La nuova ondata di proteste seguita alla morte di Mahsa Amini è un evento epocale. Le immagini hanno superato le parole, i gesti sono andati oltre gli slogan, il coraggio ha prevalso sulla paura e la vita e la libertà sulla schiavitù. Cos’è questo movimento e cosa vuole? Perché la morte di Amini si è trasformata in un fatto così dirompente? Anche se è difficile dargli un nome, e tutto succede rapidamente, questo è un movimento radicato e profondo.

Mahsa Amini è il simbolo di una situazione degradante e molto diffusa. Senza volerlo ha mostrato cinque componenti centrali e interconnesse del sistema di repressione in Iran. Innanzitutto Amini era una donna. Poi è stata arrestata dalla polizia religiosa perché indossava il velo in modo considerato scorretto. Terzo, è morta per le torture e le percosse mentre era in custodia della polizia. Inoltre era originaria del Kurdistan, una delle regioni dell’Iran più disagiate e vessate. Infine, l’apparato della repressione ha diffuso menzogne per giustificare la sua morte.

Teheran, 19 settembre 2022 (Middle East Images)

Noi che viviamo all’ombra del regime religioso sappiamo che essere donna espone di per sé a situazioni degradanti. Ma non è solo questo. Amini è stata arrestata a causa dell’hijab, uno dei principali strumenti di oppressione e umiliazione. Fin dall’inizio della rivoluzione è chiaro che lo scopo del velo non è preservare l’onore delle donne.

La morte di Amini mostra la violenza sistematica delle forze dell’ordine. Non si può non provare empatia nei confronti di Amini se ci si è trovati almeno in una di queste circostanze: donne molestate e umiliate solo perché donne, ragazze oltraggiate dalla polizia religiosa, persone arrestate. L’umiliazione collettiva ha creato nella popolazione una solidarietà i cui effetti sono ora visibili nelle proteste.

Nel dicembre 2017, durante un’altra ondata di mobilitazioni, Vida Movahed salì su una centralina telefonica in via Enghelab, a Teheran, sventolando il suo velo issato sulla cima di un bastone. Così sono nate “le ragazze di via Enghelab”. Dopo decenni in cui lo stato aveva speso soldi per giustificare l’imposizione alle giovani dell’hijab, del chador e del maghnae (diversi tipi di velo islamico) con slogan come “il velo preserva la dignità della donna”, “il velo è come la conchiglia per la perla”, “il velo è il vessillo della lotta contro l’occidente”, improvvisamente la strada cambiava colore. Le ragazze di via Enghelab non conquistarono la strada, ma fecero un passo importante per mettere in discussione l’obbligo del velo. Dopo di loro il clima a Teheran è cambiato e il numero di donne che hanno avuto il coraggio di uscire senza velo è aumentato in modo sorprendente.

Ardabil, 21 settembre 2022 (Middle East Images)

Normalizzare il male

Con l’arrivo al potere dei conservatori, nel 2021, il paese è stato militarizzato più di prima. Mentre crescevano le critiche al presidente Ebrahim Raisi per la sua incompetenza e debolezza, quest’estate in tanti hanno visto il video di un litigio tra due donne su un autobus. Qualche giorno dopo Sepideh Rashno, aggredita e arrestata per aver sollevato il velo sull’autobus, è apparsa in tv con il volto emaciato su cui erano visibili segni di tortura, per confessare che “il nemico” l’aveva spinta a spostare il velo. Era chiaro che l’obiettivo era intimorire le donne. Mentre prima il governo tentava di mascherare le torture, ora decideva di rendere pubblica una parte di quello che succede dietro le quinte. Questa volta il suo obiettivo non era la confessione: voleva mostrare la sua capacità di trasformare una ragazza impavida e con i capelli al vento in una figura deperita e ridotta al silenzio.

La presenza della polizia religiosa nelle strade non ha lo scopo di salvaguardare la morale, bensì di normalizzare il male. Ma gli autori di questa sceneggiata non hanno capito che le loro giustificazioni a decenni di umiliazioni sono ormai logore e non convincono più nessuno. Non hanno più autorità. E quando la legittimità e l’autorità perdono terreno, l’oppressione e la violenza diventano necessarie. Ma il ricorso alla forza produce il contrario di quello che si voleva ottenere, e accende il fuoco dell’odio e del risentimento.

Ormai la repubblica islamica non è più in grado di cambiare, non ha alternative che proseguire sulla strada che ha preso. Il governo ha legato la sua identità al dominio e alla forza.

Questa impostazione ha salde radici nel diritto islamico. I giuristi hanno il compito di discutere questioni ed emettere sentenze, non hanno la pazienza di opporsi e criticare. Ma non si rendono conto che così non possono ridurre all’obbedienza la nuova generazione, di cui non sanno nulla. Anche le autorità sono consapevoli che l’apparato clericale e quello giudiziario, ormai da tempo impotenti e corrotti, hanno perso il contatto con la realtà.

I due assi principali intorno a cui ruotano le proteste sono il rifiuto dell’obbligo del velo e la denuncia degli orrori commessi dalla polizia. Il primo è una richiesta di libertà, il secondo di dignità. Entrambe queste esigenze sono assenti dalla vita politica in Iran. “Donna, vita, libertà” è lo slogan più importante, e dimostra che ridurre la mobilitazione alla domanda di smantellare la polizia religiosa è una distorsione. Questa contestazione è l’anello di una catena di proteste, cominciata con il movimento verde del 2009, che ha il potenziale per un cambiamento radicale.

In tutte le mobilitazioni le donne sono in prima linea, ma in questa c’è anche una peculiarità. Innanzitutto la protesta si è estesa a molti piccoli centri, mentre il movimento verde era limitato alle grandi città. Inoltre oggi è chiaro che la richiesta di cambiamento in Iran è seria e decisa. La condizione attuale del governo e della società iraniani si può spiegare come una combinazione di potere e volere: il governo vuole ma non può più; la società vuole ma forse non può ancora. Il governo vuole imporre alla società il suo colore, ma ha perso autorità e fa affidamento solo sulla forza e sulla violenza. La società vuole una liberazione, ma ancora la sua forza non arriva al governo.

È improbabile che saremo testimoni di un cambiamento in tempi brevi. Ma con ogni ondata di proteste il desiderio di liberazione diventa più possibile. Il cambiamento radicale avviene quando il sistema di oppressione si disintegra. Una cosa che sembra possibile, considerato il coraggio della nuova generazione e la debolezza del governo. ◆ mf

Fatemeh Sadeghi è una politologa e scrittrice iraniana, esperta in studi di genere.

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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati