Mentre i gas lacrimogeni si diffondono nell’aria e la polizia disperde le donne riunite in strada, arrabbiate e senza paura, Poori (uno pseudonimo), 31 anni e laureata in fisica, non vuole saperne di farsi da parte. “Ero lì. Sento ancora bruciare la gola e il petto”, racconta. Stava partecipando a una delle decine di manifestazioni scoppiate in tutto l’Iran dopo la morte di Mahsa Amini il 16 settembre. La giovane di origini curde era stata arrestata dalla “polizia religiosa” durante un controllo sul suo abbigliamento. La legge impone alle donne di indossare l’hijab, il velo che copre la testa, nei luoghi pubblici.

Poori porta il velo, ma contesta le leggi sull’abbigliamento delle donne. “Ne è valsa assolutamente la pena”, dice a proposito della protesta a cui ha partecipato. “Il momento in cui le manifestanti hanno sventolato i loro veli gridando ‘Donna, vita e libertà’ è stato straordinario”.

Una protesta a Teheran, il 22 settembre 2022 (Middle East Images)

Mahsa Amini viveva a Saqqez, una cittadina nella provincia del Kurdistan, ma era in visita a Teheran quando è stata arrestata il 13 settembre davanti a una stazione della metropolitana. Gli agenti della “polizia religiosa” spesso si appostano lì, per individuare le donne che non fanno aderire bene l’hijab alla testa. Tre giorni dopo l’arresto, le autorità hanno fatto sapere che Amini era morta d’infarto. Ma subito sono circolate accuse di violenze e torture da parte della polizia. Il padre nega che ci fosse qualcosa di sbagliato nell’abbigliamento della figlia e sostiene che sul suo corpo erano visibili dei lividi. Secondo alcuni mezzi d’informazione, le radiografie confermano che Amini è stata picchiata.

Nervo scoperto

Le iraniane devono rispettare regole severe sull’abbigliamento fin dalla rivoluzione islamica del 1979, ma da quando il presidente Ebrahim Raisi si è insediato, nell’agosto 2021, la “polizia religiosa” ha intensificato le sue attività, facendo rispettare la legge sull’hijab in modo più rigoroso.

La morte di Amini ha toccato un nervo scoperto. In diverse città gli iraniani sono scesi in strada per denunciare le forze di sicurezza e il governo. Nelle manifestazioni molte donne si sono tolte il velo e lo hanno bruciato. Mobilitazioni di questa portata sono insolite in Iran e sono represse in modo brutale. Nel 2019, secondo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, più di trecento persone sono state uccise nelle proteste contro il governo.

Una protesta a Teheran, il 22 settembre 2022 (Middle East Images)

Le forze di sicurezza hanno aumentato la presenza nelle città principali, ma le manifestazioni si sono estese in molti altri centri. In varie zone del paese le autorità hanno bloccato internet per impedire la circolazione di immagini delle proteste. Le forze di sicurezza hanno attaccato i manifestanti con manganelli e gas lacrimogeni e hanno inviato messaggi sui telefoni, dicendo agli iraniani di lasciare le strade. Secondo l’ong Iran human rights, con sede a Oslo, almeno 76 persone sono state uccise e 1.200 sono state arrestate.

Negli ultimi vent’anni in Iran ci sono state diverse proteste, tra cui quella del 2019, provocate soprattutto dalle cattive condizioni economiche. Ma per gli osservatori c’è una netta differenza tra quelle e la mobilitazione attuale. “Oggi vedo tante persone unite per raggiungere i loro obiettivi”, spiega un giornalista iraniano che ha chiesto di restare anonimo. “Le persone cantano slogan e rischiano la vita in nome di una rivendicazione culturale, cioè la fine dell’obbligo del velo e dell’oppressione delle iraniane. Nel 2019 i manifestanti appartenevano soprattutto alle fasce più povere della popolazione. Oggi scendono in piazza persone di tutte le classi sociali”.

Il giornalista racconta che la solidarietà alle proteste è sorprendente: “Anche le persone più religiose e fedeli alla repubblica islamica si sono indignate per la brutalità della polizia nei confronti di Mahsa Amini e simpatizzano con i manifestanti”.

Farah (uno pseudonimo) ha 43 anni e indossa il chador, una sorta di mantello che copre la testa lasciando libero il volto. Non è d’accordo con l’obbligo dell’hijab e considera il comportamento della repubblica islamica “dannoso per tutto l’islam”: “Mette in pericolo donne come me che scelgono di indossare l’hijab, perché alcuni giovani arrabbiati ci scambiano per sostenitrici del governo”.

All’interno del fronte conservatore la spaccatura sulla questione della morte di Amini è sempre più evidente. Molti sono irritati. “Credo che sia il governo a rendere le proteste violente, in modo da avere un pretesto per reprimerle”, commenta un analista iraniano, che ha chiesto di restare anonimo. “Il risultato è che alcuni conservatori fino a poco fa solidali con i manifestanti ora sono preoccupati. Il governo e i suoi sostenitori affermano che i manifestanti hanno dato fuoco a due moschee”. Per lui queste tattiche sono “vecchi trucchi”, usati dalle autorità anche nel 2009, quando i riformisti protestarono contro i risultati delle elezioni presidenziali che avevano assegnato un secondo mandato all’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad. “Vogliono evitare che la loro base simpatizzi con i manifestanti e allo stesso tempo spianarsi la strada per la repressione”, conclude.

Senza direzione

Diverse celebrità hanno fatto sentire la loro voce, usando toni che non erano mai stati così duri. Ali Karami, una figura leggendaria del calcio iraniano, ha pubblicato un video in cui gli agenti picchiano e insultano le donne per strada. Il famoso attore Pantea Bahram ha definito le forze di sicurezza “una banda di traditori”.

Anche se la repressione non è ancora ai livelli del 2019 o del 2009, non si possono escludere altre violenze. E non è chiaro cosa possa ottenere questo movimento spontaneo e privo di direzione. Un altro analista di Teheran commenta: “Anche se è una mobilitazione significativa in termini di partecipazione e portata, difficilmente otterrà risultati, perché le manca una leadership e un coordinamento. Temo che queste proteste si limiteranno a uno sfogo collettivo, che rischia di concludersi con una brutale risposta del governo. Non c’è un obiettivo. Alcune persone vogliono la fine dell’hijab obbligatorio, altre la fine della polizia religiosa, altre ancora il rovesciamento della repubblica islamica”.

Secondo un ex funzionario moderato, qualunque concessione del governo sarebbe pericolosa: “Il sistema non può fare altro che resistere. Se facesse un passo indietro ci sarebbero gravi ripercussioni. Se abolisse la polizia religiosa, il passo successivo sarebbe la fine dell’obbligo dell’hijab, una delle identità del sistema. Non succederà, quindi la repressione delle proteste non dovrebbe sorprenderci”. ◆ dl

Questo articolo è firmato da un “corrispondente di Middle East Eye”, una formula usata dal sito di analisi sul Medio Oriente per tutelare l’identità dei giornalisti che lavorano in paesi pericolosi per la loro sicurezza.

Da Teheran
Tabù infranti

Dalla morte di Mahsa Amini il 16 settembre, i giornali riformisti iraniani hanno apertamente criticato le leggi restrittive che impongono alle donne d’indossare il velo. Il 20 settembre il quotidiano Etemad ha pubblicato una lettera aperta dell’ex deputato Elias Hazrati, che chiede al presidente Ebrahim Raisi di mettere fine alle operazioni della polizia religiosa “per curare il dolore di milioni di iraniani”. Lo stesso giorno Shargh, l’altro principale giornale riformista, ha fatto la stessa richiesta in prima pagina.

In un editoriale Jahanesanat sostiene che la politica e gli affari culturali e religiosi dovrebbero essere due cose separate e l’interferenza del governo nel controllo delle libertà “è sbagliato e inaccettabile”. Secondo il giornale economico, “anche se l’obbligo dell’hijab è da promuovere e difendere, perché le sue radici affondano nella cultura nazionale e religiosa iraniana, si tratta di un affare pubblico, non governativo; deve occuparsene la società, non il governo”.

Un altro giornale riformista, Hammihan, riflette invece sul ruolo dei mezzi d’informazione: “Il flusso di notizie dopo la morte di Mahsa Amini è stato così forte che la domanda d’informazioni a giornali radio e tv è aumentata esponenzialmente. Visto che il dibattito online cresceva, i mezzi d’informazione tradizionali hanno cercato di aprire uno spazio di dialogo tra conservatori e riformisti sulla polizia religiosa, analizzando la sua condotta e i suoi punti deboli”.


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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati