Ascoltare wet glass è come viaggiare all’alba su un’autostrada bagnata sul sedile del passeggero, mentre i Verity Den sembrano essere altrove con la mente. Le loro canzoni si muovono tra luoghi indefiniti, come frammenti di un sogno. Ma la loro condizione sospesa non è immobilità: nel subconscio c’è movimento, lucidità, tensione. Dopo un debutto lo-fi, questo secondo album apre un nuovo spazio emotivo. La produzione, più nitida e vasta, permette ai brani di respirare. Le percussioni di spit red crescono come un’eco capovolta; in vacant lot la voce morbida di Casey Proctor si fonde a chitarre che ribollono come nebbia sul parabrezza. I sette minuti di push down hard / tess II galleggiano come luce in una piscina, con voce e chitarra che creano una fragile tensione di superficie. La voce parlata di Mike Wallace contrasta con le melodie eteree di Proctor, spesso distanti nel mix, come se arrivassero da una stanza accanto. In sympathizer lei emerge dal torpore su chitarre lucenti, sussurrando: “Do. You. Sympathize?”, lasciando che una chitarra nervosa completi il pensiero. I testi si adattano alle strutture sognanti dei brani. to trees è grezza e quasi improvvisata. In unsolved mystery un’unica frase riaffiora lentamente da un bordone ovattato, ricordando l’influenza degli Yo La Tengo, che si sente anche nell’apertura di vacant lot. Rispetto al dream-pop più sonnolento, i Verity Den lasciano correre i loro sogni lucidi. I ritornelli brillano. green drag è il momento più radioso, un jangle-pop da cavalcare verso il tramonto. In wet glass il vagare continuo rende ancora più preziosi gli attimi di chiarezza. Anche senza sapere dove ci porteranno i Verity Den, basta lasciarsi trasportare.
Grace Robins-Somerville, Pitchfork

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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati