Trent’anni fa, quando la guerra fredda stava giungendo alla sua conclusione, l’occidente si preoccupava di attenuare il suo entusiasmo con la magnanimità. “Non mi sono messo a saltare sul muro di Berlino”, disse il presidente statunitense George H.W. Bush a Michail Gorbačëv, ultimo leader sovietico, al vertice di Malta nel 1989. Alcuni mesi dopo il segretario di stato americano James Baker rassicurò nuovamente Gorbačëv a Mosca. “Se manterremo una presenza in una Germania che farà parte della Nato (…) non ci sarà nessun allargamento dell’alleanza verso est, (…) nemmeno di un centimetro”. Anche quando l’Unione Sovietica crollò, nel 1991, il primo ministro britannico John Major confermò quell’impegno: “Non stiamo parlando di rafforzare la Nato”.

Invece la Nato è stata rafforzata. Nei trent’anni trascorsi da allora l’alleanza si è allargata di almeno mille chilometri verso est. In passato aveva solo una piccola frontiera con la Russia, all’estremo nord della Norvegia, ma oggi comprende gli stati baltici, ex territori sovietici che si trovano a meno di duecento chilometri da San Pietroburgo e a seicento chilometri da Mosca. Degli otto stati che facevano parte del patto di Varsavia, sette sono entrati nell’alleanza atlantica. Al vertice di Bucarest del 2008 gli Stati Uniti hanno convinto gli altri paesi della Nato a dichiarare che l’Ucraina e la Georgia sarebbero entrate nell’alleanza. La promessa è stata ribadita nel dicembre 2021. Per il presidente russo Vladimir Putin si tratta di un’ingerenza e di un oltraggio. “Cosa ci fanno gli Stati Uniti in Ucraina, alle porte del nostro paese?”, ha tuonato lo scorso 21 dicembre. “Dovrebbero capire che non abbiamo più spazio per arretrare. Pensano che resteremo a guardare senza fare nulla?”.

La domanda, naturalmente, era retorica. Nel 2021 la Russia ha schierato un vasto esercito nei pressi della frontiera con l’Ucraina. Secondo alcune fonti si tratterebbe di centomila soldati, il più grande dispiegamento di truppe in Europa dalla fine della guerra fredda. Con quel bastone in mano, il 17 dicembre Putin ha avanzato la richiesta di “garanzie legali” per la sicurezza della Russia, sotto forma di due bozze di trattato con gli Stati Uniti e la Nato. In pratica ha chiesto un consistente arretramento della Nato e la creazione di una sfera d’influenza russa in Europa orientale, nel Caucaso e nell’Asia centrale.

Prendiamo alcune delle proposte. Il patto con la Nato obbligherebbe l’alleanza non solo a escludere ulteriori espansioni, ma anche a rinunciare a qualsiasi cooperazione militare con l’Ucraina e gli altri paesi dell’ex Unione Sovietica che ancora non ne fanno parte. La Russia invece non sarebbe vincolata da alcuna misura reciproca. La Nato, inoltre, non potrebbe schierare truppe o armamenti in Europa orientale, una condizione che comporterebbe il ritiro dei piccoli contingenti dispiegati in Polonia e negli stati baltici dopo l’invasione russa dell’Ucraina e l’annessione della Crimea nel 2014. L’accordo con gli Stati Uniti, invece, comporterebbe il ritiro delle armi nucleari statunitensi dall’Europa, senza limitare in alcun modo il considerevole arsenale russo.

Perfino molti osservatori russi sono rimasti sorpresi dall’audacia delle richieste. “Caro Babbo Natale, per favore portami un unicorno vivo”, ha scritto Elena Černenko del quotidiano russo Kommersant. Il fatto che le proposte siano state presentate pubblicamente invece che con la discrezione tipica dei negoziati più delicati fa pensare che la Russia sia consapevole di quanto siano improbabili, sottolinea Dmitri Trenin, direttore del centro studi Carnegie di Mosca. Gli analisti sono rimasti stupiti dall’inspiegabile senso d’urgenza. “Se non avremo risposta in tempi ragionevoli, la Russia sarà costretta a prendere tutte le misure necessarie (…) per eliminare le inaccettabili minacce alla nostra sicurezza”, ha avvertito il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov.

