È strano ammetterlo, ma mi manca la quiete delle prime, spiazzanti e terrificanti settimane della pandemia, quando il rumore e il trambusto del mio mondo si erano improvvisamente placati. A marzo e aprile del 2020 la primavera sembrava quasi più generosa e colorata, più selvaggia e rigogliosa. Nel mio quartiere di Portland, nell’Oregon, il cinguettio degli uccelli aveva preso il posto del rombo delle automobili. Niente lunghe traversate nel traffico per andare al lavoro; basta con i massacranti rituali settimanali degli ultimi diciassette anni, passati a insegnare in una grande scuola superiore pubblica. La mia casa e la mia famiglia erano diventate il punto focale delle mie giornate. Mentre affrontavamo insieme il primo anno della pandemia, il nostro minuscolo universo si contraeva. Eravamo un’isola di tre persone.

A settembre del 2021, tornando alla didattica in presenza per quello che nelle speranze di tanti doveva essere un “anno scolastico normale”, mi sono accorta che qualcosa dentro di me era cambiato. Ero sollevata di tornare a scuola insieme ai miei colleghi e felicissima di vedere i miei studenti di persona anziché su Zoom, ma mi sentivo travolta e schiacciata da una specie di tempesta sensoriale.

Davide Bonazzi

Essere a scuola era allo stesso tempo familiare e stranamente spaventoso. L’edificio sembrava ruggire nel rimbombo delle voci che rimbalzavano su ogni superficie. Dappertutto c’erano corpi pericolosamente vicini. Il distanziamento sociale semplicemente non esisteva. Navigavamo a vista nei corridoi, insolitamente goffi e instabili, in guardia contro la potenziale minaccia del virus. Il semplice fatto di condividere gli spazi faceva paura. Ogni giorno me ne tornavo a casa sfinita da un fiume di parole e di interazioni ravvicinate con colleghi e alunni.

La fatica emotiva a ritornare tra altri 1.800 altri esseri umani nel pieno di una pandemia, però, è stata solo l’avvisaglia di una serie di ostacoli che oggi sembrano insormontabili. Due anni di lezioni fatte nella pandemia, sia a distanza sia in presenza, hanno lasciato il segno su tutti noi: studenti, genitori e insegnanti.

Poi negli ultimi mesi la variante omicron ha portato a un sacco di contagi e ha scatenato il caos. C’è una drammatica carenza di personale, dai supplenti agli insegnanti di sostegno, dagli infermieri agli addetti alla mensa fino agli autisti. A tutto questo si aggiungono la piaga sempre più diffusa dei disturbi mentali e le tensioni politiche, che hanno messo in ginocchio una scuola già in grandi difficoltà e lasciato senza energie chi deve mandarla avanti, me compresa. Mentre in pubblico si discute su chi sia responsabile delle chiusure degli edifici scolastici, a scuola i genitori più conservatori tormentano bibliotecari e insegnanti per vietare alcuni libri togliendoli dalle biblioteche e dalle classi, e litigano sulla critical race theory, la teoria critica della razza, che secondo qualcuno sarebbe insegnata nelle nostre scuole (e non è così). Gli educatori come me hanno pensato semplicemente a rassicurare e dare supporto agli studenti in un momento di difficoltà e incertezza senza pre­cedenti.

Secondo un recente studio della Oregon education association, il 37 per cento degli educatori di Beaverton, il distretto in cui insegno, stanno pensando di lasciare la professione alla fine dell’anno scolastico. Purtroppo la cosa non mi sorprende. A Portland, qui vicino, la cifra sale a un allarmante 49 per cento. Questi numeri rappresentano la fatica di una forza lavoro a cui è stata prosciugata ogni energia e risorsa, e di un sistema che non riesce più a trattenere le persone a cui chiede di tenere aperti i cancelli delle scuole.

Alle lezioni su Zoom mancano le risate e l’energia che riempiono un’aula, non potranno mai prendere quello spazio. Almeno, però, ci hanno fatto intravedere la possibilità di gestire l’apprendimento in modo diverso, partendo da un’esperienza di apprendimento che risponda ai bisogni formativi, sociali ed emotivi di tutti gli studenti.

Quello della didattica a distanza è stato un modello con molti difetti, messo in piedi da un giorno all’altro e in modo caotico, quando non tutti gli studenti avevano a disposizione una connessione internet adeguata o anche solo un computer. Nato per rispondere a circostanze inedite e tragiche, ha favorito i privilegiati e i più disciplinati, sottoponendo a uno stress incredibile moltissimi studenti e famiglie. Eppure ci ha mostrato la via per un cambiamento che potrebbe partire da una serie di riforme ormai non più in un sistema legato a modalità antiquate, inique e insostenibili.

Due anni di lezioni fatte nella pandemia, sia a distanza sia in presenza, hanno lasciato il segno su tutti noi: studenti, genitori e insegnanti

Il nostro orario online era più flessibile, con pause più lunghe distribuite durante la giornata. Il mercoledì avevamo un’intera giornata da dedicare agli incontri individuali con gli studenti, ai colloqui con i genitori e alla collaborazione con i colleghi. E avendo rifatto i programmi da zero, con molte meno imposizioni dai distretti e dallo stato, siamo riusciti a concentrarci su contenuti più significativi. Ecco l’amara ironia: la scarsa frequenza alle lezioni online ci ha fatto scoprire i vantaggi di avere classi più piccole e tempo a tu per tu con gli studenti.

Dato che eravamo stati capaci di mettere in piedi un sistema completamente nuovo in poche settimane, speravamo che, una volta tornati a scuola, saremmo riusciti a intervenire anche lì. Invece in questo anno scolastico la paura della perdita di apprendimento che aveva segnato l’anno precedente e gli inviti a un “ritorno alla normalità” ci hanno riportati ai soliti, consunti modelli, cancellando completamente l’esperienza fatta. La campanella ha ripreso a suonare alle 7.45 e ha scandito le lezioni di un’ora e mezza, una a ridosso dell’altra. Erano tornate le aule affollate, i ritmi frenetici e inesorabili, il solito programma standardizzato e le solite verifiche, i criteri di valutazione tradizionali, gli obsoleti requisiti per conseguire il diploma: la monotonia generale della routine in una scuola secondaria.

Gli unici veri cambiamenti sono stati i protocolli anti-covid: l’obbligo di mascherine dappertutto, il distanziamento di un metro in spazi con trenta-quaranta studenti e l’inflessibile disposizione dei posti a sedere per favorire il tracciamento. Perfino le esercitazioni sulle misure da attuare in caso di un attacco armato sono state annullate, perché non si possono costringere decine di studenti a rannicchiarsi sotto i tavoli nel mezzo di una pandemia.

Sono sinceramente grata per il rafforzamento della sicurezza, ma le nuove misure non hanno fatto che accentuare gli aspetti carcerari della scuola. Per i corridoi giravano guardie di sicurezza e l’ingresso era vietato agli estranei, anche a volontari e genitori. C’erano regole severissime su dove potevamo riunirci, su chi poteva uscire dalla classe e quando, su chi poteva mangiare e quando, su come dovevamo entrare e andarcene. Tutto questo ci ha tolto completamente la gioia di essere tornati finalmente insieme.

Dopo che la scarica di adrenalina e l’effetto novità di ritrovarci di persona si sono esauriti, gli studenti hanno cominciato a cedere. Ogni giorno c’era almeno una rissa. Gli alunni che giravano per i corridoi, saltavano le lezioni o non si presentavano a scuola erano sempre di più. Tra quelli che continuavano a frequentare le lezioni, comportamenti che un tempo erano tenuti sotto controllo grazie a programmi coinvolgenti e a un’atmosfera positiva si sono ingigantiti. Incapaci di regolare le proprie emozioni, alcuni gridavano o scoppiavano a piangere; altri diventavano strafottenti. Nei soggetti depressi e ansiosi, le reazioni andavano dall’agitazione alla chiusura totale. Chi cercava una via di fuga poteva trovarla nell’apatia. E se durante la lezione c’era una pausa, si rinchiudevano quasi tutti nel mondo dei loro telefoni, facendo piombare la stanza nel silenzio e guardando furiosamente sugli schermi, con i volti mascherati illuminati di azzurro.

Anche se condividono l’esperienza di una pandemia mondiale, molti stanno elaborando individualmente la paura, l’incertezza, l’isolamento sociale e il caos politico e culturale. Alcuni miei studenti e colleghi (come, immagino, alcuni dei vostri amici) hanno reagito abbastanza bene. Chissà se è una questione di fortuna o privilegio, pelo sullo stomaco, resilienza o semplicemente negazione della realtà. Molti altri sono in grande difficoltà. E tanto per essere chiari: se un adolescente o un adulto è esausto, traumatizzato e demoralizzato, difficilmente potrà essere uno studente o un insegnante attento, impegnato e attivo.

Davide Bonazzi

La nostra scuola, nel tentativo ammirevole di supportare le ragazze e i ragazzi con i problemi psicologici più gravi, ha creato una “stanza del benessere” dove quando si sentono travolti dall’ansia possono andare a sedersi per mezz’ora e riprendersi. Il problema, però, è che lo psicologo e l’assistente sociale della scuola (sono solo due persone) non possono fisicamente assistere tutti gli studenti che hanno bisogno di sostegno psicologico immediato. Questi servizi non sono mai stati disponibili nelle scuole pubbliche, neanche nei momenti migliori. Non è un caso, quindi, che gli operatori della salute mentale in Oregon abbiano lanciato l’allarme sul collasso dei sistemi di assistenza.

Ma, come dicevo, la carenza di risorse riguarda tutto il personale della scuola. Dall’inizio dell’anno, insegnanti e amministratori sono stati costretti a coprire altre classi, sottraendo spazio alla preparazione delle lezioni e rimandando tutte le attività che prima svolgevano durante l’orario scolastico. L’arrivo della variante omicron non ha fatto che peggiorare la situazione.

La mia domanda è: come si fa a mandare avanti una scuola senza personale? Alcuni distretti scolastici del Kansas, per esempio, stanno rispondendo alla carenza d’insegnanti abbassando i requisiti di età e istruzione per i supplenti e offrendo lavoro a chiunque abbia un diploma delle scuole superiori. In sostanza, la pandemia continua a ridurre la nostra presenza a quella di un semplice corpo adulto, un pensiero mortificante per tutti quegli insegnanti scrupolosi che sono anche professionisti qualificati.

Questo peso ricade tutto sulle nostre spalle, già provate dalle difficoltà di sopravvivere alla pandemia. Stiamo andando oltre le nostre competenze professionali. Vorrei aiutare i miei studenti in ogni modo possibile, ma non sono un’operatrice sanitaria né un’assistente sociale. E onestamente, trovo strano che le scuole – e, più nello specifico, le insegnanti – siano ritenute responsabili di garantire i servizi che una società più umana dovrebbe considerare prioritari e mettere a disposizione dei suoi figli. Vorrei usare le competenze che ho sviluppato e affinato negli ultimi vent’anni per fare quello che so fare meglio, cioè insegnare.

Le persone a volte fanno la faccia disgustata quando dico che insegno alle superiori. Tutti noi abbiamo storie legate a quegli anni che ci sono rimaste impresse. Spesso l’adolescenza lascia ferite profonde e la scuola può contribuire a peggiorarle. Ma un’aula delle superiori può anche essere un luogo dove grazie all’insegnante giusto, ai compagni giusti o a una particolare materia scopriamo qualcosa di speciale su noi stessi. Ecco perché amo lavorare con gli adolescenti.

In generale, gli adolescenti non sono diventati insensibili alla magia del mondo, e sono sorprendentemente aperti all’apprendimento e al cambiamento. Spesso sono capaci di sentimenti profondi. Nelle giornate in cui mi sento sopraffatta dal senso di disperazione, la loro sincerità è come un balsamo. Sotto molti aspetti, prima della pandemia questo rapporto d’interscambio era una parte del lavoro che davo per scontata. Per me era un arricchimento semplicemente stare a contatto con la loro speranza, la loro passione e la loro apertura verso il mondo, così come per loro erano un arricchimento la mia curiosità e il mio amore per la scoperta.

Ecco perché sono addolorata per quello che abbiamo perso negli ultimi due anni lontani dalle aule. Mi manca vedere le loro facce. Mi manca guardarli flirtare e costruire nuove amicizie. Mi manca cogliere le loro espressioni improvvise di gioia incontenibile. Mi sento male per i miei studenti, costretti a passare dalle sette alle otto ore al giorno, cinque giorni a settimana, in un contesto così ansiogeno. Continuo a osservare gli effetti che lo stress cronico del cambiamento climatico (il caldo e le inondazioni nel nord­ovest degli Stati Uniti sono stati terribili), le tensioni politiche e una pandemia che non sembra finire mai stanno avendo sull’ottimismo degli studenti. Sembra che stiamo spingendo gli adolescenti a diventare più vulnerabili incoraggiandoli a investire in un futuro che per loro (e per noi) è sempre più difficile da immaginare. Quest’anno, molti ragazzi e ragazze hanno mostrato di non essere disposti a farlo, o di non essere in grado.

Sono profondamente solidale con i genitori che si sentono traditi dalla scuola. Desiderare che un figlio sia in buone mani, che sia al sicuro e che riceva un’istruzione di qualità non è chiedere molto. Purtroppo, se pensiamo che le scuole pubbliche (piene di problemi già da molto prima che arrivasse la pandemia) siano una panacea, non possiamo che restare delusi. Quale istituto, da solo, sarebbe in grado di risolvere la complessa rete di problemi che affligge la nostra società?

Quanto a noi che lavoriamo all’interno di questo sistema, con tutte le buone intenzioni, l’impegno e la compassione, non possiamo affrontare individualmente, e men che mai risolvere, questi problemi. Ogni gesto di gentilezza, di cura o anche d’impegno reale rischia di perdersi in un contesto generale di fallimento. Onestamente però, quale sistema oggi non ci sta tradendo, a partire dalla politica?

Per diciotto anni ho pensato di potercela fare da sola, chiudendo la porta della mia classe e cercando di creare una piccola utopia dove gli studenti potessero sentirsi liberi di essere creativi e di correre rischi. La maggior parte delle volte mi è sembrato di raggiungere lo scopo. Poi è arrivata la pandemia, e i problemi sono diventati talmente grandi e complessi che ho dovuto ammettere che non sarei mai riuscita ad affrontarli da sola.

Nessuno di noi, come individuo, è attrezzato per aggiustare quello che oggi si è rotto. Non abbiamo né le energie né le risorse. Perciò ascoltatemi quando dico che gli insegnanti vi stanno lanciando un sos. Per favore aiutateci. Non possiamo farcela da soli. ◆ fas

Belle Chesler

insegna arti visive a Beaverton, in Oregon, e scrive regolarmente per TomDispatch, da dove è tratto questo articolo, pubblicato con il titolo Crisis in the schools.

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Questo articolo è uscito sul numero 1452 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati