11 novembre 2022 16:23

Negli anni sessanta Elaine Mayes è una giovane fotografa, cresciuta tra Berkeley, Stanford e San Francisco, dove si stabilisce in una comune di Haight-Ashbury, quartiere rimasto impresso nella nostra memoria come l’epicentro della summer of love, il periodo tra la primavera e l’estate del 1967 in cui masse di giovani da tutti gli Stati Uniti si ritrovano per partecipare a un “risveglio spirituale” guidato dalla controcultura hippy e dalle proteste contro la guerra del Vietnam, cominciata nel 1955.

Uno degli eventi fondamentali di quei mesi è il festival di Monterey, dal 16 al 18 giugno, seguito da circa 200mila persone e in cui si esibiscono artisti come Simon e Garfunkel, Janis Joplin, Otis Redding, i Byrds, i Grateful Dead, gli Who e un quasi sconosciuto Jimi Hendrix che, a fine concerto, dà fuoco alla sua chitarra. Mayes si trova sotto il palco, con un accredito della rivista Hullabaloo; compressa dalla calca le resta uno spazio limitato per muoversi, ma nella difficoltà si concentra su una prospettiva ravvicinata e centrale che mette in risalto l’espressività dei musicisti grazie alle luci e al fumo di scena.

L’euforia hippy svanisce presto nel corso dell’autunno, anche a causa dell’abuso di droghe e all’aumento di crimini. Secondo Mayes il mito della summer of love e di Haight-Ashbury sono stati creati dai giornali, che soffermandosi sugli stereotipi, l’amore libero e l’lsd non sono riusciti a catturarne la vera essenza.

Lasciandosi ispirare dai ritratti di Diane Arbus, che incontra per strada invitandola nella sua comune, Mayes vuole creare il suo ritratto di Haight-Ashbury. Mette da parte l’approccio fotogiornalistico e dinamico con cui ha lavorato fino a quel momento e sceglie uno stile formale, con un’Hasselblad e un treppiede. Il racconto si sviluppa sugli incontri casuali con gli abitanti del quartiere che in genere accettano di farsi fotografare, senza troppi fronzoli: davanti casa, in un parco, su una scalinata.

La fotografa raccomanda ai soggetti di ispirare profondamente e poi scatta quando espirano, “ecco tutto quello che ho fatto” racconta recentemente in un’intervista. Tutto quello che ha fatto Mayes è infatti ricercare la spontaneità e registrare dei momenti di verità nelle vite di adolescenti, artisti e famiglie non convenzionali che sono stati oggetto di semplificazione e demonizzazione.

Nell’introduzione alla prima pubblicazione di queste foto, il libro Haight-Ashbury portraits (Damiani), lo storico dell’arte Kevin Moore afferma che il lavoro di Mayes è un chiaro monumento a un’epoca fragile e ci ricorda quanto sia necessario mettere in atto, sempre, un ottimismo spericolato.

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