Un venerdì pomeriggio mio padre venne a prendermi a scuola e si fermò davanti alla porta principale, in attesa, guardandosi le unghie. Uscendo lo trovai lì, concentrato sulle sue cuticole. Mi fece un segnale e salimmo a bordo del suo furgone, un pick-up con le fiancate ricoperte dalla pubblicità di una marca di succhi di frutta che aveva distribuito fino a un paio di anni prima.
“Andiamo a Chapala”, annunciò mettendo in moto il furgone. Quel giorno voleva premiarmi: la settimana prima avevo vinto il concorso del mio distretto scolastico con un racconto su un cavaliere e un drago. Il mio racconto era stato selezionato a livello statale. Se avessi vinto, avrei partecipato a una competizione nazionale e sarei stato fotografato insieme al presidente della repubblica. Alla fine non ho vinto né il premio statale né tantomeno quello nazionale, anche perché probabilmente l’idea era che i bambini scrivessero piccoli racconti commoventi sulle fatiche dei loro nonni nei campi, non sui draghi. Ma quel giorno ancora non lo sapevamo e mio padre mi disse che avrebbe ricompensato la mia vittoria con una gita al più grande lago del paese, distante un’ora di macchina dalla scuola.
Nell’appartamento di mio padre non c’era nessuno, dunque il fatto che mia madre fracassò le finestre, tutte, con il tacco della scarpa non servì a nulla
Mia madre arrivò a scuola quindici minuti più tardi e scoprì che nessuno dei bambini ammassati tra la porta e il carretto dei gelati ero io. Fernandito, che era un pelo più sveglio del resto dei miei compagni, le disse che mi aveva visto salire a bordo di un furgone colorato. Mia madre, a cui un attimo prima tremavano le mani e le ginocchia, capì immediatamente e passò dalla paura all’odio puro. Mentre telefonava al suo avvocato, il furgone dei succhi di frutta avanzava un semaforo dopo l’altro, fino a lasciarsi alle spalle la città.
L’avvocato ascoltò al telefono la litania rabbiosa di mia madre e si rese conto che avrebbe dovuto chiamare i suoi amici del tribunale. Ma mio padre aveva scelto la data del sequestro con criterio: quel venerdì cominciavano le festività dell’indipendenza e questo significava che i tribunali avevano chiuso alle due del pomeriggio, e si sarebbero riaperti solo il martedì successivo. La consapevolezza di quell’impossibilità non placò l’ira di mia madre. Nell’appartamento di mio padre non c’era nessuno, dunque il fatto che mia madre fracassò le finestre, tutte, con il tacco della scarpa non servì a nulla, come non servirono le sue seicento telefonate a cui rispose una registrazione che parlava ancora di consegne di succo di frutta.
Magari per qualcuno Chapala è un paesino gradevole e pittoresco, ma a me è sempre sembrata vuota e poco interessante. Il lago era grande, certo, ma non maestoso. I pesci strappati alle sue acque sapevano di petrolio. L’aria puzzava di fermentazione. Mio padre parcheggiò il furgone nella piazza principale e da lì prendemmo un taxi, il cui autista si svegliò dalla siesta di mezzogiorno nel momento in cui occupammo il sedile posteriore. “Andiamo a Enramada”.
Passammo dalla riva sinistra del lago, coperti da un cielo piatto e pallido. Dopo un giro improvviso del volante, il bollore della ghiaia si spense e imboccammo una strada costeggiata da alberi colossali, i cui rami si incrociavano in aria, formando una galleria verde. Le casette strette del villaggio lasciarono il posto a ville larghe e basse, circondate da giardini pensili e da moli arrugginiti (quando erano vicine alla riva). L’odore, seducente, era più di vegetazione che di pesce.
Mio padre dava indicazioni imprecise, ma alla fine riuscimmo a raggiungere l’obiettivo: una casa di mattoni rotonda, con grandi finestre, avvolta dai prati. Mio padre voleva pagare con una banconota di taglio grande, ma quando il tassista restò in silenzio senza nemmeno accennare a prenderla, perse qualche minuto a racimolare monetine per arrivare alla cifra dovuta.
“Quanti anni hai?”, mi chiese mio padre, tra i denti, mentre camminavamo lungo il sentiero che conduceva a una porta di legno con decorazioni in ferro e un piccolo vaso di gerani pendenti al centro.
“Quasi dodici”.
Potrebbe sembrare strano che mio padre mi facesse una domanda simile, ma c’era un motivo: il divorzio era stato firmato quando avevo due anni, e dato che lui non pagava gli alimenti, mia madre gli aveva sempre vietato di incontrarmi. Mio padre aveva cominciato a infrangere quel divieto appena mi ero iscritto alla scuola primaria. Veniva a farmi visita durante la ricreazione, parcheggiava il suo furgone e parlavamo attraverso il cancello principale. A volte mi metteva in mano qualche moneta. Altre volte mi faceva un regalo: una penna, un quaderno. In una giornata freddissima mi portò un giubbotto che mi andava grande e che mia madre confiscò immediatamente appena varcai la porta di casa, prima di tagliarlo in due con un coltello. “Per gli alimenti questo non basta”, dichiarò mentre ne buttava i brandelli nella spazzatura.
Mio padre non sapeva quanti anni avessi di preciso nello stesso modo in cui io non avevo un’idea chiara di quale fosse il suo lavoro. Aveva fatto il distributore (i succhi di frutta e anche i vini bianchi che mia madre chiamava “funesti”), poi aveva aperto uno studio di medicina alternativa, anche se aveva studiato fisica. A un certo punto si era messo a dare lezioni di meditazione trascendentale e respirazione cinese.
Nessuna di quelle occupazioni gli aveva permesso di arricchirsi né di pagare gli alimenti (che restarono, per sempre, pendenti), ma in qualche modo si era fatto un gruppo di amici dai modi aristocratici: signore che veneravano la pachamama, coppie di mezza età con figli biondi e atletici e naturalmente una caterva di ereditieri sfaticati.
Venne ad aprirci la porta una cameriera giovane con i capelli lunghi e lucidi che ci osservò con disprezzo, come se fossimo lì per vendere noccioline.
“Mi faccia il favore di chiamare la signora”, disse mio padre con una sottomissione che mi lasciò l’amaro in bocca. “Da parte di chi?”, rispose la ragazza. “Da parte del dottor Murray”.
La cameriera contorse il labbro a significare che né il titolo pomposo né il cognome straniero l’avevano minimamente impressionata. Ci chiuse la porta in faccia. Vicky Rivadeneira, la padrona di casa, apparve poco dopo. Era una signora elegante e spaventosamente magra, con i capelli scompigliati e un profumo penetrante d’incenso. I suoi occhi erano piccoli, azzurri e brillanti come l’acqua colorata dei sanitari. “Salve, doc, sono felice che siate riusciti a venire. Dunque questo signore è lo scrittore premiato?”, disse facendomi una carezza sulla guancia.
Non mi ero mai vergognato così tanto in vita mia. Abbassai la testa e borbottai qualcosa. Mia madre usava spesso l’espressione “bere l’olio” per indicare l’atto di piegarsi a fare quello che non si voleva fare. In quel momento pensai alle sue parole e per la prima volta in quella giornata desiderai essere insieme a lei, nella cucina di casa, ad ascoltarla mentre cantava e tagliava i pomodori. O anche solo di stare lì e nascondermi da Carlos, il cugino che si prendeva cura di me il pomeriggio, e aspettare che mia madre tornasse dal lavoro.
Passammo da un corridoio buio che all’improvviso si aprì in una sala rotonda come la casa, occupata da alcune poltrone di cuoio e da una moltitudine di tavolini di legno laccato. All’epoca non ero capace di calcolare i costi, ma mi sembrava evidente che quella fosse gente ricca.
Alle pareti erano appese immagini incorniciate: dipinti a olio, manifesti protetti da vetri antiriflesso, fotografie. Non avevo mai seguito lezioni di religione (mia madre, credente, non aveva mai avuto le forze per portarmi in chiesa), ma non riuscivo a guardare due volte quelle figure. Erano tutte nude. Alcuni corpi erano estetici e tradizionali, altri erano indecisi, accennati. Altri ancora erano crudi, vertiginosi. Abbassai lo sguardo.
L’architetto della casa era riuscito a innalzare una struttura che tendeva in ogni punto verso il centro, come una plaza de Toros. Le porte, al primo e al secondo piano, fronteggiavano ringhiere di ferro affacciate sul salone principale. Ci sistemarono in una camera al piano di sopra. Né mio padre né io avevamo una valigia, così salimmo e ci limitammo a guardare il luogo dove avremmo passato il fine settimana. Di tutte le domande che avrei potuto fargli, l’unica per cui mi bastò il coraggio era la meno importante.
“Perché siamo venuti in taxi?”.
Lui stilava mentalmente la lista delle cose che avrebbe dovuto acquistare al supermercato e non mi degnò di uno sguardo.
“Vedrai che macchine che hanno questi”, rispose.
Si vergognava del suo furgone. Quando uscì a fare compere (ascoltai la sua voce chiedere all’altezzosa domestica che gli procurasse un taxi, e il conseguente sbuffo di lei) mi stesi su uno dei letti, incastrando lo sguardo tra il soffitto dipinto di bianco e le travi di legno. Non vi trovai nessuna forma che mi ricordasse qualcosa: né una barca, né una spada, né un profilo. Dal giardino salì una risata, quella di Vicky Rivadeneira. Giocava con un cane sul bordo di una piscina a forma di rene, in compagnia di un tizio con la testa pelata e bruciata dal sole. Sul pelo dell’acqua galleggiavano foglie color smeraldo. Il tizio rideva con la sicurezza di un capofamiglia. Era il marito dell’anfitriona, il padrone di tutto ciò che era visibile. Tornai nella mia stanza. Forzandomi di scacciare i pensieri, alla fine riuscii ad addormentarmi. Ripresi conoscenza mentre mio padre combatteva con i cassetti dell’armadio.
“Vestiti, accappatoio, spazzolino da denti”, mi informò prima di obbligarmi a togliermi l’uniforme scolastica e indossare una maglietta azzurra a collo tondo che mi arrivava alle ginocchia.
“Pensavo che fossi più alto”, mormorò, infastidito.
I pantaloni mi stavano talmente grandi che fui costretto a tenere quelli dell’uniforme. Mio padre indossò una camicia color avorio e scese in giardino per unirsi ai Rivadeneira. Con la scusa di dover usare il bagno, rimasi in camera e guardai dentro le buste che ancora contenevano metà del tesoro: una maglietta identica a quella che indossavo, un pettine di plastica, una boccetta di acqua di colonia e un tagliaunghie. Avevo fame, ma non volevo chiedere nulla alla domestica. Così mi dedicai a tagliare e limare le unghie dei piedi, per essere sicuro di non dovermi vergognare se fossi sceso in piscina.
Dopo un momento di silenzio, risuonò un frastuono di motori e un trambusto di voci acide, zuccherine, da uccelli. Erano gli altri invitati. Due coppie sorridenti, mezza dozzina di bambini pallidi e una donna alta che abbracciò mio padre e gli disse qualcosa che non riuscii a sentire. Immediatamente sparirono all’interno della casa, abbracciati.
La sera scorreva lentamente. I bambini, che non avevo mai visto prima, avevano tra otto e quindici anni. Anche loro non sapevano nulla di me, a parte che ero il figlio del “dottore”. Mangiammo pizza seduti a un tavolo appartato, lontani dall’attenzione degli adulti che stavano fuori ad arrostire carne e bere birra. Gli altri bambini si conoscevano da tutta la vita. Chiacchieravano, si spintonavano. Nessuno di loro mi rivolgeva la parola. In pochi minuti mi risultò chiara la gerarchia a cui obbedivano. Comandavano Sebastián e Guido, nipoti dei Rivadeneira. Il posto successivo nella catena di comando apparteneva a Quetzali, loro sorella, che aveva più o meno la mia età (forse era più piccola) e i denti grandi simili a quelli dei fratelli. Poi toccava a Guadalupe, figlia di un’altra coppia, una bambina allampanata con i capelli ricci. Le ultime ruote del carro erano Lucas, fratello di Guadalupe, e Perla, una cugina. Il padre di Guadalupe e Lucas lavorava per quello di Sebastián e Guido. I figli del sottoposto, evidentemente, erano stati educati al rispetto di quelli del padrone.
Mio padre non aveva nemmeno un’automobile decente da portare alla villa, dunque è inutile dire che io, in quella gerarchia, non contavo nulla. Almeno fino a quando Vicky venne a distribuire il rinfresco e si rese conto che in quella tavola ero invisibile per tutti.
“Parlate con Arturo. È intelligente. Ha vinto un concorso di scrittura”.
Guido alzò le sopracciglia con sospetto, ma Sebastián, il sovrano assoluto, si voltò a osservarmi. Quando sua zia finì di riempire i bicchieri di Coca-Cola, mi lasciò a portata di mano il piatto di patatine fritte.
“Hai vinto il concorso della tua scuola? Chi vincerà il premo nazionale incontrerà il presidente”, disse con tono umile.
“Sì”.
“Io ho inviato un racconto, ma non è andata bene”, mi rivelò.
Guido, suo fratello, procedette immediatamente a lamentarsi del fatto che la scuola in cui studiavano aveva voluto favorire una bambina che era figlia di un parlamentare. Sebastián gli diede una manata. Non cercava scuse, aveva perso e pazienza.
“Di cosa parla il tuo racconto?”.
Veniva a farmi visita durante la ricreazione, parcheggiava il suo furgone e parlavamo attraverso il cancello principale. A volte mi metteva in mano qualche moneta. Altre volte mi faceva un regalo: una penna, un quaderno
Bere l’olio.
“Di un cavaliere, e di un drago”.
Dal silenzio che seguì la mia dichiarazione capii che quello che avevo detto era sembrato prodigioso a tutti.
“Il mio parlava di un’astronauta. Ma non mi è andata bene”, sussurrò Sebastián, abbassando gli occhi azzurri e spostandosi una ciocca bionda dalla faccia.
Passammo il pomeriggio in giardino. I Rivadeneira pregarono inutilmente gli adulti di lasciarci andare al molo e salire sulla lancia di famiglia. La zia, con la voce di chi si rivolge a un animale domestico o a un ritardato, continuava a ripetere che “solo lo zio può guidare la barca, bimbi, però è un po’ ubriachello…”.
Giocammo a calcio con il cane, ma quando Guido tirò il pallone nel lago (lo vedemmo allontanarsi lentamente, trascinato dalle piccole onde) ci sedemmo ad ammirare la sera.
“Dobbiamo giocare al battimani”, disse Quetzali, prima che i fratelli la prendessero a schiaffi in testa perché quello era un gioco da bambine.
“Alle città”, propose Guadalupe.
Quel gioco non avrebbe mai potuto favorirmi, perché Chapala era il posto più lontano da casa in cui fossi mai stato. Loro, invece, conoscevano Disneyland, Chicago e Miami. Mi affidai a una bugia salvifica: uno dei villaggi sulla riva del lago si chiamava San Antonio, come la città texana. Quando arrivò il mio turno, pensarono che avessi visitato il Texas, non un ammasso di case dietro l’angolo. Alla fine vinsi perché nessuno poteva dire di essere mai stato a San Antonio, e a me non toccò confessare di non aver mai messo piede a Disneyland. L’unica che intuì l’imbroglio fu Guadalupe. Quando decidemmo ti tornare in terrazza, assediati dalle zanzare, mi si parò davanti.
“Parlavi del villaggio qui vicino, vero? Non ho voluto sbugiardarti”.
“Per questo scrivi? Per dire bugie?”.
Prima di andare a dormire cercai mio padre. Non lo trovai da nessuna parte, ma la mia perlustrazione non fu accurata: le porte mi mettevano timore, non osai aprirle. Alla fine, prima di andare a letto, lo vidi lontano, attraverso la finestra. Passeggiava insieme alla donna alta. Teneva le mani incrociate dietro la schiena
La serata migliorava.
Mangiammo pizza riscaldata e lanciammo pietre nel lago, che sparivano nell’oscurità prima di spaccare la superficie dell’acqua. Sentivamo solo il tonfo. Nell’aria circolava un odore di cloro, di erba appena tagliata. In cielo non c’era nemmeno una stella.
Prima di andare a dormire cercai mio padre. Non lo trovai da nessuna parte, ma la mia perlustrazione non fu accurata: le porte mi mettevano timore, non osai aprirle. Alla fine, prima di andare a letto, lo vidi lontano, attraverso la finestra. Passeggiava insieme alla donna alta. Teneva le mani incrociate dietro la schiena e ascoltava parole che dovevano essere drammatiche, almeno a giudicare dai gesti della donna e dai movimenti spasmodici della sua testa. Non so quando tornò in camera, sempre che ci sia tornato.
La mattina di sabato fu nuvolosa e la dedicammo a reiterare la richiesta del permesso di raggiungere il molo (“Il tuo zietto dorme ancora, bimbo mio”) e a giocare a pallone. Quando la stanchezza accumulata fu sufficiente, provammo a eseguire trucchi con le carte (fallimentari) e improvvisammo una partita di domino, che non riuscì perché mancavano diverse tessere.
Il padre di Sebastián ci portò un piatto di patatine fritte e una batteria di bibite in lattina. Era un tipo interessante, con la barba di due giorni e gli occhi piccoli e azzurri come perline di vetro, identici a quelli della signora Vicky, sua sorella. Prima di andare via carezzò la guancia di Guadalupe, che si ritrasse come un gatto.
Raccontammo a turno storie di morti, di apparizioni e di fiumi di sangue, riuniti in cerchio all’estremità più lontana del giardino, accanto ai rampicanti, soffocati dall’odore di muffa e terra battuta. Il signor Rivadeneira si riprese solo quando divorò due piatti di zuppa di manzo e tracannò un buon numero di birre. A quel punto era pieno di vitalità e accettò di farci fare il giro in lancia che ci era sfuggito il giorno prima. Mi sembrò che anche mio padre fosse molto ubriaco. Fu uno dei primi a mettersi in movimento, insieme alla donna alta e alla truppa infantile.
Fuggii come potevo, nascondendomi tra le piante e le colonne di mattoni e poi affrettandomi a salire in camera, le scale due alla volta, e stendermi sulle coperte. Tende tirate, oscurità totale.
Mi faceva male il palato. La rabbia lo faceva pulsare. Mio padre mi aveva portato al lago, ma poi mi aveva completamente ignorato, come se avesse sguinzagliato il cane al parco. Nessuno era venuto a cercarmi.
Dopo circa mezz’ora scesi giù, perché avevo la bocca secca e avevo bisogno di bere.
Non ero l’unico ad aver scelto di boicottare la gita in barca.
Guadalupe piangeva, piegata sulle ginocchia del padre di Sebastián. Anche se i miei piedi non facevano alcun rumore sugli scalini di legno, quell’uomo si accorse della mia presenza mentre cercavo di tornare sui miei passi. I pantaloni di Guadalupe erano abbassati alle caviglie. Pensavo solo a fuggire.
“Vieni qui, giovanotto”.
Non so perché obbedii a quell’ordine ridicolo, dettato con una voce ubriaca e troppo acuta per venire da un adulto. Non so perché restai in piedi a un metro da loro, incapace di scappare quando il tizio si avvicinò, con il pene all’aria, come un salame appeso.
“Vieni qui, non mordiamo”.
Ci fece spogliare e si sfilò la cinta dai pantaloni. Ricevemmo le cinghiate soffocando le grida. Ci guardavamo negli occhi, io e la bambina, per non doverci concentrare sui nostri corpi.
“Vi rimprovereranno se vi trovano così”.
Ci costrinse a sederci sul divano, la cui pelle scricchiolò sotto la pressione della nostra. Guadalupe tremava. Ci guardavamo in faccia ostinatamente, come se ci fossimo promessi di farlo. Il tizio ansimava, sembrava una caffettiera. Con frasi corte e perentorie pretese che ci toccassimo. Poi ricominciò con le cinghiate, che ci segnarono le gambe e sicuramente lacerarono la spalla di Guadalupe, perché gridò. Quando ci ordinò di girarci, chiudemmo gli occhi e ci prendemmo per mano. Il sangue non aveva il sapore dell’olio, ma del metallo (ne ero sicuro perché a volte succhiavo le monete che mi sembravano più luccicanti).
Aprii gli occhi. Il cielo era nuovamente pieno di nuvole. Un vento furioso colpiva i bicchieri e gli alberi e faceva sbattere le finestre contro le inferriate. Vidi un volto dietro la zanzariera. Una faccia umana. Mio padre, con una smorfia idiota da ubriaco che ci guardava attraverso il vetro.
Confuso, o forse terrorizzato.
Fui costretto a smettere di guardarlo perché un’altra cinghiata colpì la coscia di Guadalupe, e la sua resistenza crollò. Cominciò piangere con gli occhi serrati come pugni. Quando il chiasso delle voci annunciò il ritorno del resto della compagnia, il tizio ci gettò i vestiti in faccia. Rivestito e sorridente, si riallacciò la cintura. Guadalupe, con una macchia rossa sulla coscia, fu più veloce di me a scappare, abbracciando i suoi vestiti e piangendo senza potersi fermare. Io faticavo a camminare, ma in qualche modo riuscii a salire al piano di sopra senza che nessuno mi vedesse.
Mi lasciai cadere sul letto.
La testa vuota.
Passarono diverse ore prima che mio padre venisse a cercarmi. Provai a dimenticare la sua espressione alla finestra. Da trent’anni sono sicuro che abbia visto tutto e da trent’anni mi chiedo perché non abbia detto nulla.
“Un giorno racconta questo. In un libro”. Mi prese la mano e quando ci guardammo fui in grado di ricordare, a pezzi, il suo corpo e il suo respiro. Con la testa mi indicò il salone principale. “Devono leggerlo. Devono strappare le pagine e mangiarsele”
Lo ritrovai solo quando scesi al piano di sotto e fuori era già buio. Mi ero lavato e cambiato. Gli adulti bevevano, mentre i bambini si erano radunati attorno a un tavolo, perché la signora Vicky si era ricordata dove fossero le tessere mancanti del domino. Guadalupe aveva la bocca sottile come il filo di una carta da gioco. Non riuscii a guardarla per più di un secondo. Lei non si girò verso di me.
Gli invasori arrivarono prima che fosse servita la cena. La cameriera arrogante provò a fermarli, ma mia madre le fece girare la faccia con un manrovescio e si aprì un varco con la forza di un esercito. Quando apparve nella sala, tutti si alzarono in piedi. Ricordo le grida accavallate, le maledizioni, le minacce dell’avvocato, l’indignazione iniziale e poi l’agitazione dei Rivadeneira. E il silenzio di mio padre, colpito, umiliato e schiaffeggiato senza fiatare, preso per mano dalla donna alta che sbatteva le palpebre con l’aria stupida e devota.
“Sequestratore!”, gridò l’avvocato.
“Figlio di puttana!”, aggiunse mia madre.
“Dica qualcosa, dottore”, implorò l’anfitriona.
“Dottore? Un dottore questa merda? Si è a malapena iscritto”, ruggì mia madre. Poi, girandosi per la prima volta verso di me, ordinò: “E questi vestiti? Prendi la tua roba”.
Il piano di mio padre, apparentemente perfetto, era naufragato nel lago. Non sapendo a che ora sarei uscito da scuola, aveva chiesto a mio cugino Carlos, ma imprudente com’era gli aveva anche rivelato i dettagli del suo programma. All’inizio Carlos non aveva detto nulla, ma dopo qualche ora non era più riuscito a sopportare lo spettacolo della disperazione di mia madre, e aveva confessato.
Guadalupe mi intercettò davanti alla porta della mia camera, mentre stavo per scendere, con lo zaino in spalla e il resto dei miei averi ammassato in una busta di plastica del supermercato.
“Tu scrivi”, disse con lentezza, inciampando sulle parole, come se non riuscisse più a manovrare la lingua.
Non fui in grado di rispondere.
“Un giorno racconta questo. In un libro”.
Mi prese la mano e quando ci guardammo fui in grado di ricordare, a pezzi, il suo corpo e il suo respiro. Con la testa mi indicò il salone principale.
“Devono leggerlo. Devono strappare le pagine e mangiarsele”.
Sancimmo, in silenzio, la promessa.
Scesi al piano di sotto e non la vidi mai più.
L’avvocato aveva un furgone bianco. A un certo punto, sulla via del ritorno, vedendo un negozio sulla strada si fermò a comprare le sigarette. Mia madre mi chiese se avevo fame o sete. Risposi di no. Quando insistette, chiesi un dolce.
La luce di un fuoco circondato di insetti mi formò un piccolo cerchio sulla faccia. Una luce molesta. La mia bocca sapeva di olio. ◆
Antonio Ortuño è uno scrittore nato a Guadalajara nel 1976. Questo racconto è tratto dal libro La vaga ambición (Editorial Páginas de Espuma 2017), che ha vinto il premio Ribera del Duero, assegnato alla narrativa breve in spagnolo. La traduzione è di Andrea Sparacino.
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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati