Il cuore della poetica di Heiner Goebbels è nell’eterogeneità delle sue fonti musicali e testuali. Gli ascoltatori avrebbero bisogno di un navigatore prima di tuffarsi in un oceano dove s’incontrano Roland Barthes e Heiner Müller, Samuel Beckett e Joseph von Eichendorff, Pierre Boulez e Komitas. Vale la pena di ricordare il credo del compositore tedesco: “Io posso lavorare con la musica rock, la musica africana o la musica classica. I materiali cambiano, ma il metodo di lavoro resta il mio”. In lavori come A house of call, sottotitolato “collezione fonografica del mio quaderno immaginario”, l’impronta dell’autore è sempre riconoscibile. La partitura crea uno spazio in cui si sovrappongono voci registrate dei notiziari o materiale etnografco. Iniettandole in un nuovo contesto, Goebbels ne prolunga il potenziale rivoluzionario con il trattamento musicale. Un disco non può restituire la sottile interazione tra suoni registrati e orchestra, ma la sua carica emotiva risplende grazie alla direzione di Vimbayi Kaziboni, che ne inasprisce i punti nevralgici, e un Ensemble Modern esaltato. È un capolavoro del nostro secolo.
Jérémie Bigoire, Diapason

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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati