Eccola l’invincibile armata del Qatar. Otto stadi di calcio dall’aspetto monumentale, che tra un anno saranno su tutti gli schermi del pianeta. Queste arene ultramoderne, progettate da grandi nomi dell’architettura, accoglieranno le partite del campionato mondiale di calcio maschile del 2022 (dal 21 novembre al 18 dicembre), il primo in un paese arabo. E, a undici mesi dall’avvio della competizione, quest’armata è quasi pronta a far risplendere il minuscolo ma opulento emirato del Golfo nel mondo intero.

Lo stadio Al Bayt, un gigante da 60mila posti a forma di tenda beduina, dove si disputerà l’incontro di apertura, è stato inaugurato il 30 novembre. Lo stadio Lusail, un colosso da 80mila posti a sedere, scelto per ospitare la finale, aprirà le porte nelle prossime settimane. Nella forma ricorda la ciotola di rame piena di datteri che si porge agli invitati, un simbolo dell’ospitalità araba.

Le città e gli stadi della Coppa del mondo

Gli altri sei sono finiti e la maggior parte è già operativa. Lo stesso vale per il nuovo aeroporto del Qatar, per la metropolitana di Doha, per la nuova città di Lusail e per il quartiere di Msheireb: quattro megacantieri, indispensabili per ospitare la Coppa del mondo. Questa frenesia di costruire, spalmata su dieci anni, è costata all’emirato 200 miliardi di dollari (circa 177 miliardi di euro), 6 dei quali per gli stadi. “Con le infrastrutture saremo pronti all’inizio del 2022”, dichiara con soddisfazione Hassan al Thawadi, direttore del Supreme commitee for delivery and legacy (Comitato supremo per la consegna e il patrimonio), responsabile dell’organizzazione dell’evento.

Questo avvocato dallo sguardo vivace e la stretta di mano energica ricopre probabilmente la carica più in vista dell’emirato. L’appuntamento del 2022 può essere l’apoteosi della strategia di soft power che Doha porta avanti da vent’anni, per imporre il marchio del Qatar sulla scena internazionale. Ma la consacrazione del minuscolo paese, con le casse strapiene di gasdollari, potrebbe lasciare un gusto amaro.

Dopo essersi aggiudicata l’organizzazione del mondiale nel 2010, la penisola è finita sotto i riflettori. Sono seguiti undici anni di contestazioni, per le modalità in cui il torneo è stato assegnato e per le condizioni dei migranti impiegati nella costruzione delle infrastrutture. In un rapporto pubblicato il 16 novembre, Amnesty international ha ancora una volta denunciato “lo sfruttamento su vasta scala” di questa manodopera e la scarsa trasparenza sul numero dei morti nei cantieri dei mondiali.

Lusso o capriccio

Con i suoi otto stadi consegnati quasi un anno prima del previsto, il Qatar dovrebbe risparmiarsi almeno una polemica: quella sui ritardi della costruzione, un grande classico della Coppa del mondo. Il complesso di Lusail, che svetta fino a 75 metri di altezza, dovrebbe sbalordire il pubblico con le sue linee raffinate che ricordano un disco volante. Dalla jacuzzi negli spogliatoi alle numerose sale di preghiera per i tifosi musulmani fino alla marea di aree vip, tutti gli stadi offrono un livello di comodità extralarge.

L’estremo lusso – o capriccio, a seconda dei punti di vista – sarà la climatizzazione all’aperto. Dato che la Coppa del mondo tradizionalmente si svolge in estate, periodo in cui le temperature nel Golfo superano i 40 gradi centigradi, candidandosi il Qatar prevedeva un sistema di raffreddamento degli stadi. In seguito, anche se la competizione è stata posticipata a novembre e dicembre, quando il termometro si ferma tra i 25 e i 30 gradi, l’idea è rimasta. Grazie all’aria fresca pompata da una miriade di bocche di aerazione, giocatori e pubblico si muoveranno in un’atmosfera che oscillerà tra i 21 e i 24 gradi.

Gli organizzatori giustificano questa innovazione con la sostenibilità nel tempo. Una volta terminato il torneo una parte degli spalti sarà smontata e donata ai paesi poveri. Gli stadi, a quel punto di dimensioni più modeste, saranno riconvertiti in campi sportivi di quartiere, in sale per matrimoni, luoghi d’incontro per bambini o altro. Strutture destinate a funzionare tutto l’anno, anche durante la fornace estiva: da qui il bisogno dell’aria condizionata.

Lo stadio Al Bayt ad Al Khor, il 30 novembre 2021 (Matthew Ashton, AMA/Getty Images)

“Non vogliamo cattedrali nel deserto, stadi giganteschi lasciati all’abbandono dopo il mondiale”, dichiara Saoud Ghani, l’ingegnere sudanese-britannico ideatore di questo sistema che, garantisce, “sprecherà meno energia di un aeroporto”. Ma perché metterlo in funzione alla fine dell’autunno, quando il clima torna sopportabile? In tempi di crescente preoccupazione per l’ambiente, la decisione farà storcere il naso a qualcuno, anche perché il Qatar è già il campione mondiale di emissioni di CO2 per abitante. Insomma, c’è motivo di dubitare del “mondiale dal bilancio climaticamente neutro”, come recita lo slogan sbandierato dai comunicatori di Doha.

Formule vaghe

Ma è comunque una preoccupazione minore rispetto a quella per la sorte degli operai. L’unica statistica disponibile sul numero dei morti sul lavoro è del Comitato supremo. L’organizzazione del mondiale ha registrato 39 morti tra gli operai che hanno sgobbato nei cantieri degli stadi dalla metà del decennio scorso: tre sarebbero conseguenza diretta dell’attività svolta. Sventolata da Hassan al Thawadi come la dimostrazione delle precauzioni prese, questa cifra in realtà non dà molte informazioni.

La bassa manovalanza assunta per gli stadi, stimata sulle 28mila persone nel 2020, costituisce solo l’1 o il 2 per cento dei migranti in Qatar: secondo i dati in totale sarebbero più di due milioni, su una popolazione di 2,5 milioni di persone. Una parte importante di questi lavoratori di origine asiatica e africana – operai edili, addetti alla sicurezza o autisti di camion – è arrivata nel paese all’approssimarsi del mondiale. Il “costo umano” del torneo dev’essere misurato su questo parametro.

Numerosi esperti pensano che queste morti improvvise, classificate come “naturali”, siano il risultato di un colpo di calore

Le autorità del Qatar registrano il numero di morti tra la popolazione immigrata: 15.021 tra il 2010 e il 2019. Ma neppure questo dato aiuta a chiarire, perché ingloba persone di ogni età e di ogni professione decedute tanto per un incidente sul lavoro o per condizioni di lavoro usuranti, quanto per un incidente d’auto o per una malattia.

In un’inchiesta pubblicata a febbraio, il quotidiano britannico The Guardian contava 6.500 morti in dieci anni tra i lavoratori arrivati da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka, senza indicare precisamente quante morti erano legate al mondiale. Le autorità del Qatar hanno risposto che la cifra è proporzionale alla dimensione di queste comunità e all’arco di tempo considerato. La sede di Doha dell’Organizzazione internazionale del lavoro tende a condividere questa posizione.

Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani sono più caute. La loro diffidenza deriva dal fatto che molte di queste morti sono state catalogate dalle autorità come naturali, dovute a una “insufficienza cardiaca” o una “insufficienza respiratoria”. Formule vaghe, che lasciano supporre che non ci sia stata un’indagine post mortem, e che sollevano interrogativi visto che riguardano lavoratori nel pieno delle forze.

Il nepalese Manjur Kha Pathan, autista di camion di 40 anni, è morto il 9 febbraio 2021, dopo aver segnalato al datore di lavoro che il climatizzatore nella sua cabina funzionava male. Mohammed Suman Miah, operaio edile di 34 anni proveniente dal Bangladesh, si è accasciato al termine di una lunga giornata di lavoro il 29 aprile 2020, con temperature che raggiungevano i 38 gradi. Mohammed Kaochar Khan, imbianchino della stessa età e nazionalità, è stato ritrovato nel suo letto, il corpo rigido, il 15 novembre 2017. Sono tre casi documentati nel rapporto di Amnesty international.

Da sapere
Riforme arenate

◆ Il Qatar aveva promesso di abolire la kafala nel 2015, ma l’ha fatto solo nel 2020, dieci anni dopo l’assegnazione della Coppa del mondo di calcio all’emirato. La kafala impediva ai dipendenti di cambiare impiego o lasciare il paese senza l’autorizzazione del datore di lavoro, esponendoli ad abusi e sfruttamento. Lo stesso anno Doha ha imposto un salario minimo obbligatorio, fissato a mille riyal (242 euro), a cui vanno aggiunti 300 riyal per il vitto e 500 per l’alloggio (rispettivamente 72 e 121 euro), se non sono forniti dal datore di lavoro. Secondo le autorità del paese, 242mila lavoratori hanno cambiato impiego dal 2020 e 400mila hanno beneficiato di un aumento salariale.

Ma alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani sostengono che in realtà le riforme rischiano di arenarsi e che la fine della kafala è ancora lontana. Diversi imprenditori locali, infatti, aggirano le nuove norme per perpetuare il sistema da cui traggono grandi benefici, scrive ancora Benjamin Barthe su Le Monde. Riescono a mantenere il controllo sui dipendenti minacciando di denunciarli per “fuga” o di annullare il loro permesso di soggiorno, oppure inserendo nei loro contratti delle clausole di non concorrenza. Un rapporto pubblicato il 18 novembre dall’Organizzazione internazionale del lavoro denuncia che nel 2020 in Qatar sono morti almeno cinquanta lavoratori, cinquecento sono rimasti gravemente feriti e 37.600 hanno subìto ferite lievi. Anche il documento “Reality check 2021”, presentato da Amnesty international il 16 novembre, sottolinea che nell’ultimo anno “sono riapparse pratiche illegali, che hanno reintrodotto i peggiori elementi della kafala e indebolito alcune riforme recenti”.


Numerosi esperti tendono a pensare che queste morti improvvise, classificate come “naturali”, siano il risultato di un colpo di calore, un misto di spossatezza, ipertermia e disidratazione. Secondo uno studio pubblicato nel 2019 sulla rivista Cardiology e citato nell’inchiesta di Amnesty international, tra i lavoratori migranti nepalesi “almeno duecento decessi sui 571 avvenuti per motivi cardiovascolari tra il 2009 e il 2017 avrebbero potuto essere evitati” con misure efficaci di protezione contro il caldo.

Al proprio ritmo

Il Qatar non è rimasto con le mani in mano. A maggio ha introdotto una nuova legislazione che garantisce agli operai il diritto di lavorare “al proprio ritmo” quando fa caldo, ed estende le fasce orarie durante le quali il lavoro all’esterno è proibito: dalle 10 alle 15.30 dal 1 giugno al 15 settembre, mentre prima era dalle 11.30 alle 15 dal 15 giugno al 31 agosto. Ma secondo David Wegman, esperto di sanità nel settore delle costruzioni, queste disposizioni restano “largamente insufficienti”.

Soprattutto, il Qatar si ostina a non fare l’autopsia nei casi di morti improvvise. “Le famiglie si oppongono per ragioni religiose”, sostiene Hassan al Thawadi. Quelle contattate da Amnesty international hanno dichiarato che nessuno gli aveva proposto di fare esami per chiarire le cause del decesso.

“È assurdo che si muoia di morte naturale a venti o trent’anni”, si irrita il responsabile di una rete di supporto ai nepalesi nel Golfo, che chiede di mantenere l’anonimato. “Se dei lavoratori perdono la vita a quest’età è solo perché non si è riusciti a proteggerli”. Restano undici mesi al Qatar per evitare che la sua costosa armata sia travolta dalle polemiche. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1440 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati