Il 24 gennaio i parlamentari italiani e i delegati delle regioni saranno chiamati a eleggere il nuovo presidente della repubblica. Quello che in genere è un gioco politico misterioso e solo italiano, oggi attira l’attenzione del mondo. Perché in corsa ci sarà probabilmente anche Mario Draghi, attuale presidente del consiglio italiano ed ex presidente della Banca centrale europea (Bce), che nel 2012 con il suo impegno a fare whatever it takes (tutto il necessario) fu decisivo per il salvataggio dell’euro.

Oggi l’eurozona è tranquilla. Ma il debito italiano proietta un’ombra sul futuro della moneta europea. Quando quasi un anno fa è stato chiamato ad assumere il ruolo di capo del governo, molti hanno sperato che Draghi potesse cambiare le cose come aveva fatto quando era alla Bce. La questione è se riuscirà a mantenere il potere, passando dalla presidenza del consiglio a quella della repubblica.

Sala della marchesa, palazzo del Quirinale, Roma 2015 (Massimo Listri)

La posta in gioco nella corsa alla presidenza della repubblica italiana va oltre la figura di Draghi e la sua abilità di tecnocrate. Forse andrebbe considerata come l’ultima opportunità nella decennale battaglia per riconciliare la posizione dell’Italia nel cuore dell’Europa – e dell’euro – con le correnti mutevoli della sua democrazia. Nel suo ruolo precedente, Draghi usò il potere della banca centrale per placare i mercati finanziari. Ma non è così ovvio che riesca a usare le leve del potere romano per affrontare il problema della scarsa crescita italiana. La costituzione italiana sembra assegnare alla presidenza della repubblica una funzione di rappresentanza. Il potere esecutivo è affidato al presidente del consiglio. Ma dagli anni novanta il capo dello stato ha assunto un ruolo più importante. Mentre i presidenti del consiglio dipendono da coalizioni parlamentari spesso instabili, quello della repubblica resta in carica per sette anni. Ogni nuovo governo formato dai partiti deve essere approvato dal presidente della repubblica, come ogni legge. Inoltre è lui a decidere lo scioglimento delle camere e quindi a dettare i tempi delle nuove elezioni. Durante la guerra fredda, quando la Democrazia cristiana dominava la politica italiana, la presidenza della repubblica aveva poca autonomia. Ma la frammentazione e la polarizzazione del sistema politico, unite alle battaglie drammatiche per mantenere l’Italia nell’eurozona, hanno reso il capo dello stato la figura decisiva della politica italiana. Tutto è cominciato con la crisi politica ed economica del 1992.

Problemi politici ed economici

Nel febbraio 1992 esplose una crisi causata da un sistema di corruzione noto come tangentopoli, che trasformò il sistema politico italiano. Negli anni novanta e duemila al governo si registrò per la prima volta un’alternanza tra partiti di sinistra e di destra, quest’ultima guidata dal nuovo populismo oligarchico di Silvio Berlusconi. Ma con la caduta del suo ultimo governo, nel 2011, la politica italiana si è frammentata. Berlusconi è ancora sulla scena, anche se oggi è un mite conservatore. Le ultime elezioni parlamentari, nel 2018, hanno premiato il Movimento 5 stelle, una formazione populista, e i nazionalisti di destra della Lega. Dal 2019 la Lega è stata superata nei sondaggi da Fratelli d’Italia, un partito di estrema destra.

L’Italia è difficile da governare non solo per la sua complessità politica. La legittimazione è scarsa perché l’economia non produce i risultati di cui i politici hanno bisogno. Nel dopoguerra il paese visse una delle più grandi storie di successo di tutta Europa. Nel 1987 poté affermare di aver superato il prodotto interno lordo (pil) del Regno Unito. Allo stesso tempo, spesa e debito pubblico cominciarono ad aumentare. L’Italia compensava un’inflazione alta con svalutazioni periodiche della lira (la valuta nazionale prima dell’euro). Quel modello di crescita arrivò al capolinea negli anni novanta, quando la Francia e la Germania avviarono il progetto dell’unione monetaria europea e stabilirono i severi criteri di Maastricht per l’ingresso nell’euro: un debito pubblico non superiore al 60 per cento del pil e un deficit non superiore al 3 per cento del pil. Nel 1992, mentre i partiti si stavano disintegrando, l’Italia affrontò anche una crisi finanziaria.

Gli interventi del capo dello stato servono per gestire le crisi, ma alla lunga probabilmente finiscono per indebolire i partiti

Di fronte alla doppia crisi, politica ed economica, una generazione di politici di centro e di tecnocrati italiani, tra cui Draghi, si impegnò ad allineare l’Italia alla visione franco-tedesca dell’Europa. Domarono l’aumento del debito pubblico, ma al prezzo di un drammatico rallentamento della crescita economica. In termini reali il pil italiano del 2019 ha superato quello del 2000 solo del 4 per cento. In due decenni il pil pro capite degli italiani non è migliorato, mentre nello stesso periodo quello francese e quello tedesco sono aumentati rispettivamente del 16 e del 25 per cento. Le implicazioni per la società italiana e per le finanze del paese sono state preoccupanti.

Il debito pubblico italiano, pari a circa 2.700 miliardi di euro, è il quinto più grande al mondo dopo quello di Stati Uniti, Giappone, Cina e Francia. All’inizio del 2021 il rapporto tra debito e pil si attestava al 158,5 per cento, più del doppio di quello richiesto dal patto di stabilità e crescita europeo. È una percentuale di gran lunga inferiore a quella di altri paesi molto indebitati, come il Giappone, ma all’interno del sistema monetario europeo le decisioni sui livelli d’indebitamento consentiti sono prese dall’Unione europea. In ogni caso, l’Italia può contare sulla Bce, una banca centrale con potenza di fuoco illimitata.

La stabilità finanziaria del paese dipende dall’Europa e l’Italia è troppo grande per fallire. Questa condizione ha esercitato una pressione enorme sulla politica italiana. Negli ultimi trent’anni i politici hanno dovuto governare con bilanci pubblici in avanzo primario, cioè garantendo entrare superiori alle uscite, senza tenere conto degli interessi sul debito. Non sorprende che abbiano avuto difficoltà a gestire la situazione. Al presidente della repubblica è toccato il compito di trovare governi in grado di far fronte alle pressioni. Dall’inizio degli anni novanta, Draghi è il quinto presidente del consiglio non emerso dal parlamento. Prima di lui ci sono stati Carlo Azeglio Ciampi (1993-1994), Lamberto Dini (1995-1996), Mario Monti (2011-2013) e Giuseppe Conte (2018-2021). Tra loro, quattro sono stati scelti o indicati dal presidente della repubblica, tutti economisti o banchieri centrali.

È comune definire la presidenza della repubblica italiana come una fonte di stabilità. Fino a oggi il ruolo è stato ricoperto da una serie di figure autorevoli della politica italiana. Ma l’idea della funzione stabilizzatrice della presidenza solleva un dubbio: gli interventi del capo dello stato servono per gestire le crisi, ma alla lunga non finiscono per indebolire e destabilizzare i partiti? L’imperativo di mantenere l’Italia al passo con l’euro e di governare il paese con banchieri ed economisti non ha forse contribuito alla loro disgregazione?

Nell’autunno del 2011, con i mercati finanziari in agitazione, il presidente Giorgio Napolitano – storico esponente del Partito comunista italiano, definito dal segretario di stato statunitense Henry Kissinger il suo “comunista preferito” – cominciò a fare in modo che Berlusconi si dimettesse da presidente del consiglio. Secondo alcuni Napolitano era un “pacato mediatore politico”. Per altri era “re Giorgio”. Con un inarrivabile 80 per cento di consenso nei sondaggi, Napolitano umiliò Berlusconi. L’8 novembre 2011 accettò le sue dimissioni con il plauso di Berlino, Parigi e Wash­ington. Invece di indire nuove elezioni, l’inquilino del Quirinale scelse Mario Monti, un economista, professore ed ex commissario europeo che non era stato eletto da nessuno, come l’uomo giusto per il lavoro sporco: soddisfare le richieste di austerità dell’Unione europea.

Quanto alla crisi dell’euro, il governo Monti portò a casa il risultato sperato. Con il senno di poi quello è stato però l’inizio della frammentazione di oggi. I populisti del Movimento 5 stelle, estranei alla politica tradizionale, sono saliti alla ribalta. Nella destra la perdita di credibilità di Berlusconi ha liberato il campo per alternative più radicali. Era solo questione di tempo prima che le forze populiste dei cinquestelle e una Lega che aveva modificato la sua immagine mettessero a segno uno straordinario successo alle elezioni parlamentari del 2018. Il Movimento 5 stelle da solo ha ottenuto il 32 per cento dei seggi al senato e alla camera dei deputati. Il popolo si era espresso in modo chiaro.

Sala degli ambasciatori, palazzo del Quirinale, Roma, 2015 (Massimo Listri)

Un governo populista è stato inevitabile. Ma la cosa non è piaciuta ai mercati finanziari e lo spread (la differenza di rendimenti a dieci anni tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi) è risalito. Ancora una volta è stato necessario l’intervento del presidente. Sergio Mattarella, il successore di Napolitano, proviene dalla corrente di sinistra della Democrazia cristiana. Come il suo predecessore è un convinto europeista. Quando la coalizione tra la Lega e il Movimento 5 stelle gli ha presentato la lista dei ministri, Mattarella si è opposto alla nomina di Paolo Savona all’economia, considerandolo inadatto alla carica. Dato che Savona è un oppositore dell’euro, rappresentava un rischio per la stabilità finanziaria dell’Italia. Al suo posto Mattarella ha voluto Giovanni Tria, un economista più tradizionale. La regola non scritta della democrazia italiana è apparsa chiara: gli elettori possono scegliere il loro governo, a patto che non rappresenti una minaccia per l’euro.

L’incarico a Tria si è rivelato strategico. L’uomo di Mattarella è stato anche l’argine contro cui si è infranto il tentativo di Matteo Salvini di radicalizzare il governo. L’uscita della Lega dal governo, per tornare alle urne e quindi capitalizzare il vantaggio che i sondaggi le attribuivano, ha spinto Mattarella ad approvare una nuova coalizione, questa volta composta dal Movimento 5 stelle e dal Partito democratico. In tutta Europa i centristi hanno tirato un sospiro di sollievo quando Salvini e la Lega sono stati rimossi dal potere, ma a uscire vittoriosi nei sondaggi è stato Fratelli d’Italia, oggi molto vicino a diventare il primo partito del paese.

L’ennesimo stratagemma

Il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha giocato bene la sua partita durante l’emergenza covid-19. Ma quando si è trattato di distribuire più di duecento miliardi di euro di finanziamenti del programma Next generation Eu, l’opposizione è arrivata dal centrosinistra (il cosiddetto recovery fund, fondo per la ripresa), non dalla destra. La sinistra lo ha accusato di provare a monopolizzare il controllo dei fondi e di non avere una visione riformista. Il minuscolo partito Italia viva di Matteo Renzi è uscito dalla coalizione, abbandonando Conte e chiedendo a Mattarella di dare all’Italia la guida di cui aveva bisogno in un momento storico sia per il paese sia per l’Europa. Intendeva Draghi. Ancora una volta, la caduta di un governo non è stata sufficiente a far indire le elezioni. Al contrario, ha provocato l’ennesima prova di forza del presidente. Invece di formare un governo tecnico, togliendo la responsabilità ai partiti, Draghi e Mattarella li hanno vincolati coinvolgendoli.

Sala degli specchi, palazzo del Quirinale, Roma, 2015 (Massimo Listri)

Il governo attuale è di gran lunga più stabile tra quelli formati dopo le elezioni parlamentari del 2018. Comprende politici di spicco del Movimento 5 stelle, della Lega, del Partito democratico e di Forza Italia. L’unico importante partito rimasto fuori dall’esecutivo è Fratelli d’Italia. Finora, il governo Draghi ha raccolto applausi. Le stime sulla crescita italiana sono state riviste al rialzo con un incoraggiante 6 per cento. L’Italia è in ritardo rispetto alla ripresa del Regno Unito o degli Stati Uniti, ma l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha rivisto la sua valutazione del debito italiano da stabile a positivo. L’Economist ha definito l’Italia “paese dell’anno”. È una buona notizia sia per il paese sia per Bruxelles, che ha bisogno del successo della penisola se vuole vincere la scommessa sul programma Next generation Eu.

In questo contesto, le elezioni per trovare il successore di Mattarella pongono un dilemma. Non ci sono dubbi che a Bruxelles e in Italia c’è preoccupazione per l’immediato futuro e che quindi in molti preferirebbero che Draghi rimanesse al suo posto. Ma né Mattarella né Draghi sembrano intenzionati ad andare avanti insieme. Mattarella, giurista costituzionale di grande prestigio, ha ribadito che non vuole un secondo mandato. Draghi, dal canto suo, ha chiarito che non ripeterà la sfortunata mossa di Monti, che tentò il salto da tecnocrate a politico. Non si candiderà alle elezioni parlamentari che dovranno tenersi al più tardi entro il 2023. Ma se Mattarella tiene duro e si rifiuta di prolungare il suo mandato, allora Draghi deve agire ora se vuole la presidenza. E così si apre un altro dilemma. Se Draghi diventasse presidente della repubblica, chi prenderebbe il posto di presidente del consiglio? Ci sarebbero delle nuove elezioni? E quali sarebbero le conseguenze di un suo eventuale trasloco al Quirinale (la residenza del capo dello stato)?

Draghi non ha ancora detto apertamente se si candiderà. Fare pubblicamente campagna elettorale per diventare presidente della repubblica, come sta facendo Berlusconi, sarebbe una caduta di stile. È possibile che le trattative tra i partiti portino alla ribalta un nuovo candidato. Per essere eletto Draghi ha bisogno dei voti del Partito democratico e dei cinquestelle, due forze politiche che temono le elezioni anticipate. Il numero di seggi in parlamento dovrebbe essere ridotto di circa il 40 per cento, e i deputati più avidi cercheranno di tenersi stretti i loro posti e le loro pensioni. Potrebbero obbligare Draghi a restare in carica difendendo il suo operato da capo del governo. Come ha notato un osservatore, “in un’evidente prova dello stato di disperazione in cui versa la classe dirigente italiana, il pubblico della Scala di Milano ha recentemente accolto a teatro il presidente Sergio Mattarella gridando ‘bis’, chiedendogli di restare in carica per un altro mandato”.

Fare pubblicamente campagna per diventare presidente della repubblica, come ha fatto Silvio Berlusconi, sarebbe una caduta di stile

Draghi sembrerebbe più ottimista. Nella sua conferenza stampa di dicembre, che è stata vista da molti come una preparazione alla candidatura per la presidenza della repubblica, ha dichiarato di considerare completata la sua missione di presidente del consiglio. La domanda da un miliardo di euro è se ha ragione.

Le sfide con cui Draghi si è misurato da quando è entrato in carica nel febbraio 2021 sono state tre: elaborare un piano di ripresa dell’economia; creare le condizioni per realizzarlo; spendere i soldi dell’Unione europea raccogliendone i frutti. Draghi ha presentato un piano che è stato subito approvato dall’Unione. Un progetto insolitamente proiettato in avanti, basato sulle riforme strutturali come prerequisiti per la spesa.

Per quanto riguarda la creazione delle condizioni per la ripresa, il suo governo ha agito rapidamente per contenere l’epidemia di covid-19 attraverso un’accelerazione delle vaccinazioni. La squadra di Draghi ha portato avanti la riforma della burocrazia e la razionalizzazione del vecchio sistema penale italiano. Anche la giustizia civile dovrà essere riformata. Ma non tutto è andato liscio. La riforma del catasto, che avrebbe dovuto gettare le basi per una tassazione più equa delle proprietà, è stata ostacolata dalla Lega. L’Italia ha un terribile primato causato dall’incapacità di spendere i fondi stanziati da Bruxelles. Durante il governo Draghi, sia il ministero del turismo sia quello della transizione ecologica, fondamentali per la visione ecologista dell’Unione europea, hanno messo a punto i loro piani di spesa con grande lentezza. Quanto agli investimenti effettivi e all’auspicata accelerazione della crescita, solo il tempo saprà dire se le misure hanno funzionato.

Regole da cambiare

In Italia gli ostacoli alla crescita sono profondamente radicati. Ci sono poca innovazione, poca ricerca e poco sviluppo. Il paese è solo al 33° posto nella classifica di quelli che dal 2003 attirano più investimenti, preceduto non solo dalla Spagna, ma anche dalla Romania. Rispetto ai vicini ricchi dell’Europa occidentale, la forza lavoro italiana ha livelli di formazione terribilmente bassi. Per recuperare un simile divario non ci vorranno mesi, e nemmeno anni, ma decenni. Perfino le previsioni più ottimistiche stimano che il fondo europeo per la ripresa farà aumentare il pil meno dell’1 per cento all’anno. Sarebbe un passo nella giusta direzione, ma di certo non il momento di dichiarare che il lavoro è stato portato a termine.

La posta in gioco è rappresentata dalle opportunità che si riusciranno a dare ai giovani italiani. Hanno urgente bisogno di prospettive di vita migliori. Non le avranno se Roma sarà coinvolta in una grave crisi finanziaria e del debito, come è successo tra il 2011 e il 2012. La fine del programma d’emergenza della Bce per l’acquisto di obbligazioni si avvicina. Con il rapporto tra debito pubblico e pil superiore al 158 per cento ci vorrà molta buona volontà da parte degli investitori per evitare un’impennata dei rendimenti italiani e un pericoloso aumento dei tassi d’interesse e del debito.

L’Italia deve mostrare dei miglioramenti se vuole stabilizzare il suo debito attraverso misure finanziarie comuni come il Next generation Eu, l’allentamento delle regole dell’Unione europea o l’intervento della Bce. Naturalmente, la Germania e gli altri paesi del Nordeuropa potranno opporre il loro veto. Ma l’Italia non è impotente. Con l’uscita di scena della cancelliera tedesca Angela Merkel, Draghi è il leader europeo con più esperienza. Ed è stato sorprendentemente esplicito sulla necessità di riformare le regole di bilancio dell’Unione. A dicembre del 2021 ha detto che già prima della pandemia queste regole “non erano sufficienti, erano regole per la crescita economica che per certi aspetti aggravavano il problema invece di aiutare a risolverlo. Quindi una loro revisione oggi è inevitabile”. Regole incompatibili, ha dichiarato Draghi, con la necessità di aumentare gli investimenti per la sostenibilità e le infrastrutture digitali.

Coffee house, palazzo del Quirinale, Roma, 2015 (Massimo Listri)

Insieme al presidente francese Emmanuel Macron, Draghi ha lanciato un piano per riformare il patto di stabilità e crescita e consentire più investimenti pubblici. La Francia, preoccupata dal suo debito, è un alleato naturale. Sarà più difficile convincere il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Ma Berlino sa quanto è importante avere buoni rapporti con Roma. Nel 2018 il successo dei populisti in Italia ha preoccupato seriamente la coalizione di Merkel.

Se Macron fosse rieletto, Germania, Francia e Italia potrebbero formare un triumvirato riformista. Ma ancora una volta si pone la domanda: Draghi avrebbe più potere rimanendo in prima linea come presidente del consiglio in un momento critico per la ripresa dell’Europa, o potrebbe perseguire meglio gli interessi dell’Italia nell’Unione europea in veste di presidente della repubblica?

Mentre la Commissione europea potrebbe ritenere che il biennio 2022-2023 sia fondamentale per il futuro dell’Europa e per il ruolo dell’Italia al suo interno, e quindi desiderare che Draghi rimanga capo del governo, i suoi più convinti sostenitori sono favorevoli al suo passaggio alla presidenza della repubblica. Secondo loro sarebbe allo stesso tempo l’apoteosi del riformismo e il ritorno alla normalità. L’illustre tecnocrate diventerebbe capo dello stato, permettendo alla politica di riprendere il suo corso.

Porticato del cortile d’onore, palazzo del Quirinale, Roma, 2015 (Massimo Listri)

Non c’è una ricetta brevettata

Il problema è che le prospettive economiche e politiche del paese sono molto incerte. I sostenitori di Draghi insistono sul fatto che una nuova coalizione tra Partito democratico e cinquestelle potrebbe sopravvivere almeno fino al 2023 sotto la sua protezione, se fosse eletto al Quirinale. Fratelli d’Italia è minaccioso e forte, ma non invincibile. I risultati alle recenti elezioni regionali sono stati deludenti, soprattutto per l’incapacità di far eleggere il suo candidato a sindaco di Roma. Il Partito democratico, colonna portante dei governi che si sono succeduti dal 2019, sta guadagnando terreno. La Lega è divisa. Sebbene Salvini sia imprevedibile, il suo breve periodo al governo ha messo in luce profonde divisioni nel suo partito tra l’ala populista euroscettica e quella che difende gli imprenditori dell’Italia del nord, rappresentati nel governo Draghi dal ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, che come consigliere ha l’ex ministro dell’economia Tria. È difficile immaginarli in una coalizione con Fratelli d’Italia. Né Berlusconi può più lanciarsi in un’avventura con l’estrema destra. Arrivato alla fine della sua carriera, sembra puntare sulla rispettabilità e sul riscatto.

Questa è almeno la tesi dei più ottimisti tra i sostenitori del passaggio di Draghi alla presidenza della repubblica. Più numerosi sono quelli che ricorrono a un’argomentazione dal tono ambiguo e difensivo. L’obiettivo principale, secondo loro, dev’essere quello di garantire governi responsabili per i prossimi sette anni, grazie a un presidente affidabile. Insieme ai controlli e ai contrappesi forniti dall’Europa, Draghi alla presidenza rappresenterebbe l’argine necessario per tenere in riga perfino una coalizione con Lega e Fratelli d’Italia. La destra potrebbe essere d’accordo. La presenza di Draghi al Quirinale la proteggerebbe dalle inquietudini dei mercati finanziari. Lontana dall’apoteosi del riformismo, questa versione di Draghi alla presidenza lo vedrebbe tutore dei livelli massimi di nazionalismo e xenofobia tollerabili dall’Europa e dai mercati. E se Draghi fosse lì solo per prevenire il peggio, si chiedono gli scettici, basterebbe la sua sola presenza a calmare i mercati senza un decisivo intervento della Bce?

Nel 2021 si è parlato molto di “effetto Draghi”. Il fatto che fosse così necessaria una sorta di magia personale tradisce l’incertezza del progetto che l’attuale presidente del consiglio e i suoi sostenitori perseguono dagli anni novanta. Hanno scommesso sulla modernizzazione dell’Italia legandola all’Europa. Il paese ora lo è in modo probabilmente irreversibile. Ma i dati sulla crescita sono stati disastrosi. Il progetto di ammodernamento è stato un enorme insuccesso.

Il fondo europeo per la ripresa è l’ultimo tentativo di rilanciarlo. Draghi può dichiarare che il suo lavoro come presidente del consiglio è finito, ma se è vero o no dipende da forze recalcitranti. Dagli elettori italiani e più di tutto dall’economia italiana.

Draghi ha grandi doti politiche, ma non è un politico. È un economista. Nonostante la sua reputazione di uomo dei miracoli, non possiede più di chiunque altro una formula segreta per ridare vita all’economia italiana nell’era della globalizzazione. In assenza di una ricetta brevettata, Roma, Bruxelles e Francoforte dovranno procedere per tentativi. Sperare che non ci siano crisi dei mercati finanziari o dei migranti come quelle che hanno alimentato la crescita dell’estrema destra nel 2015. L’attuale presidente del consiglio italiano è quasi alla fine della sua carriera e ci si chiede se il testimone passerà di mano e a chi. Sapremo se l’effetto Draghi è qualcosa di più di un cerotto quando non sarà più così associato alla sua persona. ◆nv

Adam Tooze è uno storico britannico. Dirige l’European institute della Columbia university, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’ anno del rinoceronte grigio. La catastrofe che avremmo dovuto prevedere (Feltrinelli 2021).

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Questo articolo è uscito sul numero 1444 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati