Intervistato prima dell’uscita del remake del _Re leone _nel 2019, l’attore sudafricano John Kani – voce di Rafiki – sosteneva che i sudafricani neri avrebbero accolto il film come “una storia africana”: “Quando lo vedranno, noteranno le analogie”. Dovremmo quindi pensare che la storia – un giovane leone, bandito dallo zio malvagio, decide di riprendere il mano il suo destino – rispecchia la lotta esistenziale degli africani, il loro vivere in uno stato di sviluppo frenato dal colonialismo europeo e dalle sue continue manifestazioni? Forse nel film l’allegoria non è così lampante, ma se allarghiamo lo sguardo e consideriamo il modo in cui è stato raccontato e recepito, le cose cambiano.
Nel mercato mondiale della cultura, dall’epoca coloniale ai giorni nostri, l’Africa è stata una fonte perenne di prodotti culturali esotici. A proposito di un classico della letteratura in lingua inglese, il romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Chinua Achebe scrisse: “Proprio nessuno riesce a vedere la ridicola e perversa arroganza nel ridurre così l’Africa al ruolo di puntello per il crollo di una singola meschina mente europea?”. A differenza di quanto accadeva all’epoca di Conrad, però, oggi le persone nere, in Africa e nelle diaspore, sono considerate parte del pubblico. E sono anche coinvolte nelle produzioni culturali. Il remake del _Re leone _ha un ricco cast di attrici e attori neri, tra cui celebrità come Chiwetel Ejiofor, Beyoncé Knowles-Carter e Donald Glover. Ma considerando l’egemonia della Disney sull’industria cinematografica e la sete di profitto all’origine del progetto, viene da chiedersi se, per l’Africa, questa sia stata davvero un’occasione per autoaffermarsi.
I rapporti di potere distorcono le rappresentazioni europee dell’Africa, ma queste distorsioni appaiono anche nelle opere intellettuali della diaspora nera contemporanea
Certo, il pubblico africano ha ricevuto alcune attenzioni speciali. L’album a tema di Beyoncé _The gift _– la sua “lettera d’amore” all’Africa con brani ispirati al _Re leone _– ha accompagnato l’uscita del film. Beyoncé ha potuto immergersi nei più recenti ritmi dell’afropop e collaborare con alcune grandi star del continente, ed è stata salutata per aver evocato la mitologia africana. I fan nigeriani hanno apprezzato l’uso della lingua yoruba. Ma di fronte al tono di molti di questi elogi, in certi casi ai limiti dell’orgia di complimenti, viene da chiedersi: qual era il valore intrinseco dello yoruba, oltre che di segnale di autorappresentazione?
Nemmeno le recensioni del film colgono questo aspetto. Nancy Adimora, per esempio, scrive sul sito gal-dem: “Capirei se il film parlasse di come Ishmael, che viene dalla Sierra Leone, e Ashira, dal Mozambico, si sono incontrati e innamorati su Facebook, del loro matrimonio e trasferimento in Ruanda, dell’incontro con un viaggiatore misterioso che gli spiega perché il riso jollof ghaneano non è mai eccezionale, del loro viaggio attraverso il continente alla ricerca della ricetta del jollof perfetto e della loro scoperta, alla fine, che il jollof perfetto è sempre stato in Nigeria”.
In altre parole, per avere il diritto di rivendicare la propria africanità, bisogna riunire le caratteristiche di tutti i tipi di Africa che esistono e di tutti gli africani che ci abitano. Questa e altre analisi delle rappresentazioni dell’Africa hanno vari limiti. Il primo è il presupposto da cui partono, ovvero che sia possibile tracciare un ritratto composito dell’Africa o delle vite africane. Inoltre rivelano l’incapacità di capire che una persona può rappresentare solo ciò che vede, e ciò che vede spesso dipende dalla sua posizione rispetto all’oggetto osservato. La capacità di osservare e di rappresentare qualcosa è quindi una questione di potere. Com’è noto da tempo, i rapporti di potere distorcono le rappresentazioni europee dell’Africa, ma queste distorsioni appaiono anche nelle opere intellettuali della diaspora nera contemporanea.
La facilità con cui gli intellettuali afroamericani si pongono al centro dei racconti dell’esperienza nera globale ricorda la facilità con cui gli intellettuali occidentali hanno presentato la storia del pensiero filosofico, tracciando un’unica linea da Socrate a Hegel. Pochi pensatori neri negli Stati Uniti sembrano in grado di affrontare le implicazioni del loro americanocentrismo rispetto all’Africa. E anche chi critica questo americanocentrismo tende spesso a escludere l’Africa dalla discussione. Secondo lo storico britannico Paul Gilroy, l’essere nero è una condizione necessariamente transemisferica e basata sulla presenza di elementi contrastanti, determinata dall’esperienza del commercio degli schiavi e contrapposta all’imperialismo occidentale. Gilroy espone una storiografia della liberazione nera che va dalla rivoluzione haitiana alla Universal negro improvement association di Marcus Garvey. Sembra impossibile trascurare l’Africa in un resoconto così completo della storia nera, eppure è quello che fa Gilroy. In reazione, qualcuno ha reinserito l’Africa nell’Atlantico nero, come se si fosse trattato di una comprensibile dimenticanza. E se invece considerassimo queste dimenticanze non un piccolo incidente di percorso, ma un esercizio del potere di escludere? Se ammettessimo che la teorizzazione della nerezza da parte della diaspora riproduce – senza che questo venga riconosciuto – l’egemonia occidentale, e sottolineassimo il predominio dei pensatori della diaspora in questo campo?
È importante esaminare i modi in cui chi fa parte della diaspora africana spiega i presupposti delle metropoli da cui osserva il mondo. Come scrive il comparatista statunitense Brent Hayes Edwards nell’articolo “The autonomy of black radicalism”, pubblicato nel 2001 sulla rivista Social Text, “un tratto importante di ciò che accomuna il radicalismo nero è il suo essere sistematicamente diasporico”. L’affermazione è chiara e schiacciante: la nerezza raggiunge un dinamismo culturale e politico solo quando lascia l’Africa, quando entra in contatto con il carattere euro-americano. La cosa più notevole è che si tratta di un’immagine perfettamente speculare della predisposizione coloniale verso l’Africa.
Una volta superata la prospettiva del panafricanismo, possiamo quindi esaminare gli squilibri di potere presenti nei rapporti tra l’Africa e la diaspora, e chiederci come potrebbero influenzare gli scambi futuri. Partiamo da un dato, che non possiamo più considerare innocuo: i film di Hollywood sull’Africa più apprezzati dal pubblico afroamericano – Il principe cerca moglie, _Black panther _e _Il re leone _– trattano tutti il tema della regalità. Gli africani nel _Principe cerca moglie _e in _Black panther _sembrano usciti da un passato di gloria e potere esemplari, l’Africa delle piramidi e dei tessuti kente ricamati d’oro. Non è difficile capire perché gli afroamericani s’identifichino con queste storie. Il loro fascino nasce da un essenzialismo particolarmente afrocentrico, che sfrutta e accentua alcuni elementi dell’Africa precoloniale per opporsi tatticamente alla narrazione occidentale della nerezza come primitiva e incompiuta. Ma è una tendenza rischiosa, come aveva capito Chinua Achebe: “Non vedo perché sia necessario che un popolo dimostri a un altro popolo di aver costruito delle cattedrali o delle piramidi per avere il diritto alla pace e alla sicurezza. Di conseguenza, non credo che i neri dovrebbero inventarsi un grandioso passato per giustificare, oggi, la loro esistenza e dignità umane”.
Il pubblico afroamericano s’interesserebbe a Zamunda senza le sue ricchezze o a Wakanda senza i progressi tecnologici del vibranio? A quanto pare nessuna delle Afriche immaginate dal resto del mondo corrisponde a quelle in cui gli africani vivono, pensano, lavorano, amano e muoiono.
Concepire il riconoscimento straniero dell’eccellenza africana come un tentativo di portare “l’Africa nel mondo” vuol dire interiorizzare la conoscenza egemonica dell’Africa e un ordine sociale in cui gli africani saranno sempre periferici rispetto agli eventi e alle preoccupazioni principali dell’umanità. Non bisogna dimenticare che l’ideologia, come scrive il sociologo Stuart Hall, opera per sua natura a livello inconscio, e l’egemonia occidentale svolge ancora, in gran parte, il ruolo di filtro del gusto e del valore. Perfino Achebe ammette che “Conrad non si è inventato l’immagine dell’Africa che troviamo nel suo libro. Quella era ed è l’immagine dominante dell’Africa nell’immaginazione occidentale, e Conrad ha semplicemente usato le sue peculiari doti mentali per rappresentarla”. Per questo, quando Beyoncé inserisce, nella sua lettera d’amore all’Africa, una canzone intitolata Spirit e indossa un copricapo di conchiglie di ciprea, viene il dubbio che sia caduta nella stessa trappola esotista in cui finirono Picasso e i suoi amici con le maschere “africane”.
Nel video di Beyoncé gli abiti e i balli esotici, i grandi paesaggi desertici e montani e altri elementi ancora presentano un’Africa pronta per un’escursione turistica. Eppure noi africani consumiamo queste rappresentazioni e le facciamo nostre, anche se potremmo dire che non sono mai concepite per un pubblico africano. Se ammettessimo che la produzione culturale afroamericana presenta gli stessi limiti immaginativi della produzione afroamericana di conoscenze, non vedremmo più in The gift e nelle nostre reazioni all’album di Beyoncé un caso isolato, ma il segno di complessi diffusi. Faremmo più caso a quello che intendiamo quando diciamo che l’afrobeat è diventato “globale”, o quando discutiamo su quale regione africana meriterebbe più spazio nelle produzioni culturali statunitensi. Dovremmo riconoscere che il nostro consumo della cultura afroamericana racchiude aspirazioni infauste, il desiderio di vedere la nerezza riflessa in un’immagine libera dell’intralcio dell’Africa. La “lettera d’amore all’Africa” di Beyoncé è particolarmente deleteria: presenta un’Africa che può essere trasmessa attraverso le caratteristiche di un genere musicale amato da tutti. Ma la posizione di Beyoncé – celebre artista statunitense – assicura alla sua presentazione una portata politica che nessuno dei suoi collaboratori o fan africani può vantare.
Avere l’autorità di cogliere e dichiarare il valore dell’Africa è un privilegio preteso ancora oggi da chi non si trova in Africa, e sempre contestato da una posizione di debolezza. Percepiamo l’africanità come incompatibile con ciò che è “moderno” o “contemporaneo” e gli africani, pur appartenendo al secondo continente più grande del pianeta, devono guadagnarsi l’accesso alla dimensione globale. Nell’africanità rimane qualcosa d’irrimediabilmente provinciale, di così limitato da impedire una rilevanza o una funzione più ampia.
Achebe avrebbe voluto completare la sua analisi di Conrad parlando di “quanto sarebbe benefico se l’occidente smettesse di concepire l’Africa attraverso una nebbia di distorsioni e meschine mistificazioni, e la vedesse semplicemente come un continente di persone: non angeli, ma nemmeno anime primitive, persone e basta”. Ma poi, scrive, aveva rinunciato al suo progetto: “Ho ripensato ancora all’immagine stereotipata, alla deliberata tenacia con cui l’occidente se la tiene stretta. Quando ho pensato alla televisione, al cinema e ai giornali occidentali, ai libri letti dentro e fuori le scuole, alle chiese che predicano a file di banchi vuoti sull’importanza di aiutare i pagani in Africa, ho capito che un facile ottimismo non era possibile”. Achebe era giunto alla conclusione che la rappresentazione, da sola, è destinata a fallire come politica di liberazione.
Ripristinare la dignità africana e “chiarire i fatti” non è un’opera alla quale Achebe si dedicò incidentalmente. Il grande scrittore ci ricorda anzi che bisogna avere un piano, perché chi continua a considerare l’Africa un bottino da saccheggiare persegue questo obiettivo. Non possiamo lasciarci ingannare così facilmente e credere che chiunque mostri interesse per l’Africa o per gli africani sia mosso da nobili intenzioni o superficiale ingenuità. Dobbiamo coltivare un deliberato cinismo per rimanere coscienti del fatto che, come sostiene Achebe, “lo straordinario fallimento nel capire che le persone nere vogliono essere trattate come persone dev’essere qualcosa di più di un’incapacità. Dev’essere un rifiuto, un atto di volontà, una strategia politica, una cospirazione”. Ci sono quindi interessi personali contro i quali dobbiamo difenderci, ed è necessario sapere a chi appartengono questi interessi, qualunque sia la forma che possono prendere, che si tratti delle “doti di Conrad”, dei successi della cultura pop, o delle sembianze di un’autolegittimazione economica, politica o culturale. ◆ fs
Boluwatife Akinro
è una scrittrice nigeriana. Sta facendo un master
di inglese e studi americani all’università di Paderborn, in Germania.
Joshua
Segun-Lean
è uno scrittore nigeriano.
Questo articolo è uscito su Africa Is a Country con il titolo Beyoncé and the heart of darkness.
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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati