Tre camerunesi sono morti in Messico. Annegati a undicimila chilometri da casa e a poco meno di duemila chilometri dalla loro meta, gli Stati Uniti. Poco dopo la morte, hanno cominciato a svelare verità dalle dimensioni globali. Io mi sono imbattuto nella loro storia quasi per caso.
Appena arrivato a Tapachula, nel sudest messicano, ho saputo che una barca a motore era affondata davanti alla spiaggia al confine tra il Chiapas e lo stato di Oaxaca. La mattina dell’11 ottobre 2019 un pescatore aveva notato dei vestiti su una duna di sabbia vicino a Puerto Arista, in Chiapas, e aveva avvisato i soccorritori locali. Quando sono arrivati, hanno individuato alcune orme che proseguivano per quattrocento metri verso l’entroterra. Lì hanno trovato il primo cadavere, coperto da un po’ d’erba strappata dalle dune. La marina messicana e la procura del Chiapas sono arrivate poco dopo. Un documento di transito della Costa Rica li ha aiutati a identificare il defunto: Emmanuel Cheo Ngu, 39 anni, originario di Bamenda, in Camerun.
Dagli arbusti intorno alle dune sono spuntati otto naufraghi, sfiniti e traumatizzati dall’incidente, dalla sete e dalle punture degli insetti, e si sono consegnati agli agenti messicani. Sette uomini e una donna, tutti del Camerun. Sono stati portati in un ospedale vicino. “La donna era incinta”, mi racconterà due giorni dopo Francisco Álvarez, uno dei soccorritori. “Erano tutti molto provati”. I coyotes, i trafficanti di persone, li avevano abbandonati alla loro sorte.
Nel pomeriggio i pescatori hanno trovato un altro cadavere. Atabong Michael Atembe, 32 anni, anche lui del Camerun. Il mare l’aveva depositato quasi nello stesso punto: un piccolo banco di sabbia con qualche specchio d’acqua, quasi un miraggio che si lasciano dietro le alte maree; e dune che a mezzogiorno, contro il cielo azzurro, disegnano un paesaggio degno dell’universo di Dalì.
Sono arrivato sul posto dopo mezz’ora di viaggio sulla spiaggia deserta, a bordo di un quad guidato da un adolescente che si era offerto di farci da guida.
Sulla sabbia c’erano ancora dei vestiti, l’unica prova del naufragio. Ho preso appunti sul mio quaderno: un paio di pantaloni da donna; due abiti; un calzino marrone; una saponetta; un maglione; un altro paio di pantaloni da donna; un sandalo di plastica; un pantaloncino da bambino accanto a una maglietta nera della stessa taglia; una maglia rossa, da adulto; un pacco di assorbenti; un sacchetto di plastica pieno di chicchi bianchi simili al sale grosso, con indicazioni mediche scritte in francese; un flacone di sapone liquido; tre mutande da donna, una rossa, una rosa e una azzurra; un pacchetto di cotone idrofilo; un calzino rosa; due reggiseni, uno nero e uno rosa; due mutande nere; un pantaloncino turchese; due jeans da bambini; una maglietta rosa accanto a un paio di pantaloni e a un asciugamano dello stesso colore; un reggiseno malva; un jeans ocra; un reggiseno verde; una coperta con cuori rossi e gialli; una bottiglia di plastica verde; una maglietta grigia da bambina e un paio di jeans alla rovescia, strappati; una maglietta nera con una stampa bianca della torre Eiffel; una maglia termica da bambino. Le autorità messicane hanno detto che tutti i sopravvissuti erano adulti. Questo è quello che ho visto io.
L’oceano Pacifico aveva depositato un terzo cadavere su una spiaggia vicina chiamata Cachimbo, che fa parte dello stato di Oaxaca. I pescatori l’hanno trovato il giorno dopo. Era un uomo, camerunese.
Cosa facevano laggiù, così lontano da casa, degli africani? Dove si erano imbarcati?
Ero arrivato a Puerto Arista dopo aver trascorso un mese alla ricerca della rotta marittima dei migranti, partendo da quest’idea: se il governo messicano aveva ceduto alle pressioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e aveva rafforzato il controllo della frontiera meridionale schierando migliaia di agenti della guardia nazionale, la migrazione via mare doveva essere aumentata. Il naufragio dei camerunesi sembrava confermare che quella era una rotta della tratta di esseri umani. Ma questo è successo quasi alla fine di un viaggio cominciato quattro settimane prima, sulle coste del Guatemala. Lì avevo trovato tutt’altro.
La nuvola negli occhi
Il mio viaggio comincia a Ocós, un angolo buio e abbandonato del Guatemala sull’oceano Pacifico, accanto alla foce del fiume Suchiate, che è stato per anni il rifugio di trafficanti di droga e di esseri umani.
Si sa poco di questo luogo, di cui peraltro non importa quasi a nessuno. Né i giornalisti della capitale guatemalteca né i politici né i procuratori hanno informazioni aggiornate su quello che succede lì. Tutti, però, mi avevano consigliato di starne alla larga. L’accesso alla zona è strettamente controllato, non ci arriva neanche la polizia. Perché andarci? È territorio di aziende di banane e narcotrafficanti.
Ma come ho verificato in prima persona, se per caso qualcuno si spinge fino a lì non cambia solo lo spazio, ma anche il tempo. Si torna indietro di settant’anni, all’epoca dell’onnipotente United Fruit Company. Attraverso un sentiero polveroso lungo venti chilometri, sembra di entrare in un romanzo dello scrittore guatemalteco Miguel Ángel Asturias: le piantagioni di banane, i grandi imprenditori, i braccianti, la povertà, l’accaparramento delle risorse naturali. Solo due cose sono cambiate: queste terre non appartengono più all’onnipotente United Fruit Company, ma a onnipotenti latifondisti guatemaltechi; e qui oggi vivono i narcotrafficanti. Ocós è un romanzo di Asturias, con in più il narcotraffico.
Arrivo con un contadino che ha viaggiato insieme a me da Città del Guatemala. Il mio accompagnatore è di La Blanca, un insieme di capanne e baracche che fino a cinque anni fa faceva parte di Ocós. Oggi è un comune indipendente. Il piccolo centro urbano dove sorge il nuovo municipio, che è il luogo d’incontro della comunità, è fatto di strade che si contano sulle dita di una mano. La libreria non vende libri ma quaderni, matite, righelli, compassi e monografie degli eroi nazionali. All’entrata del paese c’è un cartello con la scritta: “Benvenuti a La Blanca, capitale dell’oro verde”. L’oro verde sono le banane, il prodotto che muove l’economia di tutta la regione e che qui raramente raggiunge il colore giallo.
Ci addentriamo tra gli alberi di banane e arriviamo al villaggio di Chiquirines, dove vivono alcune famiglie di contadini. Le case sono circondate dalle piantagioni e i pesticidi spruzzati dagli aerei delle aziende bananiere cadono sui loro tetti, sui loro cortili, sui loro animali, sulle loro teste. In una di queste case vive Narciso Dueñas, che i vicini chiamano don Chicho. È un uomo magro ma massiccio, con la pelle scura, liscia e brillante. Ha 55 anni e non si è mai allontanato da Chiquirines. È seduto su una sedia di plastica, sul pavimento in terra battuta circondato da mattoni sovrapposti che delimitano l’ingresso della sua casa, a quindici chilometri scarsi dal Messico e a un secolo di storia dalle capitali latinoamericane. Accanto a Chicho ci sono due sacchi pieni di pannocchie di mais senza chicchi. Sono gli avanzi del consumo familiare, cibo per i maiali, in vendita per chi vuole mettere all’ingrasso i propri animali. Irma, la moglie di Chico, è seduta alla sua destra su un tronco d’albero, perché le due sedie che hanno non bastano quando ci sono ospiti. Ora hanno un po’ d’acqua, dice Irma, perché è la stagione delle piogge. Ma durante la lunga estate tropicale il pozzo resta vuoto.
Don Chicho Dueñas sostiene di aver recuperato la vista, ma mentre parla cerca con lo sguardo i miei occhi e non sempre li trova. Azzarda spiegazioni alternative: “Mi si è rotta la stanghetta degli occhiali, per questo non posso usarli. Sto recuperando la vista a poco a poco. Non riesco a leggere, ma faccio tutto il resto”.
Ha avuto il primo distacco della retina, quella dell’occhio destro, nel 2016, in una giornata di sole a picco mentre camminava e spruzzava pesticida, con il serbatoio sulle spalle, tra le piante di banane. La settimana dopo gli si è scollata anche l’altra. “Ero bravo con l’erbicida”, dice Dueñas guardando davanti a sé, dove non c’è nessuno. “Ne spruzzavamo dieci, quindici barili. ‘Bisogna andare più veloce’, mi dicevano. ‘Più veloce, più veloce’. Prendevo delle pasticche per la febbre e per il dolore, perché non potevo smettere di lavorare. Per il confezionamento delle banane lavoravo con il cloro. Mi si è scollata la retina. Mi hanno messo a tagliare la frutta fino a quando non si è scollata del tutto e non ho visto più nulla. Ho spiegato al padrone che non ci vedevo più, lui ha notato la nuvola nel mio occhio e mi ha mandato da un dottore che conosceva in città. Ma il dottore mi ha fatto pagare. L’azienda non ha mai versato i contributi per l’assicurazione sanitaria, anche se tratteneva una quota tutti i mesi. Avevo perso l’occhio, mi ha detto il dottore, perché avevo lavorato troppo a lungo con delle sostanze chimiche. Abbiamo venduto gli animali e usato i pochi risparmi che avevamo per l’operazione. Ora ci vedo”, dice.
È difficile credergli.
La famiglia vende gli animali che alleva Irma, i resti delle pannocchie e le amache che Chicho tesse alla velocità che la sua cecità gli consente. Da quando ha perso la vista da entrambi gli occhi non può più lavorare. Il figlio ha lasciato gli studi da infermiere e ha cercato lavoro in un’azienda di banane. È giovane e abbastanza forte per caricare i caschi di banane, spruzzare l’erbicida, costruire le barriere di contenimento o confezionare la frutta. Per andare avanti. L’azienda per cui lavorava il padre non l’ha assunto. Così lavora dove capita, sempre a cottimo, nei terreni di qualcun altro. A volte gli offrono due giornate di lavoro, a volte tre, a volte nessuno. Lui vorrebbe andare via dal Guatemala, al nord. “Qui la gente mangia più di quello che guadagna”, dice Irma. E la gente, qui, non mangia molto.
Chicho racconta che ormai non riesce neanche a mantenere la terra che coltiva per sfamare la sua famiglia, perché le aziende di banane hanno deviato i fiumi, prosciugato i terreni e costruito barriere di contenimento e dighe. D’estate si prendono tutta l’acqua e d’inverno inondano tutto quello che c’è intorno. Non lo dice solo lui. Lo confermano centinaia di denunce e testimonianze nelle zone rurali del Guatemala, dal Pacifico ai Caraibi. Dalle coste alle foreste.
Chicho mi porta nel cortile sul retro della casa, dove alcune galline scorrazzano nel fango. Ascolto i piccoli aerei che passano sulle nostre teste spargendo insetticida. In fondo al cortile, al confine della proprietà segnalato da qualche paletto, c’è una barriera alta più di due metri e larga altrettanto che circonda tutta la terra lì davanti: è dell’azienda di banane. A due metri da casa di Chicho c’è la piantagione dove ha perso la vista. Da qui vediamo decine di irrigatori che spruzzano acqua senza sosta tra i cespugli da cui pendono caschi di oro verde. In un processo calcolato con precisione, durante il viaggio il colore cambierà e diventerà di un perfetto giallo banana sugli scaffali dei supermercati di New York, New Orleans, San Francisco, Los Angeles e Chicago. Don Chicho osserva gli irrigatori spruzzare l’acqua che a lui manca. L’acqua dei fiumi deviata per alimentare le piante.
“Ho scavato la mia fossa in queste piantagioni”, dice.
Il vero problema
Nel 2016 il ministero dell’ambiente del Guatemala ha denunciato che, solo sulla costa sud, più di cinquanta fiumi sono stati deviati dalle aziende agroindustriali che coltivano la canna da zucchero, la palma da olio africana e le banane. Nella zona di Ocós, come in tutto il paese, i due giganti dell’industria agricola sono il gruppo Hame, della famiglia Molina, e Banasa, della famiglia Bolaños. Entrambi hanno come clienti le grandi aziende statunitensi di distribuzione della frutta: Chiquita, Dole e Del Monte. Entrambi sono beneficiari di generose esenzioni fiscali e oltre alle banane coltivano la palma africana, la canna da zucchero, il caucciù e il caffè.
In questo angolo della costa meridionale, le piantagioni di banane sono vicine ai terreni coltivati a palma. Il gruppo Hame produce anche olio di palma e oli da cucina ed è il secondo maggiore esportatore di olio di palma dell’America Latina, anche se due grandi multinazionali come la Nestlé e la Cargill hanno rescisso contratti da milioni di dollari. Il sito della Cargill specifica che il contratto con il gruppo Hame è stato sospeso per denunce “di violazione dei diritti umani e inquinamento ambientale”.
Hame è la sigla di Hugo Alberto Molina Espinoza, il fondatore dell’azienda, che cominciò la sua attività da imprenditore con uno zuccherificio che collaborava con la United Fruit. È morto nell’aprile del 2019. La sua azienda è stata denunciata non solo per aver deviato il corso di fiumi, ma anche per ecocidio, evasione fiscale e violazione delle leggi sul lavoro. A La Blanca e a Ocós, la Hame e la Banasa sono state denunciate da undici comunità per aver deviato i fiumi Pacayá e Mopá. Il giudice si è espresso a favore dei contadini, ma i fiumi non sono tornati al loro posto.
Il direttore esecutivo della Hame, Felipe Molina, accetta di parlarmi al telefono. La nostra conversazione dura solo cinque minuti perché ha fretta, dice. Faccio in tempo a chiedergli delle accuse contro la sua azienda. “Ci sono attivisti che vanno dritti a denunciare i fatti senza aver provato a stabilire un contatto e senza chiedere spiegazioni. Denuncia non è sinonimo di condanna. Si fa un gran parlare di denunce. Ma cos’è dimostrato e cosa no?”, afferma. Quando cito le condanne del ministero dell’ambiente e delle istituzioni che si occupano dei diritti dei lavoratori e di evasione fiscale, mi consiglia di parlare con i suoi sottoposti. Prima di essere congedato, gli chiedo del recente arresto di uno dei suoi fratelli, accusato di evasione fiscale dalla Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala (Cicig). “È vero, ci sono denunce contro alcuni miei familiari, ma appunto sono solo denunce”, dice. Il caso resta aperto, il fratello aspetta il processo in libertà ma alla fine di agosto del 2019 la Cicig, assediata dal governo guatemalteco e dai grandi imprenditori come Molina, ha interrotto la sua attività.
A La Blanca incontro Porfirio Escobar, un uomo robusto di 64 anni con le mani piene di calli, a cui è praticamente impossibile strappare un sorriso. Vive sulla riva del Pacayá, uno dei fiumi deviati dalle aziende di banane. Ora, nella stagione delle piogge, il Pacayá più che un fiume sembra un torrentello. Il contadino fa una sintesi della situazione: prima qui c’era pesce in abbondanza, negli anni novanta arrivarono le aziende di banane e la palma, e la superficie coltivabile diminuì. “Nel maggio del 2005 tutto finì a causa degli interventi dei proprietari terrieri: barriere e deviazioni del fiume. L’acqua superò le barriere di contenimento e inondò le nostre terre. Addio ai raccolti. Poi a ottobre l’uragano Stan ci tolse quel poco che ci restava”, dice Escobar.
Nel cortile di casa, la moglie di Escobar mette a scaldare l’acqua sul fuoco. Oggi mangeranno una minestra di pesce. A portata di mano, su un’asse di legno, una decina di pesciolini aspettano in una bacinella. Sono coperti da un nugolo di mosche. La donna le scaccia, prende un pesciolino ancora vivo e lo apre con un coltello per pulirlo. “È tutto quello che abbiamo preso dal fiume”, dice Escobar. “Ci hanno tolto i pesci e la terra. Ormai seminiamo solo una volta all’anno”.
Dietro di lui, una gallina stramazza a terra morta. Quando Escobar se ne accorge, la prende per il collo e chiede gridando agli altri componenti della famiglia se qualcuno le ha dato qualcosa che non doveva. Nessuno risponde. In fondo alla casa, il figlio di Escobar guarda su un vecchio televisore una puntata di Law and order. Chiedo a Escobar se passano ancora migranti da qui. Mi dice di no. Da giorni non sente parlare di centroamericani in transito sulle barche a motore. Sa solo dei migranti locali: “I giovani se ne sono andati. Se n’è andata anche la gente più anziana, a causa della fame. Noi restiamo qui nel mezzo: da una parte le grandi proprietà terriere, dall’altra i narcotrafficanti, che comprano la terra a prezzi altissimi per riciclare denaro. Tutti ci prendono le terre. Un ragazzo che vive qui vicino è stato assoldato per un trasporto. Di un carico, capito? Ha trasportato il suo primo carico. Poi un altro e un altro, e così via. Ha fatto un sacco di soldi. Si è costruito una casa. Ha comprato una camionetta, una macchina. Quando ha fatto troppi soldi l’hanno ammazzato. Funziona così. Se comincio a lavorare per loro, dopo tocca a mio figlio. Magari anche lui farà un sacco di soldi. Ma poi? Meglio il sudore sulla fronte. Qui il problema non è il narcotraffico, quello è un problema solo se ci hai a che fare. Il problema sono le aziende di banane”.
Saliamo con la macchina su una chiatta di legno a motore improvvisata, sulle acque del fiume Naranjo, per attraversarle in direzione di ciò che resta del comune di Ocós. Arrivati dall’altra parte passiamo tra le strade in mezzo alle piantagioni di banane, che sono un percorso quasi obbligato. Lo stesso paesaggio di Asturias, gli stessi sentieri polverosi su cui passano i container con i loghi della Chiquita e della Dole. Le stesse piste di atterraggio per gli aerei che spargono pesticidi. La stessa miseria. L’industria guatemalteca delle palma africana esporta ogni anno prodotti per quattrocento milioni di dollari (363 milioni di euro). La banana rende ancora di più. Ma agli abitanti di queste zone arriva molto poco.
Quando parlo con i dirigenti della Hame, mi dicono che il fiume Pacayá si è prosciugato per effetto del cambiamento climatico. Poi però ammettono che ci sono alcuni “problemi” e spiegano che hanno cominciato a svolgere degli studi di impatto ambientale. Da quando sono stati rescissi i contratti con la Nestlé e la Cargill, hanno ridotto il consumo di acqua e hanno apportato dei miglioramenti nella speranza che in futuro le due multinazionali tornino sui loro passi.
Chicho mi porta nel cortile sul retro della casa. Ascolto i piccoli aerei che passano sulle nostre teste spargendo insetticida
Gli chiedo quale sia la loro idea di sviluppo, considerando che nelle zone dove si produce la loro ricchezza la gente vive nella povertà. Sviluppo? Danno il loro contributo, dicono, assumendo diecimila persone del posto. Investono anche nella salute e nell’istruzione per i loro dipendenti. Il problema, mi spiega uno dei dirigenti, è l’assenza dello stato. E su questo perfino Jimmy Morales (presidente del Guatemala dal 2016 al gennaio 2020) è d’accordo.
Pochi giorni dopo la mia conversazione con i dirigenti del gruppo, Felipe Molina ha ricevuto da Morales un riconoscimento in memoria del padre. Il presidente ha annunciato l’apertura di consolati nei paesi produttori di palma africana e nuove strade nelle zone delle grandi piantagioni. Poi ha chiesto aiuto agli industriali agroalimentari del paese: “Si dice spesso che lo stato non c’è, ma lo stato ha risorse limitate, e voi lo sapete. Se ci aiuterete a realizzare progetti sociali in queste zone sarete i benvenuti, il paese ve ne sarà grato e la storia ve ne renderà merito”.
Ascoltando le sue parole non ho smesso di pensare all’epoca della United Fruit, che costruì la ferrovia, le scuole, gli ospedali e le dogane, e chiese al Guatemala un riconoscimento sotto forma di riforme legali ed esenzioni fiscali. Succedeva settant’anni fa.
A grandi linee
Emmanuel Cheo Ngu ha lasciato la sua casa a Bamenda il 30 luglio 2019, con la moglie Antoinette e i quattro figli. Ha guidato per sette ore verso il sud del Camerun, fino all’aeroporto della città di Douala. Lì ha salutato la sua famiglia e ha cominciato la traversata aerea verso Quito, in Ecuador.
Ngu insegnava in una scuola secondaria pubblica di una delle regioni anglofone del Camerun, dove le forze separatiste combattono da più di due anni contro il governo francofono di Paul Biya, a capo di un regime dittatoriale dal 1982. Il conflitto ha provocato più di tremila morti e mezzo milione di sfollati.
Antoinette, la vedova di Emmanuel Ngu, mi racconta al telefono che suo marito è scappato perché era convinto che l’avrebbero ucciso. Il suo migliore amico, un collega di nome Oliver, era stato decapitato a maggio del 2019. Ngu era rimasto intrappolato nel conflitto. Riceveva minacce di morte dai separatisti e le forze governative l’avevano picchiato al punto da deformargli un dito. Tutte quelle cicatrici hanno reso più semplice, qualche mese dopo, il riconoscimento del cadavere.
Ngu non è un caso unico. Al centro per migranti Siglo XXI, a Tapachula, ho trovato migliaia di africani in fuga da dittature e regimi corrotti, a cui i governi europei danno sostegno in cambio di protezione per le aziende che fanno profitti con l’estrazione delle risorse africane; o in fuga da problemi che hanno origine nelle amministrazioni coloniali.
Sul loro cellulare tutti i migranti africani conservano video della situazione nei loro paesi: uomini che decapitano una donna, adolescenti uccisi da uomini in uniforme, linciaggi pubblici, sparatorie indiscriminate contro la popolazione civile. Immagini che confermano i racconti dei corrispondenti della stampa internazionale e delle organizzazioni che difendono i diritti umani.
L’Europa ha chiuso le porte ai migranti africani. In migliaia affogano nel tentativo di attraversare il mar Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna, finiscono in centri di detenzione o sono schiavizzati in Libia. Per questo migliaia di persone attraversano mezzo pianeta per arrivare negli Stati Uniti. A grandi linee, era lo stesso piano di Emmanuel Cheo Ngu: raggiungere gli Stati Uniti e chiedere asilo. Lì vivono due sue sorelle e anche la madre. Ma i viaggi non si fanno a grandi linee, almeno non i viaggi dei migranti.
Ngu ha fatto la lunga traversata aerea con il cugino Forché Takwi, di 19 anni. Il primo volo li ha portati da Douala, in Camerun, a Istanbul, in Turchia, dove hanno cambiato solo aereo. L’ultimo scalo è stato Panamá, dove non sono scesi perché non avevano un visto. Sono volati in Ecuador e sono rientrati a Panamá attraverso un percorso pericoloso, che fa chi non può scendere all’aeroporto perché non è europeo né statunitense e non ha un visto.
Ngu e Takwi sono arrivati a Quito il 2 agosto e hanno viaggiato in autobus fino al piccolo porto di Turbo, sulla costa settentrionale della Colombia. Lì hanno preso una barca che li ha portati fino a Capurganá, penultima spiaggia colombiana dei Caraibi. Un paesino isolato, inaccessibile via terra, che vive dei turisti più avventurosi, pronti a viaggiare su barche come quelle usate da Ngu e Takwi. Capurganá è anche la porta di ingresso al Tapón del Darién, una regione impervia al confine tra Colombia e Panamá.
Takwi racconta il tragitto: “Conoscevamo quella rotta perché ce ne avevano parlato degli amici. La fanno tutti i camerunesi. A Capurganá abbiamo pagato qualcuno per accompagnarci. Quattro notti e cinque giorni a piedi nella foresta. Il quarto giorno siamo stati rapinati da una banda di ladri. Sono usciti dal nulla, ci hanno circondati e ci hanno rubato tutti i soldi: duemila dollari, mille di Emmanuel e mille miei. Un ragazzo si è rifiutato di consegnare i suoi soldi e lo hanno ucciso sul posto. Era del Camerun, lo avevamo conosciuto pochi giorni prima a Capurganá. Le guide ci hanno detto di andarcene subito per evitare altri problemi. Abbiamo preso gli zaini e abbiamo proseguito per la nostra strada. Il ragazzo è rimasto lì a terra, morto. Ce ne siamo andati”.
Anniversario
Appena è arrivato a Panamá, Emmanuel Cheo Ngu ha chiamato la moglie Antoinette. Non le ha raccontato del ragazzo morto né della rapina. Le ha detto solo che la parte più pericolosa del viaggio era ormai alle spalle. Le ha anche mandato alcune foto dei giorni passati nella foresta, che poi Antoinette mi ha inoltrato. Si vede Ngu in mezzo a un gruppo di migranti africani. Indossa una maglia del Barcellona, dei pantaloncini sportivi e ai piedi ha un paio di scarpe di plastica. Non sembrano i vestiti più adatti per attraversare una delle regioni più inospitali del continente americano.
Secondo tutti gli africani con cui ho parlato a Tapachula, il Darién è il tratto peggiore. Sono in balìa delle mafie, dei trafficanti di persone e dei ladri. Tutti subiscono una rapina. Alcune donne vengono stuprate. Tutti sono stati testimoni di uccisioni nella foresta o hanno sentito storie al riguardo. I cadaveri restano lì, come morti senza nome, anche se hanno una famiglia in Africa che aspetta loro notizie. Mi hanno confermato che aveva fatto quel percorso anche il secondo morto annegato, Atabong Michael Atembe. Come il viaggio dei centroamericani verso gli Stati Uniti, anche quello degli africani nel Darién è pieno di persone morte e scomparse. Ma tra tutti, alcuni sono più svantaggiati: gli africani che sopravvivono al Darién, dopo devono ancora intraprendere tutto il percorso dei centroamericani. La frontiera del Guatemala con il Messico, che per i centroamericani è l’inizio dell’inferno, per i migranti africani è solo l’ultimo tratto di un’odissea.
Ngu e il cugino Takwi hanno pagato il resto del viaggio con i soldi che gli avevano prestato altri camerunesi. Hanno attraversato il fiume Suchiate su una zattera il 16 settembre, sei settimane dopo aver lasciato Bamenda. Erano a undicimila chilometri da casa in linea retta. Ma tra aerei, autobus, barche e tratti a piedi avevano percorso ventiduemila chilometri.
Si sono registrati al centro per migranti di Tapachula e hanno chiesto i documenti necessari per attraversare il Messico. Siccome gli africani vengono da paesi che non hanno una rappresentanza diplomatica, il Messico li considera apolidi. Come agli altri migranti, gli concede un permesso di soggiorno temporaneo che gli vieta di abbandonare il Chiapas, lo stato messicano più lontano dalla frontiera con gli Stati Uniti.
Dopo aver dormito varie settimane alle intemperie nelle tende montate sul terreno del centro per migranti, Takwi è partito via terra verso nord, con i trafficanti di esseri umani. Ngu ha preferito restare a Tapachula.
Antoinette ricorda una conversazione telefonica avuta con il marito in quei giorni: “Mi disse una cosa che mi preoccupò: aveva scoperto che la polizia in Messico era molto corrotta e non poteva proteggerli. Era nel sud del paese da quasi un mese e le autorità gli vietavano di arrivare nella capitale. Diceva che erano ostaggi e che il Messico non era un paese sicuro. Aveva deciso di andare verso nord, ma non mi spiegò come”.
Hanno attraversato il fiume Suchiate sei settimane dopo aver lasciato Bamenda. Avevano percorso ventiduemila chilometri
Il 10 ottobre, poche ore prima d’imbarcarsi, Ngu ha registrato un messaggio su WhatsApp per Antoinette. Era il loro decimo anniversario di matrimonio ed erano lontani da settanta giorni. “Pur da un posto così lontano non posso dimenticare il nostro anniversario. Dieci anni di alti e bassi. Grazie per esserci sempre, per essere una buona moglie e una fantastica madre. Per dimostrare al mondo che avevo tutte le ragioni per sposarti. Con impegno, concentrazione e fede potremo fare tutte le cose che vogliamo. Probabilmente questo è il momento giusto. Probabilmente dio stava aspettando i dieci anni del nostro rapporto e da ora le cose cominceranno a funzionare. Dobbiamo avere fede e fare in modo che questo succeda. Che il nostro amore sia più forte, perché il mondo ci prenda sempre come esempio”.
Poi ha postato un messaggio su Facebook per ricordare l’anniversario e ha pubblicato qualche foto di famiglia. Sotto si sono accumulate 42 reazioni dei suoi contatti: congratulazioni, benedizioni e auguri. Poi un breve messaggio interrompe la sequenza: “Lui non c’è più”. Il commento successivo dice semplicemente “Rip” e un altro chiede come mai il suo nome è sui giornali messicani.
Antoinette ha saputo così che suo marito era morto. Così l’ha saputo anche Cecilia Ngu, 25 anni, poliziotta residente a Minneapolis, in Minnesota, negli Stati Uniti. Senza sapere esattamente dove andare, Cecilia Ngu è volata in Chiapas per cercare il fratello.
Il narcocorrido di Ocós
Vado a Ocós perché so che lì i migranti s’imbarcano per arrivare in Messico. Da anni non sento storie di trafficanti di esseri umani o di centroamericani imbarcati in quella zona, e voglio verificare che quella rotta esista ancora.
Ci sono solo due modi per arrivare a Ocós: via terra, passando dall’unica strada che scende da Tecún Umán, o sulla chiatta galleggiante che trasporta noi e la nostra macchina da La Blanca, attraverso il fiume Naranjo.
Víctor Peña, il fotografo, fa del suo meglio per manovrare la macchina fotografica con discrezione una volta scesi sulla riva occidentale del fiume. Siamo in terra di narcotrafficanti.
Ci addentriamo nelle piantagioni di banane fino a quando non imbocchiamo una strada che non è segnata sulle mappe e che corre lungo il fiume Suchiate, così stretta e irregolare da rendere difficile il passaggio. La strada finisce vicino alla foce del fiume, accanto a un agglomerato di case ribattezzato Los Faros perché lì si trovano gli ultimi due fari dell’America Centrale: due blocchi rettangolari di cemento dipinti come una bandiera guatemalteca. Lì finisce anche il piccolo centro urbano di Ocós, con le sue case vuote allineate davanti al mare e il suo silenzio sospetto.
Ocós è una spiaggia senza villeggianti. Un paese fantasma. Il silenzio e la calma che regnano qui non invitano alla contemplazione. Nella stagione delle piogge il mare è una distesa di fango contaminata dalle acque in piena dei fiumi Naranjo e Suchiate. Camminiamo un paio di chilometri su una lingua di sabbia dove si riesce a passare quando c’è la bassa marea, fino alla foce del fiume Suchiate. Non vedo segni di vita sulla spiaggia: nessun granchio, lumaca di fiume o di mare né stelle marine. Nulla. La cosa più vicina alla vita in cui m’imbatto sono i tronchi e i rami che il fiume ha riportato a terra, e il cadavere di un cucciolo di cane che deve essere annegato tra le onde violente, pochi minuti prima del mio passaggio.
Evito un mucchio di spazzatura composto da bottiglie di bibite e acqua, siringhe, vetri, scarpe, sacchetti e ogni sorta di prodotti di plastica. Un nota curiosa: anche la prima spiaggia di Panamá, La Miel, dall’altra parte dell’istmo, è un tappeto di spazzatura risputata dall’acqua. L’America Centrale comincia e finisce con una discarica.
Le case sulla spiaggia di Ocós sembrano vuote, ma a uno sguardo più attento si notano segni di vite sospettose: alcune delle case circondate da alte mura sono sovrastate a ogni angolo da torrette di cemento con una minuscola feritoia; lì ci sono degli occhi che ti seguono. E anche delle videocamere, se gli occhi non bastano. Per molti anni questi sono stati i territori di Juan Ortiz López, noto come Hermano Juan o Chamalé, uno dei narcotrafficanti più potenti della regione. Cominciò trasportando i migranti in Messico sulle zattere che attraversano il fiume Suchiate e poi si dedicò al contrabbando di merci tra i due paesi, due attività tradizionali alla frontiera. Quando fu catturato, nel marzo del 2011, Chamalé era uno dei principali trafficanti di cocaina, il capo della succursale guatemalteca del cartello messicano di Sinaloa.
Il sistema funzionava così: gli aerei carichi di droga in arrivo dall’Ecuador, dal Venezuela o dalla Colombia lanciavano i pacchetti di cocaina in mare; i piloti delle barche di Chamalé li facevano arrivare a Ocós. Da lì la droga era inviata in Messico su un’altra imbarcazione o trasportata via terra fino a Tecún Umán.
Quando si seppe dell’arresto di Chamalé, centinaia di guatemaltechi che vedevano in lui un benefattore protestarono davanti alla corte suprema di giustizia, nella capitale, chiedendo la sua liberazione. Prima di lui era stato arrestato il suo socio Mauro Ramírez, soprannominato Lobo de mar, lupo di mare. Entrambi sono stati estradati e processati negli Stati Uniti. Dopo l’arresto di Chamalé il cartello di Ocós si sciolse, senza scomparire del tutto: una piccola parte delle attività del cartello è stata portata avanti da Wilson Wilfredo Luarcas, soprannominato El Primazo, responsabile della sicurezza di Lobo de mar, che era già stato estradato. Luarcas si limitava a coordinare le barche per recuperare la droga in mare e trasportarla fino a Tecún Umán. Da Tecún Umán al Messico il trasporto era gestito da altre persone.
El Primazo è stato arrestato all’inizio del 2020 e lui stesso ha chiesto di essere estradato negli Stati Uniti, sostenendo che in carcere un altro detenuto voleva ucciderlo. Il detenuto è soprannominato El Taquero, cioè quello che prepara i tacos di carne, per la sua abilità con il coltello. Anche se lui non ha mai cucinato neanche un uovo sodo.
Un giorno di marzo Donis, il fratello del Primazo che faceva da collegamento a Tecún Umán, ha attraversato la frontiera con il Messico per andare a pranzo. Quattro sicari lo hanno ucciso. Il video dell’omicidio è circolato molto in Guatemala. Nonostante tutto, a Ocós è rimasta in piedi una piccola organizzazione che si occupa delle imbarcazioni.
L’altra rete criminale di Ocós, quella dei trafficanti di migranti, è stata smantellata nel 2015. Parlo con un procuratore guatemalteco che ha partecipato a quell’operazione. “Siamo arrivati via mare, via aria e via terra, perché quella zona è molto pericolosa. È stata un’operazione congiunta di polizia ed esercito”, dice. “C’è una sola strada di accesso, e tutti nel paese hanno saputo dell’operazione appena abbiamo superato Tecún Umán. Sembrava un film: siccome non sapevano chi stavamo cercando, abbiamo incrociato la metà del paese che scappava in macchina”.
La banda di trafficanti di esseri umani gestiva due alberghi in cui i migranti alloggiavano in attesa delle condizioni giuste per navigare. Nell’operazione sono state arrestate dodici persone.
Rigare dritto
Non sappiamo se ci sia ancora traffico di migranti a Ocós, ma sappiamo che il narcotraffico continua. Me lo spiega un giornalista locale: “Quando vengo a sapere che ci sono dei morti a Ocós, aspetto mezz’ora”.
“Perché?”, chiedo.
“Se nessuno mi ha chiamato dopo mezz’ora, allora vado”.
“Chi ti chiama?”.
“I narcotrafficanti. Mi chiamano per dirmi di non parlare del morto. E se fai il giornalista da queste parti, sai che non conviene andare”.
“Ti hanno chiamato molte volte?”.
“Quattordici”.
Passiamo i primi quattro giorni a Ocós a cercare le imbarcazioni, ma non troviamo nulla. Il quinto giorno entriamo in contatto con una persona del posto che chiamerò Luz e che, per ovvie ragioni, vuole restare anonima. L’esperienza che sto per raccontare mi ricorda quegli enormi modellini con i trenini elettrici che girano in tondo attraversando un villaggio e perdendosi tra le montagne prima di tornare; modellini con dei pulsanti sul perimetro che, quando li premi, accendono luci in posti che non avevi notato. Un pulsante accende una luce nella taverna dove due marinai bevono birra; un altro illumina una caverna su una montagna da cui una tigre controlla la valle. Premi un altro pulsante ancora e, all’interno della stazione, si vedono i passeggeri che trascinano le valigie o comprano i biglietti. Tutte cose che prima non vedevi.
Luz preme uno dopo l’altro i pulsanti di Ocós. “Vedete quelle macchine che arrivano? Quella davanti è di un narcotrafficante, quella dietro è della sua guardia del corpo. Quella strada a destra porta a un’altra strada che corre lungo il fiume. Lì è meglio non andare. Siete già andati? Ah. È una discarica di cadaveri. Le barche a motore? Non le avete viste? Venite, ve le faccio vedere io”, dice.
Luz ci porta su un ponte che passa sopra una piccola palude. Lì ci fermiamo. Luz indica verso sud, a circa dieci metri di distanza. “Vedete quei cespugli? Dietro l’albero. Le vedete?”. Sì, le vediamo. Le barche sono lì. Si vedono a malapena, bianche e azzurre. Imbocchiamo uno stretto sentiero sterrato davanti al municipio e arriviamo al punto di attracco. Tre ragazzi a torso nudo riposano, sdraiati ai piedi di un albero. Uno fuma. Quando ci vedono arrivare saltano in piedi, e uno di loro fa una telefonata. Rimaniamo lì un paio di minuti, senza scendere dall’auto. Facciamo inversione per andarcene e vediamo una macchina nera venirci incontro. Accosta per lasciarci passare. Noi ce ne andiamo.
“È come la Colombia di Pablo Escobar. Se non fai il bravo ti sparano. Se righi dritto ti danno una mano”, spiega Luz.
“Cosa significa rigare dritto?”, chiedo.
Quella strada a destra porta a un’altra strada che corre lungo il fiume. Lì è meglio non andare. Siete già andati? Ah. È una discarica di cadaveri
“Non dare fastidio. Tu non dai fastidio a loro, loro non danno fastidio a te”.
Proseguiamo il nostro giro. Passiamo davanti a grandi edifici deserti che Luz ci illustra uno a uno. Quella casa era di una donna, una pastora evangelica. È stata arrestata per traffico di stupefacenti. Sotto la sua chiesa c’era una cantina piena di droga. L’edificio di tre piani lasciato a metà davanti alla piazza apparteneva a una donna arrestata per riciclaggio di denaro sporco. Voleva costruire un megaristorante.
“E il ristorante davanti alla spiaggia, quello con le porte aperte, dove non abbiamo visto mangiare nessuno in cinque giorni?”, chiedo.
“Quello è di doña Edilma”.
“Ma è vuoto”.
“Sì. Non ci sono cuochi, camerieri né clienti. Qui funziona così”.
“Però la porta è aperta”.
“E a chi dovrebbero rubare? A doña Edilma?”.
Edilma Navarijo è stata sindaca di Ocós quando il comune comprendeva anche La Blanca, tra il 2008 il 2016. Lei e il marito, Carlos Preciado, fecero fortuna negli anni precedenti al loro ingresso in politica. A Ocós c’è chi li ricorda da fidanzati: lui in sella a una vecchia bicicletta, a piedi nudi, lei seduta sulla canna della bici. Gli anni di ricchezza gli hanno permesso di comprare terreni, costruire case e fare affari.
Verso il 2007 Edilma Navarijo de Preciado cominciò una relazione extraconiugale con un uomo che aveva già una pessima reputazione in Guatemala: Víctor Soto Diéguez, capo del nucleo investigativo della polizia nazionale civile, coinvolto nel massacro dei detenuti nel carcere di Pavón e accusato di aver occultato le prove dell’omicidio di tre deputati salvadoregni nel parlamento centroamericano. Quando cominciò quella relazione, Soto Diéguez andava spesso a Ocós.
Nei tradizionali punti di sbarco dei migranti a Ciudad Hidalgo oggi ci sono le postazioni della nuova guardia nazionale
Il rapporto extraconiugale divise la famiglia Preciado Navarijo al punto che Carlos, il figlio maggiore di Edilma e di Carlos Preciado, si presentò alle elezioni comunali candidandosi contro la madre. Vinse lei. Poco dopo, in un episodio che dev’essere ancora chiarito dai tribunali, il marito della sindaca e un altro dei figli della coppia furono uccisi in una sparatoria. Anche Soto Diéguez fu ferito. A Ocós tutti dicono che il responsabile della morte dei Preciado sia il capo della polizia.
Vivian Preciado, la figlia della sindaca e del defunto marito, è stata arrestata per aver nascosto Soto Diéguez, il presunto assassino del padre. Il capo della polizia non ha pagato per quel crimine, ma poi è stato condannato a 33 anni di carcere per omicidi extragiudiziali nella prigione di Pavón. Da allora Edilma Navarijo va a trovarlo spesso in prigione a Città del Guatemala.
Luz ci mostra la casa di Edilma Navarijo: “Lei era qui con Soto quando arrivò il figlio, Carlos, e sparò contro la casa. Soto perse le staffe e andò a casa loro. Andiamo a vederla. Carlos vive sempre lì. Eccola. Dicevo: venne qui con i suoi uomini e anche lui sparò. Sembra che fosse in corso una riunione familiare. Uccise il marito di Edilma e un altro figlio”. Gli chiedo se i giornali o i telegiornali parlarono dell’episodio. Mi dice di sì. Quel giorno, a quanto pare, il giornalista locale riportò la notizia.
A gennaio 2020 Edilma Navarijo si è insediata come sindaca di La Blanca. Carlos, che ce l’aveva con lei, è stato eletto sindaco di Ocós. Vivian, la figlia accusata di aver nascosto Soto Diéguez, è deputata per il dipartimento di San Marcos. La famiglia Navarijo è la nuova dinastia politica di questo angolo di narcotrafficanti e aziende di banane.
Madre e figlia appartengono all’Unión del cambio nacional, un partito il cui candidato alla presidenza, Mario Estrada, è stato arrestato a Miami nell’aprile del 2019, due mesi prima delle elezioni presidenziali in Guatemala. La Drug enforcement administration (Dea), l’agenzia antidroga statunitense, ha registrato una riunione tra Estrada e alcuni emissari del cartello di Sinaloa. In caso di vittoria alle elezioni, il candidato aveva promesso di consegnare ai narcotrafficanti il controllo delle dogane e della polizia. In cambio voleva dodici milioni di dollari (10,9 milioni di euro) per finanziare la sua campagna elettorale e una piccola scorciatoia: chiedeva al cartello di Sinaloa di uccidere Thelma Aldana, la candidata presidenziale che era in vantaggio su di lui nei sondaggi. Per fortuna di Aldana, i narcotrafficanti erano agenti della Dea sotto copertura.
Due settimane prima di essere arrestato, Estrada aveva ricevuto nella sua tenuta il presidente Jimmy Morales.
Morales si è difeso dicendo che l’incontro serviva a coordinare una transizione pacifica e ordinata dopo le elezioni.
Ho provato a parlare con la deputata Vivian Preciado Navarijo e, attraverso di lei, con la madre Edilma. Ma non ho ottenuto nessuna risposta.
Siamo davanti alla casa del fratello Carlos, sindaco eletto di Ocós. Le finestre sono aperte e sembra che qualcuno si sia appena alzato. Bussiamo alla porta e suoniamo il campanello per più di dieci minuti. Non esce nessuno.
Domande
Erik Súñiga, detto El Pocho, è stato sindaco di Tecún Umán dal 2008 al dicembre del 2019. È morto a causa di una malattia ad aprile del 2020. Gli articoli del Periódico de Guatemala lo descrivevano come l’erede di Juan Chamalé e il padrino delle operazioni del cartello di Sinaloa nella regione. Insomma, come il boss.
Tutto quello che è illecito – droghe, contrabbando, traffico di migranti – passa da Tecún Umán. Súñiga aveva installato un sistema di videosorveglianza che registrava chi entrava e chi usciva dalla città, e controllava anche l’unica strada per Ocós. Non doveva preoccuparsi di avversari o rivali politici: non ne aveva neanche uno. E comunque la maggioranza degli abitanti lo apprezzava. Luz lo spiega così: “A Tecún Umán erano arrivate le gang e stavano dando molti problemi. Ma il problema è stato risolto. Ci ha pensato Erik. Ha anche pensato ai ladri. Oggi Tecún Umán è un posto sicuro”.
Nell’aprile del 2019 un tribunale del Texas aveva chiesto l’estradizione di Súñiga. “Ha agevolato e coordinato il trasporto di tonnellate di cocaina viaggiando per il Guatemala verso il Messico”, dice l’inchiesta della Dea che ha dato il via alla richiesta di estradizione. Ma in Guatemala i sindaci sono protetti dall’immunità. C’erano state delle inchieste su Súñiga, ma mai un processo.
Súñiga non si era potuto presentare per essere rieletto sindaco perché il tribunale supremo elettorale aveva annullato la sua candidatura a causa della richiesta di estradizione. Ma era successo qualcosa di degno di un narcocorrido (le canzoni che celebrano i boss del narcotraffico): siccome non c’era tempo per sostituirlo, la sua candidatura era rimasta vacante. Non c’era stato neanche il tempo di ristampare le schede elettorali eliminando il suo nome. Gli elettori sapevano che lui non era più in corsa e che gli Stati Uniti lo avevano accusato di narcotraffico, ma tutti avevano votato per lui.
Súñiga non c’è più, ma i suoi fedeli sono rimasti.
Lasciamo Ocós convinti che la rotta marittima dal Guatemala non esista più. Sembra che le frontiere, dinamiche e mutevoli per adattarsi alla realtà creata dai nuovi flussi migratori, dalla criminalità organizzata e dalle decisioni politiche, si siano spostate di nuovo.
In Messico molti migranti mi raccontano di aver attraversato il fiume quasi in assoluta libertà, a bordo delle solite chiatte. Lo vedo con i miei occhi quando attraverso il ponte in direzione di Tapachula. Nei tradizionali punti di sbarco dei migranti a Ciudad Hidalgo oggi ci sono le postazioni della nuova guardia nazionale. Servono semplicemente a evitare che i migranti sbarchino lì. Attraversano il fiume un po’ più su, dove la guardia nazionale non arriva, perché da qualche parte devono pur lasciarli passare. È da lì che sono passati Emmanuel Ngu, Forché Takwi, Atabong Michael Atembe e i tremila africani che ho incontrato a Tapachula.
Ma se i camerunesi si trovavano già in Messico, dove si sono imbarcati Ngu, Atembe e il terzo uomo morto affogato? Perché sono saliti su un’imbarcazione che li avrebbe trasportati per ore, di notte, su un mare agitato? Mi sono fatto queste domande quando ho saputo dell’incidente a Puerto Arista. Mentre attraversavo il ponte di Tecún Umán ed entravo in territorio messicano, due giorni prima, non pensavo di scrivere di migranti camerunesi e non avevo mai sentito questi nomi: Atabong Michael Atembe. Emmanuel Cheo Ngu. Emmanuel Cheo Ngu.
La nuova rotta
Il 12 ottobre 2019 quasi tremila migranti sono partiti in carovana da Tapachula diretti a Città del Messico. Hanno camminato in direzione di Oaxaca, fianco a fianco, cittadini salvadoregni, honduregni, camerunesi, haitiani, ghaneani, cubani, mauritani, congolesi, venezuelani, sierraleonesi, angolani, eritrei.
Hanno detto di aver preso ispirazione dai centroamericani che un anno prima avevano marciato in massa verso la frontiera con gli Stati Uniti. Ma nel 2018 il Messico era diverso. Se all’epoca il governo del presidente Andrés Manuel López Obrador predicava ancora l’umanità e la solidarietà nei confronti dei migranti centroamericani, offrendo permessi di lavoro per tutti, nel 2019 quello stesso governo ha trasformato la frontiera meridionale nel muro di Donald Trump, pagato dai messicani. E ha creato la guardia nazionale per impedire il passaggio dei migranti.
Tutte le strade che escono da Tapachula, a eccezione di quella che porta in Guatemala, sono sorvegliate dalla guardia nazionale e dalla polizia federale. Qui c’è la nuova frontiera tra il Messico e l’America Centrale.
Le forze di sicurezza hanno bloccato la carovana a Huixtla. Hanno arrestato centinaia di persone, e le altre sono state obbligate a tornare nelle tende del centro per migranti, in balìa delle inondazioni, a due chilometri a piedi dal fiume in cui vanno a lavarsi, orinare e defecare, perché il governo messicano non gli ha fornito neanche dei bagni chimici. Un posto dove dipendono dalle organizzazioni non governative per mangiare e vestirsi, dove tutti i giorni sono insultati e rifiutati da una città la cui capacità di accogliere i migranti è stata ampiamente superata, dove neanche loro vorrebbero stare, perché la loro meta è un’altra.
“Personalmente non sono stupito dalla corruzione, dai trafficanti o dai migranti. Quello che mi sorprende è l’odio contro i migranti”, dice Luis García Villagrán, direttore del Centro di documentazione umana, un’organizzazione che si occupa della difesa dei migranti. Secondo lui, a Tapachula ci sono circa cinquantamila migranti, pari al 10 per cento della popolazione locale. Cinquantamila stranieri e neanche un turista.
Ngu è stato visto al centro per migranti pochi giorni prima del naufragio. Poi una mattina è sparito.
“Era diretto a Puerto Madero. È lì che s’imbarcano”, mi dice un camerunese. Lo stesso posto citato a Puerto Arista da un procuratore del Chiapas che indaga sulla morte degli africani è indicato come punto di imbarco anche dai giornali locali che hanno parlato del naufragio. Puerto Madero, Chiapas, Messico: è quello il punto iniziale della nuova rotta marittima.
Ad appena trenta chilometri da Tapachula, accanto a una base navale messicana, Puerto Madero è un paesino di pescatori e ristoranti deprimenti dove si può mangiare pesce fritto e fare il bagno in una pozza che loro chiamano piscina. Andiamo nelle due cooperative di pescatori del posto. Nella prima centinaia di pinne di squalo sono state messe a essiccare al sole su un telo di plastica nero. I pescatori sostengono di non sapere nulla del naufragio di cui parla tutta la costa del Chiapas. Anzi, non hanno mai visto un africano a Puerto Madero né altrove. Non hanno mai visto un africano. Non hanno mai visto un nero.
Mentre siamo lì, non incontriamo poliziotti, procuratori, agenti della polizia migratoria o della guardia nazionale.
Il giornale messicano Animal Político ha svelato che i sopravvissuti del naufragio sono stati trasferiti dalle autorità messicane a Tuxtla Gutiérrez, la capitale dello stato, e chiusi in una struttura nota come La Mosca. Un difensore dei migranti che ha parlato con i sopravvissuti ha detto al giornale che nessuno di loro ricordava il nome del porto dove si erano imbarcati.
Dall’altra parte del mondo
Il 14 ottobre ho contattato Cecilia Ngu, la sorella di Emmanuel. Stava per prendere il suo volo in compagnia del cognato, Walters Feh. Abbiamo deciso di vederci a Tuxtla. Prima di salutarci mi ha detto: “Non creda a quello che dicono i giornali messicani. Ho visto le foto. Quel cadavere non è Emmanuel Cheo Ngu. Quello non è mio fratello”.
Quando sarà possibile, Cecilia vorrebbe seppellire il fratello nella terra in cui è nato con un pugno di terra del luogo in cui è morto
Quando è atterrata a Tuxtla Gutiérrez, Cecilia Ngu aveva sul cellulare un articolo di un giornale di Oaxaca. Anche il terzo morto, trovato il 12 ottobre sulla spiaggia di Cachimbo, nello stato di Oaxaca, era stato identificato dalle autorità come Emmanuel Cheo Ngu. Un cadavere in Chiapas e uno a Oaxaca erano stati registrati dalle autorità dei due stati come la stessa persona. Ma Cecilia non aveva bisogno di dati ufficiali: le foto dell’uomo di Oaxaca erano senza dubbio quelle del fratello. Emmanuel Cheo Ngu era il terzo morto. Non il primo.
Cecilia Ngu e Walters Feh sono saliti in macchina a Tuxtla e insieme siamo partiti alla ricerca del cadavere di Emmanuel. “Non mi aveva mai detto di aver lasciato il Camerun. Negli ultimi mesi parlavamo su WhatsApp, ma non mi aveva detto nulla”, racconta Cecilia. “Ora so che stava venendo a Minneapolis da noi. Se l’avessi saputo non l’avrei mai lasciato salire su quella barca. Siamo gente di montagna, non abbiamo mai avuto niente a che fare con l’acqua. Emmanuel non sapeva nuotare”.
Cecilia Ngu è voluta andare a Cachimbo per rispettare una tradizione camerunese: quando sarà possibile, vorrebbe seppellire il fratello nella terra in cui è nato con un pugno di terra del luogo in cui è morto. Un temporale ci ha impedito di andare oltre Ixhuatán. Cecilia ha dovuto accontentarsi di prendere un po’ di terra bagnata del paese più vicino al luogo in cui il fratello ha perso la vita.
Abbiamo saputo che il cadavere di Emmanuel Cheo Ngu era stato trasferito a Ixtepec, un comune di Oaxaca di passaggio per i migranti. Abbiamo dormito lì. La mattina siamo andati al cimitero dove gli avevano fatto l’autopsia. Non abbiamo avuto fortuna. Poche ore prima era stato affidato a un’impresa di pompe funebri private perché a Ixtepec non c’era una cella frigorifera. Il cadavere si stava decomponendo alle intemperie.
La procura per l’assistenza ai migranti di Ixtepec, sotto la cui autorità si trovava il corpo di Emmanuel Ngu, ci ha confermato che il cadavere era stato trasferito in un’impresa di pompe funebri di Matías Romero, nello stato di Oaxaca, a settanta chilometri di distanza. Prima di andarcene, hanno fatto vedere a Cecilia alcune foto del cadavere di suo fratello scattate sulla spiaggia. Per la prima volta in tutto il viaggio, la poliziotta ha dato segni di turbamento. Ha riconosciuto subito il fratello in quel corpo gonfio, decomposto e segnato dal pallore della morte. Cecilia era arrivata appena in tempo per salvarlo dal suo ultimo abbandono: una fossa comune. Abbiamo preso la strada per Matías Romero.
L’impresa di pompe funebri Reysan, a Matías Romero, sembra uscita da una fantasia del regista David Lynch. L’ingresso è decorato con nastri arancioni e neri, zucche, elfi di plastica, spaventapasseri e streghe. Accanto alla porta, un procione incatenato lotta per muoversi oltre il raggio di un metro che gli consente la sua catena. Dentro, una sedia a dondolo di legno che ha vissuto anni migliori e due sedie di plastica fanno le veci di una reception davanti a due file di bare. Una scimmia zoppicante cerca di muoversi tra le poltrone della sala. Alcuni pappagalli chiusi in due gabbie mandano su di giri la scimmia.
Le pompe funebri sono anche la residenza della proprietaria, Araceli Valdivieso. Vivere in una zona di passaggio l’ha resa una specialista in migranti. Quando un centroamericano muore o è ucciso nella zona, spesso è lei che si occupa di trasferire i resti nel paese di origine. Ci ha raccontato che il giorno dopo sarebbe partita per il Nicaragua con il cadavere di un migrante ucciso per amore di una donna. Ma una cosa è portare un cadavere in macchina in Nicaragua, un’altra è l’Africa.
Cecilia e Walters Feh sono entrati nella stanza in cui era stato preparato il corpo di Emmanuel Ngu. Cecilia ha cercato le cicatrici nel cadavere deforme davanti a lei. Ed erano lì, il marchio della ferita sulla caviglia destra e l’unghia che non gli era più ricresciuta sull’alluce del piede sinistro: i segni della violenza a Bamenda che l’avevano spinto a intraprendere il suo ultimo viaggio. Le ragioni della sua fuga erano ancora visibili in un corpo per il resto quasi irriconoscibile, in una strana impresa di pompe funebri di un paesino messicano dall’altra parte del mondo. Un morto solitario.
Soli davanti al defunto, in famiglia, Cecilia e il cognato hanno riprodotto i messaggi vocali che altri parenti avevano mandato per dire addio a Ngu, per dirgli che lo aspettavano a casa, che sarebbe tornato laggiù, nel paese che lo aveva visto nascere e crescere e che l’aveva cacciato. Erano pronti ad accoglierlo quando sarebbe tornato. In una bara fornita da Araceli Valdivieso.
Prima di lasciare le pompe funebri, i familiari di Emmanuel Ngu hanno detto che avrebbero avuto bisogno di tempo per pagare il trasferimento del cadavere. Araceli Valdivieso li ha tranquillizzati: “Può restare qui tutto il tempo necessario. Ho cadaveri che sono qui da otto anni”, ha detto. Poi ha proposto di cremarlo. È più economico trasferirlo in un’urna, e la trafila burocratica è più veloce. Ma Cecilia ha rifiutato: “Siamo abituati a sotterrare i nostri morti. Nessuno a Bamenda crederà che delle ceneri siano i resti di mio fratello”. Siamo tornati alla procura di Ixtepec per il certificato di morte. Lì ho salutato la sorella e il cognato di Emmanuel Ngu.
La lista
Ho chiamato Cecilia Ngu a Minneapolis più di un mese dopo. Il cadavere di Emmanuel era ancora alle pompe funebri Reysan a Matías Romero, bloccato per problemi burocratici. Le ho chiesto se sapesse qualcosa di più del naufragio. “No. Speravo che le autorità messicane mi facessero parlare con i sopravvissuti. Solo loro sanno cos’è successo. Ma non me l’hanno permesso”, ha detto.
Sembra che la rotta marittima in cui sono morti i camerunesi sia stata chiusa, almeno per ora. Le rotte dei migranti stanno di nuovo cambiando. Non solo lì: dieci giorni dopo che Emmanuel e suo cugino Takwi sono atterrati a Quito, il governo ecuadoriano ha annunciato che i camerunesi e i cittadini di altri undici paesi africani avranno bisogno del visto per entrare in Ecuador.
Il 22 ottobre vari giornali messicani scrivevano che il direttore dell’Istituto nazionale di migrazione del Messico, Felipe Garduño, aveva inaugurato una mostra fotografica in omaggio ai migranti, che per più di un secolo hanno dato il loro contributo alla vita del Messico. Gli hanno chiesto dei migranti africani bloccati a Tapachula: “Anche se fossero marziani: tutti espulsi! Li manderemo in India, in Camerun, fino in Africa”, ha detto Garduño. E ha inaugurato la mostra.
Ci sono voluti due giudici del Chiapas per frenare le minacce interplanetarie di Garduño. In risposta a sei denunce presentate da 350 migranti africani, hanno concluso che il Messico non ha rispettato la legge impedendo il libero movimento oltre il Chiapas. Inoltre, poiché avevano lo status di apolidi, lo stato messicano doveva proteggerli. La sentenza ha creato un precedente legale che copre non solo chi ha sporto denuncia, ma anche tutti gli africani bloccati a Tapachula. In meno di tre giorni, il Messico ha concesso duemila permessi di soggiorno permanenti.
Devo raccontare un’ultima cosa: ho visto la lista degli africani che hanno fatto causa contro lo stato messicano. Uno dopo l’altro hanno inserito i loro nomi in un elenco numerato. Il 112 corrisponde ad Atabong Michael Atembe. Ha firmato sei settimane prima di morire. È il secondo morto affogato.
Il nome di Emmanuel Cheo Ngu non compare sulla lista. Ma è lecito supporre che, se fosse vivo come i duemila africani che oggi hanno un permesso di soggiorno permanente, il professore di Bamenda avrebbe chiamato Antoinette e le avrebbe raccontato, con la sua voce calma e ottimista, che era pronto a continuare in sicurezza il suo tragitto verso nord.
Detto così, però, si potrebbe credere che i tre camerunesi siano stati uccisi dall’impazienza. È più giusto puntare il dito contro la responsabilità dello stato messicano, in linea con la sentenza dei giudici: sono morti perché le autorità messicane non hanno rispettato le loro stesse leggi. Se le avessero rispettate, invece di piegarsi alla politica del presidente degli Stati Uniti, né Atabong Michael Atembe né Emmanuel Cheo Ngu né l’altra vittima che il Chiapas ancora pensa che si chiami Emmanuel Cheo Ngu avrebbero avuto bisogno di salire su una barca. E oggi tutti e tre sarebbero ancora vivi.◆ fr
Carlos Dada è un giornalista del Salvador. Nel 1998 ha fondato El Faro, il primo quotidiano online dell’America Latina, specializzato in giornalismo investigativo. Questo articolo fa parte di un reportage in sei puntate nato dalla collaborazione tra El Faro e il quotidiano spagnolo El País.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati