Nonostante tutto c’è stato qualcosa di toccante nel discorso pronunciato il 24 gennaio dall’ex primo ministro libanese Saad Hariri. Al di là dell’annuncio, su cui ormai non c’erano più dubbi, del boicottaggio delle prossime elezioni legislative da parte sua e del suo partito, le parole di Hariri raccontano una storia doppia. Quella della fine dell’harirismo, il modo di fare politica inaugurato dal padre Rafiq Hariri, ex primo ministro assassinato nel 2005, che ha dominato la scena sunnita e ha segnato il Libano per trent’anni. E quella dell’incapacità di un figlio di preservare l’eredità del padre.

Nelle vicende libanesi non mancano mai ironia e colpi di scena, e nessuno ci assicura che Saad Hariri abbia detto addio alla politica per sempre. L’harirismo forse è morto, ma rimane un orizzonte irrinunciabile per la comunità sunnita. La maggior parte degli aspiranti leader continua a rivendicarne l’influenza, a cominciare dal fratello di Saad, Bahaa, fermamente deciso a riprendersi il testimone nonostante il parere contrario del resto della famiglia.

Diciassette anni dopo l’omicidio dell’ex premier Rafiq Hariri, il figlio Saad è in un vicolo cieco. Ha perso parte della sua fortuna. E la sua popolarità è in caduta libera dal 2019

L’annuncio del ritiro del capo del partito Movimento futuro non va comunque minimizzato. È l’ammissione della fine di una dinastia. In Libano, più che altrove, la politica è un affare di famiglia tramandato di generazione in generazione. I nuovi arrivati che riescono a contestare l’ordine costituito si appropriano velocemente dei codici della vecchia aristocrazia. Gli Hariri non fanno eccezione. Ma il figlio non è uguale al padre. E scimmiottarlo non basta più per far sopravvivere la sua eredità.

Diciassette anni dopo l’omicidio di Rafiq Hariri, Saad è in un vicolo cieco. Ha perso parte della sua fortuna. Non può più contare sulla protezione saudita. La sua popolarità è in caduta libera dal 2019. E le sue scelte politiche, che si tratti della convivenza con gli sciiti di Hezbollah o del compromesso con il presidente cristiano Michel Aoun, gli sono costate care. Nel campo sunnita non è più il momento della moderazione di fronte alla formazione filoiraniana. I paesi del golfo Persico hanno scelto lo scontro. E l’umore della popolazione sunnita è favorevole al disimpegno. In queste condizioni Hariri non può più essere l’uomo della provvidenza. Anche se la decisione è stata probabilmente incoraggiata dai paesi del Golfo, il capo di Movimento futuro non si è opposto. Meglio farsi da parte che mostrare i propri limiti in battaglia.

L’harirismo scompare mentre tutto quello che ha costruito si disgrega, a cominciare dal suo modello economico. La crisi che colpisce il Libano dal 2019 è uno dei suoi effetti. Il gravissimo indebitamento, l’ancoraggio della lira libanese al dollaro, l’importanza spropositata del settore bancario nell’economia e il clientelismo sono in parte conseguenze della sua età dell’oro. A tanti anni dalla sua morte, sarebbe tuttavia ingiusto attribuire a Rafiq Hariri la responsabilità di una crisi che ha delle cause strutturali ed è frutto delle congiunture.

Rafiq, l’uomo d’affari che aveva fatto fortuna in Arabia Saudita, non è stato né un grande riformatore né un grande amministratore. Ma i suoi detrattori tendono a minimizzare quel che ha rappresentato sia in Libano sia in Medio Oriente in circostanze segnate dalla tutela siriana, dai negoziati di pace con Israele (su cui aveva scommesso tutto), poi dagli attentati dell’11 settembre 2001 e dall’invasione statunitense dell’Iraq. Rafiq Hariri ha incarnato la speranza di un rinnovamento e, nella regione, l’affermazione di un sunnismo moderato. Nonostante tutto quello che gli si può legittimamente imputare, nessuno dopo di lui ha realizzato cose altrettanto importanti.

Suo figlio non è fatto della stessa stoffa. I politici e i diplomatici che lo frequentano lo descrivono come umorale e indolente. Con collaboratori pessimi e mal consigliato, il capo di Movimento futuro non ha mai dato l’impressione di essere all’altezza. Ma anche in questo caso sarebbe sbagliato non tenere conto del contesto. Saad Hariri ha dovuto fare i conti con l’ascesa di Hezbollah, dopo che i siriani sono stati messi alla porta. Ha tentato di contrastarla, e questo ha causato l’invasione armata in vari quartieri di Beirut del partito sciita e dei suoi alleati il 7 maggio 2008. Poi sono arrivati gli accordi di Doha, che hanno dato a Hezbollah un diritto di veto totale. Quindi la scelta della moderazione, dal 2013- 2014, in un momento in cui le tensioni tra sunniti e sciiti erano altissime in tutta la regione. Queste vicende hanno facilitato il suo ritorno al potere, ma hanno anche preservato la pace.

Saad Hariri ha i difetti di suo padre senza averne le qualità. Non poteva incarnare le aspirazioni di un Libano che vuole rompere con il passato e tentare di reinventarsi su basi nuove. Ma possiamo comunque riconoscergli di non aver ceduto al populismo e al settarismo, al ricatto e alla minaccia delle armi. Lui, almeno, dopo la rivolta dell’ottobre 2019 si è dimesso. Lui, almeno, si ritira. ◆ ff

Anthony Samrani
è un giornalista libanese. Lavora per il quotidiano L’Orient-Le Jour, per il quale ha scritto questo articolo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 39. Compra questo numero | Abbonati