Quando la Russia ha invaso
l’Ucraina, a febbraio, i social network si sono riempiti di denunce contro il presidente russo Vladimir Putin e di suggerimenti su come aiutare l’Ucraina. Questo ha creato in me un certo imbarazzo. All’improvviso il cinema ucraino era diventato rilevante, e con questa novità era tornata una familiare sensazione di perplessità: che utilità poteva avere nell’ottusa realtà della guerra? Cosa potevamo ottenere avvicinandoci all’arte e ai film ucraini oltre al molle obiettivo di generare consapevolezza?

Stavo andando al festival True/False di Columbia, in Missouri, dove ci sarebbe stata la prima statunitense di Mr. Land­s­bergis, documentario epico di quattro ore del regista ucraino Serhij Loznytsja sul movimento indipendentista lituano. Fatta eccezione per gli appassionati di cinema d’autore e forse qualche esperto di Europa orientale, i film di Loznytsja non sono molto popolari, nonostante sia un regista prolifico, premiato e acclamato in tutto il mondo, e forse il più importante cronista della storia post-sovietica.

Un portavoce un po’ cinico

Nei mesi successivi due film di Loznytsja, l’opera di finzione Donbas e il documentario Babi Yar. Context sono stati proiettati per il grande pubblico negli Stati Uniti, e sono state pubblicate decine d’interviste del regista.

Davanti a questi sviluppi, la mia iniziale reazione istintiva ha cominciato a sembrarmi fuori luogo. Guardare un film di Loznytsja è tutt’altro che un’attività passiva. Pensiamo ai suoi documentari: sono spesso assemblati con materiale d’archivio, evitando quasi sempre il ricorso a strumenti narrativi banali come la voce narrante, le interviste e gli intertitoli. Invece di fornire informazioni sul contesto, Loznytsja si affida a immagini potenti selezionate e montate con grande cura. Per questo motivo, guardando i suoi film si ha spesso la sensazione di essere gettati nelle profondità della storia senza un giubbotto di salvataggio.

I suoi lavori sono esempi diretti dell’intrico indissolubile tra la politica e il processo di produzione di un film. In Babi Yar. Context, Loznytsja usa immagini della seconda guerra mondiale (in gran parte strumenti della propaganda nazista e sovietica) per rivelare la violenza che ha ciclicamente colpito Kiev dopo il massacro di quasi 34mila ebrei commesso nel 1941 dai nazisti e dai loro alleati ucraini.

Ma lo sguardo di Loznytsja è profondamente cinico. Lo si può apprezzare nei suoi lavori narrativi come Donbas, una crudele satira sulla corruzione e la propaganda nelle regioni separatiste di Donetsk e Luhansk. Nel film, Loznytsja alterna la farsa all’orrore, tessendo insieme aneddoti locali: un russo che fa sfilare il personale sanitario in un ufficio per svelare il presunto furto di scorte commesso da un medico (le prove sono chiaramente false); un soldato ucraino preso in ostaggio e poi coperto di bitume bollente e piume da alcuni civili sadici; la morte di un gruppo di attori di propaganda filorussa, il cui omicidio viene attribuito ai nazionalisti ucraini. Tuttavia l’umorismo nero, la crudeltà e il caos finiscono col dare la sensazione di una resa a un nichilismo assoluto.

Reflection di Valentyn Vasjanovyč (Film Movement)

La portata dei film di Loznytsja lo rende un portavoce straordinario del cinema ucraino, ma ci si può chiedere se il suo stile freddo e impersonale – concentrato sulle strutture di potere e sulle complesse ramificazioni degli eventi – non possa anche promuovere una sorta di distanza.

Com’è la vita in Ucraina? Come fanno le persone comuni ad andare avanti? Cosa significa vivere nel mirino dell’imperialismo russo e del nazionalismo ucraino? Una serie di film recenti girati da registi ucraini e partoriti all’interno del conflitto cerca di articolarne le tensioni, in alcuni casi conversando in modo particolarmente diretto con le brutalità della guerra. Butterfly vision di Maksym Nakonechnyi, che sarà presentato a Cannes nei prossimi giorni, segue un’esperta di ricognizioni ucraina che non riesce ad adattarsi alla vita normale dopo essere stata stuprata e detenuta come prigioniera di guerra. La raccolta Bad roads. Le strade del Donbas, discutibilmente tetra, collega in modo vago quattro storie che si svolgono nel Donbass, esplorando il rapporto carico di tensione tra donne vulnerabili e soldati di stanza nella regione.

Nell’austero dramma Reflection di Valentyn Vasjanovyč, un chirurgo ucraino, Serhij, è catturato dai soldati russi e costretto a sbarazzarsi dei corpi dei soldati ucraini morti durante le torture. La spaventosa prima parte – ambientata in una prigione segreta dove è presente anche un “inceneritore portatile” – è uno stillicidio. In sostanza lo spettatore sta a guardare mentre il trauma penetra nelle ossa del protagonista.

Resistenza quotidiana

L’arte ci regala l’occasione di confrontarci con verità scomode, e gli esempi più cupi sono ritenuti anche i più significativi, i più efficaci, informativi e meritevoli del nostro tempo. Ma l’esperienza di vivere la guerra è anche altro. Comprensibilmente siamo coinvolti più da questi estremi, ma è necessario un altro genere di sensibilità che possa comunicare anche la portata e la peculiarità della resilienza quotidiana. Due film emergono tra gli altri. Entrambi non sono interessati alle dichiarazioni monumentali sulla storia, la violenza e il terrore, anche se queste realtà incombono continuamente.

Il primo è il tenero racconto d’amore adolescenziale Stop-Zemlia, di Kateryna Gornostai, ambientato a Kiev nel 2019. È un film sinuoso, così come i tre protagonisti (due ragazze e un ragazzo) che si definiscono “strambi”, lottano con la propria sessualità, si struggono per amori distanti, dormono insieme e scrivono messaggi ad ammiratori anonimi.

Masha, Senia e Yana sono interpretati da dilettanti a cui Gornostai ha lasciato ampio margine d’improvvisazione. Delle interviste fanno procedere la trama e stabiliscono un collegamento tra gli attori – veri adolescenti ucraini – e i loro personaggi. Anche se prevediamo come sarà il loro prossimo futuro, grazie alla ricca indagine sulle loro vite interiori riusciamo a non immaginarli solo come vittime.

Nel documentario meta-testuale di Iryna Tsilyk, The Earth is blue as an orange, la guerra è fuori dalla finestra. Tsilyk segue una madre single e i suoi figli che vivono in un appartamento nella tumultuosa regione del Donbass. I bombardamenti costanti in lontananza creano un surreale sfondo sonoro, anche se i protagonisti sono stranamente indifferenti. Certo, ci sono momenti di lutto e terrore, ma sono bilanciati da piaceri e trionfi: la notizia di una borsa di studio per la figlia più grande o un giocoso compleanno, mentre i bambini più piccoli scorrazzano costantemente nella stanza. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 87. Compra questo numero | Abbonati