmi di studio e materiali di comunicazione”.

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Al Tayyeb (la più alta autorità religiosa del mondo sunnita) ha invitato i fedeli musulmani a resistere dalle “deviazioni interessate nella lettura dei testi delle religioni”: “Armatevi con la morale, con la sapienza, con il sapere; fate di questo documento una costituzione, una carta di princìpi per la vostra vita; fatene una garanzia di un futuro libero da scontri, libero da sofferenze; fate di questo documento una carta come barriera contro l’odio; insegnate ai vostri figli questa carta, questo documento perché è un’estensione della costituzione dell’islam, è un’estensione delle Beatitudini del Vangelo. Lavorerò con mio fratello, sua santità il papa, per gli anni che ci rimangono, con tutti i leader religiosi per proteggere le nostre società, per la loro stabilità”.

È un invito a uno sforzo personale, un jihad interiore, per sostenere i princìpi contenuti nella dichiarazione firmata ad Abu Dhabi: libertà di credo, di pensiero, di espressione; una giustizia basata sulla misericordia; la cultura del dialogo e della conoscenza come metodo; protezione dei luoghi di culto; difesa dei diritti delle donne all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici; tutela dei diritti dei bambini, degli anziani, dei deboli, dei disabili e degli oppressi; applicazione del concetto di piena cittadinanza basato su eguaglianza di diritti e di doveri.

Un concetto, quest’ultimo, che sarebbe bello immaginare sempre più universale.

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