Ricostruire la fiducia

Secondo alcuni Putin spera che l’occidente ignori le sue richieste, fornendogli il pretesto per invadere l’Ucraina. Di recente lui e i suoi ministri hanno lanciato pesanti accuse, dall’insinuazione che l’Ucraina stia attuando un genocidio nei confronti dei suoi cittadini di etnia russa all’idea che dei mercenari statunitensi stiano preparando un attacco con armi chimiche nel Donbass, regione orientale dell’Ucraina controllata dagli alleati di Mosca.

Anche se i funzionari europei e statunitensi dicono che la Russia non ha ancora preso una decisione finale sull’invasione dell’Ucraina, è probabile che dovrà farlo entro la fine dell’inverno, spiega Michael Kofman del centro studi Cna. È impossibile mantenere a lungo le truppe in assetto di guerra e a migliaia di chilometri dalle loro basi senza che il morale crolli e i veicoli abbiano bisogno di manutenzione. Il terreno ghiacciato dell’Ucraina comincerà a disgelare a marzo, rendendo più difficile l’avanzata dei mezzi corazzati. Inoltre ad aprile le reclute russe saranno sostituite da una nuova leva più inesperta.

Eppure, forse per non fornire a Putin alcun pretesto, gli Stati Uniti hanno accettato il dialogo. La telefonata del 30 dicembre tra il presidente Joe Biden e Putin è stata “schietta, significativa e piuttosto costruttiva”, ha detto Juri Ušakov, assistente di Putin. “È importante che gli americani si siano mostrati disponibili a comprendere le preoccupazioni russe” (i diplomatici dei due paesi si sono incontrati a Ginevra il 10 gennaio).

Il dialogo però potrebbe non bastare. Il 27 dicembre Lavrov ha messo in guardia contro le “discussioni infinite per cui l’occidente è famoso”. Putin vuole ottenere qualcosa da presentare come una vittoria diplomatica. Non è chiaro cosa, ma Putin e Biden “sembrano pronti ad aggirare i classici ostacoli della diplomazia sulla sicurezza in Europa”, suggerisce Matthew Rojansky del Kennan institute di Washing­ton. Rojansky individua due aree di possibile cooperazione: il controllo dei missili e quello delle armi convenzionali.

Anche se la Russia non ha ancora preso una decisione finale sull’invasione dell’Ucraina, è probabile che dovrà farlo entro l’inverno

A prima vista i missili non sembrano un tema promettente da cui iniziare. Nel 2019 gli Stati Uniti sono usciti dal Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Inf) che vieta il dispiegamento di missili di portata compresa tra 500 e 5.500 chilometri, sostenendo che un nuovo missile russo violava i termini dell’accordo. Washington e la Nato hanno ripetutamente ignorato la proposta russa di una moratoria su questo tipo di armi, dichiarando che la Russia le aveva già schierate. Per parte sua, Mosca ritiene che i sistemi antimissile statunitensi in costruzione in Romania e in Polonia possano essere riconfigurati come lanciamissili per uso offensivo.

Eppure sia gli Stati Uniti sia la Russia potrebbero trovare spazio per un compromesso sui missili. Putin ripete spesso che se gli Stati Uniti piazzassero dei missili a medio raggio in Europa orientale, questi potrebbero colpire Mosca nel giro di pochi minuti. Ma i missili da crociera russi a Kaliningrad potrebbero raggiungere Berlino altrettanto rapidamente. Un accordo che vieti la presenza di questi missili in Europa ma permetta agli Stati Uniti di schierarli contro la Cina in Asia potrebbe essere accettabile per tutti.

Un altro argomento di discussione potrebbe essere il controllo delle armi convenzionali. Anche in questo caso entrambi gli schieramenti hanno da tempo una lunga lista di rimostranze. Il Trattato adattato sulle forze armate convenzionali in Europa (Acfe) del 1999 è entrato in crisi dopo che i paesi occidentali hanno accusato la Russia di non essersi ritirata nei tempi stabiliti dalla Moldova e dalla Georgia, due ex repubbliche sovietiche. La Russia ha sospeso la sua partecipazione nel 2007 ed è uscita dal trattato nel 2015 perché gli altri paesi non lo avevano ratificato.

Gli occidentali sostengono che la Russia ha aggirato le regole che impongono di annunciare in anticipo esercitazioni di vasta portata, fingendo che si trattasse di una serie di piccole esercitazioni separate. Mosca, di contro, sostiene che l’occidente non ha preso in considerazione le sue proposte per rafforzare la fiducia reciproca, come l’uso di transponder sugli aerei militari, notifiche anticipate sui voli dei bombardieri a lungo raggio e l’allontanamento delle manovre militari dai confini.

Un soldato ucraino sul fronte del Donbass, gennaio 2022 (Andriy Dubchak, Ap/Lapresse)

Un nuovo trattato su questi temi è improbabile. Per la Nato smettere di fare esercitazioni vicino alla Russia significherebbe abbandonare i paesi baltici. Inoltre Mosca non accetterebbe mai un limite sulle manovre a Kaliningrad, un’exclave tra la Polonia e la Lituania, a Murmansk, nei pressi della Norvegia, o in Bielorussia, al confine con la Polonia, spiega Dmitri Stefanovič dell’istituto russo Imemo. Secondo Stefanovič però è possibile introdurre una maggiore trasparenza e limitare la portata delle esercitazioni, rafforzando la fiducia reciproca. Secondo Olga Oliker dell’International crisis group, il mar Nero potrebbe essere un buon inizio. I paesi della Nato potrebbero ridurre i pattugliamenti vicino alla Crimea, e in cambio la Russia potrebbe accettare alcune limitazioni sulla sua flotta del mar Nero.

Un modello pericoloso

Misure di questo tipo sarebbero positive a prescindere da cosa succederà in Ucraina. Ma è improbabile che Putin abbia minacciato una guerra solo per ottenere calendari più dettagliati delle prossime esercitazioni della Nato. Il presidente russo è fortemente ostile all’ordine del dopo guerra fredda e al fatto che la Russia ne è esclusa. Secondo lui gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno approfittato della debolezza della Russia tra gli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, infrangendo la promessa di non allargare la Nato, attaccando la Serbia nel 1999 e sostenendo le “rivoluzioni colorate” contro i regimi autoritari filorussi in alcuni paesi ex sovietici. I mezzi d’informazione vicini al Cremlino hanno sostenuto che le proteste contro il governo in Kazakistan sono la conseguenza degli sforzi dell’occidente per rovesciare gli alleati di Mosca.

È vero che la Russia aveva ricevuto assicurazioni sul fatto che la Nato non si sarebbe allargata, ma è altrettanto vero che non si è opposta quando le cose sono cambiate. Nel 1997, mentre la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia venivano invitate a entrare, la Russia e la Nato hanno firmato un “atto fondativo” in cui Mosca accettava l’espansione dell’Alleanza a­tlantica. In cambio la Nato rinunciava al dispiegamento “permanente” di “forze da combattimento significative” e allo schieramento di armi nucleari in Europa orientale, un impegno che continua a mantenere. Inoltre gli Stati Uniti hanno ritirato un gran numero di soldati dall’Europa, mentre i paesi europei hanno ridotto notevolmente le loro forze armate.

Questi passi hanno avuto un effetto positivo. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 Putin si era complimentato per “il cambio nell’atteggiamento […] e nella mentalità di tutti i partner occidentali”. Ancora nel 2010, quando una decina di paesi era già entrata nella Nato, il presidente russo Dmitri Medvedev aveva dichiarato: “Siamo riusciti a lasciarci alle spalle un periodo difficile nelle nostre relazioni”. Di recente però i rapporti si sono deteriorati, non a causa di un’aggressione della Nato ma perché la Russia, non volendo accettare che altri ex territori sovietici andassero per la loro strada, ha invaso la Georgia nel 2008 e l’Ucraina nel 2014. Inoltre negli ultimi dieci anni Mosca ha scatenato un’offensiva politica contro gli Stati Uniti e l’Europa sotto forma di ingerenze nelle elezioni, sabotaggi e omicidi. In patria Putin ha soffocato la democrazia truccando le elezioni, avvelenando gli oppositori e schiacciando la società civile. “Oggi Putin non ha paura di un’espansione della Nato”, sottolinea Michael McFaul, ex ambasciatore statunitense in Russia. “Ha paura della democrazia in Ucraina”.

Da sapere
Nessun passo avanti

◆ L’incontro bilaterale russo-statunitense che si è svolto a Ginevra il 10 gennaio e quello tra Russia e Nato due giorni dopo a Bruxelles non hanno prodotto passi concreti verso una soluzione della crisi ucraina. I delegati russi hanno ribadito la richiesta di garanzie contro l’ulteriore allargamento della Nato, che è stata di nuovo respinta. I vertici dell’alleanza si sono però detti disponibili ad avviare un negoziato per stabilire nuovi limiti sui missili e sulle esercitazioni militari in Europa. Reuters


In questo momento la Nato non ha nessuna voglia di accogliere l’Ucraina, con tutti i rischi che ciò comporterebbe. Ma non è detto che escludere l’adesione di Kiev basterebbe a placare Putin. “Il Cremlino sa che la Nato non vuole accogliere l’Ucraina e la Georgia nel prossimo futuro”, spiega Wolfgang Ischinger, ex diplomatico tedesco e presidente della Conferenza per la sicurezza di Monaco. “Il problema di fondo è il timore che l’Ucraina si modernizzi e diventi un modello attraente per i russi”.

Allo stesso tempo, se la Nato ammettesse che l’ingresso dell’Ucraina non avverrà presto sarebbe un colpo mortale per i riformisti ucraini, che hanno addirittura inserito nella costituzione l’aspirazione a entrare nell’alleanza atlantica. Farlo in risposta alle minacce russe sarebbe doppiamente sconsigliabile. Secondo Ischinger un modo per quadrare il cerchio potrebbe essere adottare la posizione dell’Unione europea: l’allargamento è un obiettivo di principio, ma prima l’organizzazione deve riformarsi. In questo modo sarebbe possibile scaricare l’Ucraina con discrezione, senza dare l’impressione che la Russia abbia posto il veto sull’espansione dell’alleanza.

L’Ucraina non è l’unico paese che presenta questo dilemma. La Georgia era stata invitata a entrare nella Nato nel 2008, ma anche in questo caso l’adesione porterebbe con sé un conflitto aperto. La Russia infatti occupa i territori separatisti dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, che rappresentano un quinto del territorio georgiano.

L’opinione
Rivoluzione impossibile

“La crisi kazaca dimostra che puntare sul vecchio ordine e basare la propria legittimità sull’appoggio delle forze militari di Mosca e non sul mandato popolare, per i governanti dei paesi ex sovietici significa dover accettare un corollario praticamente inevitabile: l’ingresso nello spazio imperiale russo, che oggi è in guerra con il mondo esterno”, scrive Grigorij Judin sul sito russo Republic. “Il vecchio ordine ancora in vigore è quello tardo sovietico, non ci sono alternative. Nel prezzo del sostegno militare russo sono incluse delle condizioni, come l’accettazione della retorica governativa di Mosca, che considera gli oppositori ‘operatori stranieri’ e ‘cosiddetti difensori dei diritti umani’. Questo tipo di dittatura sotto il controllo del Cremlino – oggi in vigore in Kazakistan – apre la strada alla perdita della sovranità”.

“Tuttavia”, prosegue Judin, “non bisogna confondere le basi della legittimità con gli interessi geopolitici. Pensiamo alla Bielorussia: alle elezioni presidenziali del 2020 un candidato come Viktor Babariko, che sarebbe stato un presidente decisamente filorusso, non era accettabile per Putin perché avrebbe avuto legittimità democratica. Il presidente kazaco Kasym Tokaev ha imparato la lezione. Non sappiamo esattamente perché si sia rivolto all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Otsc) né quanto spontanea sia stata la sua decisione. Forse dubitava di riuscire a mantenere il controllo sulle forze di sicurezza. Ma per avere l’aiuto dell’Otsc ha cambiato la retorica ufficiale e ha rifiutato il sostegno del popolo. Le rivolte per chiedere democrazia non si sono perse per strada, nonostante gli ultimi fallimenti, anche perché sono generate dalla disperazione in un contesto in cui mancano altri strumenti per il cambiamento. Allo stesso tempo, però, il tentativo delle autorità di far passare ogni sollevazione popolare per un’invasione esterna avrà delle conseguenze. Tra cui la cancellazione della differenza tra rivoluzione e guerra”. ◆ ab


Mosca si oppone anche all’ingresso nella Nato della Svezia e della Finlandia, due paesi un tempo neutrali che negli ultimi anni si sono avvicinati all’alleanza. In Svezia nel 2020 è emersa una maggioranza parlamentare favorevole all’ingresso nella Nato, anche se il governo socialdemocratico continua a opporsi. La Finlandia vuole tenere aperte le sue opzioni. Il 1 gennaio, dopo che Lavrov ha minacciato “gravi conseguenze politiche e militari” se la Svezia o la Finlandia entrassero nella Nato, il presidente finlandese Sauli Niinistö ha respinto il tentativo d’intimidazione: “Siamo liberi di chiedere l’adesione alla Nato se lo riterremo opportuno”.

Paura di perdere

Il paradosso è che gli sforzi della Russia per fermare l’espansione della Nato a est potrebbero produrre l’effetto opposto. L’invasione dell’Ucraina del 2014 ha rinvigorito l’alleanza, provocando l’aumento delle spese militari europee e quel dispiegamento di forze Nato in Europa orientale a cui Putin oggi si oppone. Una seconda invasione dell’Ucraina, pur cancellando ogni possibilità di adesione per Kiev, potrebbe spingere altri paesi verso la Nato.

Per Putin il gioco potrebbe valere la candela. Meglio far scoppiare una guerra oggi, nonostante i costi, che rischiare di ritrovarsi tra dieci anni un’Ucraina brulicante di soldati stranieri. Trent’anni fa il politologo Robert Jervis applicò alla guerra e alla pace la teoria del prospetto, una branca dell’economia comportamentale. Secondo questa teoria le persone tendono a correre rischi maggiori quando sentono che stanno perdendo. “Le guerre sono spesso innescate dalla paura della sconfitta”, scrisse Jervis. “Quando gli stati corrono grandi rischi di solito è perché ritengono che in caso contrario dovrebbero accettare delle perdite”.

Quella che Putin definisce una richiesta di sicurezza, per il resto d’Europa è uno sfrontato tentativo di recuperare paesi un tempo dominati da Mosca e assoggettarli all’influenza russa. Un Cremlino insicuro che attacca per consolidare la sua posizione comporta quindi una spirale d’insicurezza. Ischinger ricorda che nel 1993 chiese a un funzionario russo in che modo Mosca pensava di alleviare i timori dei paesi appena liberati come Polonia e Ucraina. “Che c’è di sbagliato nel fatto che i nostri vicini hanno paura di noi?”, aveva risposto il funzionario. “Purtroppo da allora non è cambiato quasi nulla”, conclude Ischinger. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1443 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati