Write this. We have burned all their villages.

Write this. We have burned all the villages and the people in them.

Write this. We have adopted their customs and their manner of dress.

Michael Palmer, Sun_, Codes Appearing, 233_

“Sono arrivata qui vent’anni fa”, risposi a voce bassa mentre fingevo di non vedere il suo intenso sguardo azzurro. Lui non mi credeva. O almeno così immaginavo: che non mi credesse, per questo gli dissi anche che ero arrivata a dorso d’un asino grigio, con pochi viveri e un paio di quaderni. Lui si mise allora un filo d’erba tra i denti e rimase in silenzio. L’accenno di un sorriso tra le sue labbra. Il cielo azzurro come i suoi occhi. Il vento.

“E da allora ti vesti da uomo?”.

Ricordai come mi aveva presa: con violenza. Una brama sperduta in ogni mano. Un rancore molto intimo. Le sue dita come apriscatole nella mia bocca. Quanto tempo che non vedevo un artefatto come quello! Ricordai l’aroma del suo sudore: vagamente carnivoro. E l’amaro sapore delle sue guance. Gli dissi, ancora china sull’acqua del fiume, ancora fingendo di non vedere il suo intenso sguardo azzurro, che vivere da sola era meglio nei panni di un uomo. Non mi chiese perché lo dicevo. Prese la piccola tracolla di pelle e si allontanò. Contai i suoi passi senza voltarmi a guardarlo. Al numero ventitré, lui esitò. Fece per voltarsi.

“Mi aspetterai?”, chiese.

Gli risposi di sì, ancora china sull’acqua del fiume. Affondai la mano nella corrente e ne estrassi una piccola pietra rotonda e liscia. Me la misi davanti come fosse uno specchio. Poi la riposi nella tasca destra dei pantaloni. Immaginavo di voler ricordare quel pomeriggio. Immaginavo che la pietra fosse al posto del forestiero.

Non seppi mai perché avevo menzionato quella cifra: vent’anni. Né sapevo perché mi aveva fatto promettere di aspettarlo.

Prima di scegliere il mio destino, avevo letto su di loro. Un libro strano, a metà tra la storia e la leggenda. Un libro in una biblioteca di città. Lo lessi senza posa, come facevo sempre all’epoca. Inumidivo la punta dell’indice e sfogliavo una pagina dopo l’altra, dimenticandomi perfino di mangiare. Di solito mi fermavo solo per bere dell’acqua ma, immobile davanti al lavandino, in realtà non la bevevo: mi limitavo a poggiare l’orlo del bicchiere sulle labbra per poi distrarmi di nuovo. Qualcosa di urgente mi chiamava dall’altro lato della stanza, e io rispondevo. Prima di chiudere il libro, l’avevo già deciso: me ne sarei andata da lì, dalla cucina e dalla biblioteca e dalla città. Sarei diventata un’altra. Una di loro. È difficile spiegare perché uno fa le cose che fa. Ma tutto avvenne proprio come nei libri: mi allontanai e, senza neanche pianificarlo, arrivai in un villaggio dove c’era bisogno di uomini. Mi offrii di lavorare. Indossai i miei vestiti nuovi e m’impegnai a una vita di castità. E loro, che erano così pochi, chinarono la testa al mio passaggio.

Il forestiero apparve un mezzogiorno alla mia porta. Non veniva a dorso d’asino, come me un tempo, ma sul sedile piuttosto malridotto di un veicolo militare. Un parabrezza schizzato di fango. Quattro grosse ruote. Un tettuccio di tela strappata. Le lettere sulla portiera mi risultavano incomprensibili, ma non la lingua che usò per rivolgersi a me. Mi chiese dell’acqua e, poiché io rimasi immobile, aprì la borraccia e la capovolse.

“Mi capisci?”, ripeteva, sempre più esasperato. “Ho bisogno d’acqua”.

Era molto tempo che non vedevo qualcuno come lui. I suoi gesti, così infantili, così innecessari, mi commuovevano. Immaginai che avesse paura di morire.

“Da dove vieni?”, gli chiesi, cercando di farlo sentire meno a disagio, lì, sulla porta. Forse cercavo fin da subito di dissuaderlo, di distrarlo. Non ho mai saputo come sbarazzarmi della gente. Quando ebbe un sussulto che cercò di mascherare capii che non riusciva a vedermi bene. Come tutte le case di montagna, la mia era piccola e buia. Più tardi lui l’avrebbe chiamata “la catapecchia”. Fredda d’estate, calda d’inverno. Per questo le nostre case sono fatte così.

“Ma sei una donna”, sussurrò, incredulo e divertito insieme.

Il suo corpo copriva il sole, così nemmeno io riuscivo a vederlo bene. Non seppi cosa rispondere. Allora lui attraversò la soglia. Una falcata lunga e voluminosa. E io tardai molto a reagire.

Parlò della guerra. Quando finì di bere l’acqua a grandi sorsi, si asciugò la bocca con la manica della camicia e si sedette a tavola. Chiese da mangiare. Ne chiese ancora.

“Cos’è?”, domandò quando sentì il suono delle campane.

“Una messa”, dissi mentre gli posavo davanti un piatto con pezzi di carne. “Qualcosa di funebre”, mormorai poi.

Mangiò come qualche minuto prima aveva bevuto: con urgenza. Voracemente. Prendeva il cibo con le mani e se lo portava alla bocca senza voltarsi a guardare nient’altro. Poi masticava e deglutiva rumorosamente. Poi si leccava le dita.

Quando fu sazio, cominciò a parlare. Accese una pipa e parlò, senza sosta, della guerra. Le parole gli uscivano di bocca come prima era entrato il cibo: a fiotti. Contò gli anni. Vide l’adolescente che era stato, meditabondo e sereno. Sentì gli spari, l’eco degli spari. Ebbe sete. Un sole spietato tornò a raggrinzirgli la pelle, ad accecargli gli occhi, a seccargli le labbra. Ingoiò terra. Desiderò appassionatamente il sapore del sale sulla lingua. Si lasciò incantare dal colore del fuoco. Camminò per notti intere, salendo e scendendo dalle colline, zuppo di urina e di paura. Premette il grilletto. Chiuse gli occhi e premette il grilletto. Molte volte.

“Tu non hai idea di cosa sia”, disse. E poi, senza aspettare risposta, continuò. Il freddo. La sporcizia. L’odore della carne che marcisce. La morte. Fu come se rivivesse tutto questo. Un minuscolo corpo sotto l’assurdo cielo aperto.

“Non si è mai più vulnerabili di quando si è sotto il cielo”, assicurò.

Gli offrii del liquore perché sembrava averne bisogno. Il rumore della bottiglia che si posava sul legno lo fece tornare in sé. Si voltò a guardarmi. Dovette chiedersi chi ero, cosa ci facevo qui, dov’eravamo in realtà, ma non formulò nessuna domanda. Bevve il liquore a piccoli sorsi. Poco dopo cadde addormentato sul tavolo.

Ogni bosco ha sempre dentro di sé un altro bosco. Quello che c’è dentro è il mitico bosco incantato delle fiabe. Vivere nel bosco di fuori, però, non è facile. La vita in montagna richiede sforzi, disciplina, abnegazione. Necessita, soprattutto, di mani abili. E può sempre far comodo una testa salda, ben piantata sulle spalle, abituata alla solitudine. Bisogna tagliare alberi, seminare la terra, usare l’acqua gelida dei fiumi. Possono scoppiare degli incendi. Ci sono orsi e aquile e altri animali temibili. A volte, verso la fine dell’inverno, tutto si copre di neve. E bisogna camminare nella neve, avanzare. È bello, a volte, sentire i rami scricchiolare. È bello camminare sulle foglie secche, lentamente. A volte si sospira. A volte tutto si ferma. Ma c’è soprattutto lavoro, nel bosco, molto lavoro. Le fiabe ne parlano raramente.

“E riesci a fare tutto da sola?”, mi chiese poi.

Gli dissi la verità: risposi di no. Che non riuscivo a fare tutto da sola. E lui si accontentò della mia ri­sposta.

“Vengono ad aiutarti gli uomini della zona?”.

“Quando io aiuto loro”, gli dissi anche, in tono di sfida. O almeno mi sembrava che il tono della mia voce fosse quello.

Quando fu sazio, cominciò a parlare. Accese una pipa e parlò, senza sosta, della guerra. La parole gli uscivano di bocca come prima era entrato il cibo: a fiotti. Contò gli anni. Vide l’adolescente che era stato, meditabondo e sereno

Tornò sull’argomento molte volte, ogni volta da una prospettiva diversa, come se non riuscisse a chiedermi quello che davvero voleva chiedermi.

“Ogni bosco ha dentro di sé un altro bosco”, mormorai quando lui si alzò dal letto e si mise alla finestra, come in attesa. Rimase fermo lì a lungo, immobile. Quando si voltò a guardarmi, io abbassai gli occhi. Poi mi coprii le spalle con la trapunta. Poi gli dissi:

“Non dovresti essere qui”.

Perché qualcuno prende un paio di quaderni e, dopo aver viaggiato a lungo su un autobus decrepito, scende in una provincia lontana e poi si muove a dorso d’asino per giorni e giorni fino ad arrivare, se si può, se una cosa del genere è possibile, nel luogo più remoto? Non lo so. Perché qualcuno sceglie un bosco? Non ho risposta nemmeno per questo. C’è il colore verde, ovviamente. L’abbondanza di verdi che fanno il colore verde. Bisogna imparare a guardare. C’è l’aria fresca e il cielo, questo, color azzurro cielo. La solitudine, c’è. La solitudine del cielo. Nessuno è mai inerme come quando sa di essere solo sotto il cielo. La possibilità di tacere per ore intere, per giorni interi, per mesi interi. La possibilità di dimenticare come si scrive. La possibilità di non parlare. Ci sono le mani che, protese, callose, secche e brutali, possono afferrare gli strumenti e tagliare, seminare, arare. C’è la voce: grave. L’eco, anch’essa grave. La possibilità di dire: “Abbiamo appiccato il fuoco a tutti i villaggi. Abbiamo appiccato il fuoco a tutti i villaggi e ai loro abitanti. Abbiamo adottato le loro abitudini e i loro vestiti”. La risata tra le pareti della chiesa durante i riti. Il lento camminare lungo la navata, lo stringere di mani, l’incessante chinare la testa. C’è il pianto delle creature alla nascita: una grave eco. Un’altra. C’è l’inizio: il bosco primordiale. Il bosco dentro il bosco. Quella promessa. Senti questa: c’è il fatto, incontrovertibile, che abbiamo appiccato il fuoco a tutti i villaggi e ai loro abitanti.

Non si può vivere nel bosco senza una teoria del bosco. Durante le sepolture, quando mi unisco alla processione funebre e poi quando osservo il volto del defunto nel feretro, è impossibile non chiedersi se ne vale la pena. Se tutto questo vale la pena. Il problema, come sempre, sono i bambini, gli anziani. Il problema sono sempre le persone più vulnerabili. Quelle che un bel giorno mollano il giogo e corrono a tutta velocità tra gli alberi in cerca di un po’ di luce. L’oscurità a volte è tanta sotto gli alberi. Il freddo. Il problema sono le persone che perdono la ragione. Uno rimane a osservare i sentieri scuri e si chiede che sapore avrà il liquore nella bocca dell’uomo che getta palate di terra su tutto questo. Il bosco significa: poco oltre, tutto è in fiamme. C’è una falena che vola a mezz’aria. La lama dello strumento ha tranciato la gamba. Cade la neve. La natura della neve è cadere. C’è stata neve prima, ce ne sarà poi. Il bosco sopravviverà a tutto questo. Tutto questo. Di fronte alle fiamme della casa che cade, il volto illuminato. Un idolo. La natura della casa è cadere. Il rumore dell’ascia. Presto scompariremo. C’è un’urgenza di andare verso l’albero. La gamba tranciata. Il rivolo di sangue nella neve. Un paio d’impronte.

Gli dissi che non passavo per una città da molti anni. L’ultima che avevo visto era quella che avevo abbandonato. Il ricordo delle sue luci mi obbligò a battere in fretta le ciglia. Poi scoppiai a ridere.

“Non sono mai tornata”, dissi, confermando l’ovvio. Poi sputai dall’angolo sinistro della bocca e diedi un altro colpo d’ascia sulla legna. Il rumore secco. L’odore di sudore. Il volo di un uccello. Il forestiero fece un passo indietro. Era la prima volta che lo faceva.

“Mostrami le mani”, ordinò, invece di chiedere. “Lo vedi?”, domandò con leggero sarcasmo, indicando le schegge e i calli e le unghie rotte. “Ridotta così non potresti mai vivere in città”.

M’infastidì la sua presunzione, soprattutto perché era falsa. M’infastidì che credesse che io volessi tornare un giorno. Che mi sarebbe interessato fare ritorno a tutto ciò. Una donna con le mani rosse. Una donna dei Carpazi. Per questo gli diedi le spalle e continuai a spaccare la legna in pezzi sempre più piccoli. Sentivo il mio respiro. L’andare e venire del mio respiro. Mi concentrai sul movimento dei polsi. Doveva essere serrato e perfetto, un lieve tentennamento. Il peso che passa da una gamba all’altra. L’estensione verticale delle braccia. La schiena. Presto faceva già parte di un ritmo familiare. Il mio corpo dentro la sua stessa coreografia. Il mio corpo dentro il bosco di dentro.

“Non saresti dovuto tornare”, sussurrai, con un filo di voce appena nel fragore del respiro agitato. “Perché farlo?”.

È difficile spiegare come può una persona restare immobile sotto la neve per tanto tempo. Difficile dire: queste sono le mie ginocchia, questo è il tuo torso, la tua coscia, le tue dita. Questi sono gli occhi con cui mi hai visto. La migrazione è una cosa naturale

“La migrazione è una cosa naturale”, rispose, anche lui di spalle.

Mentre succedeva, quando tutto questo accadde, io immaginavo i corpi tra le fiamme. Quelle visioni interrompevano i miei sogni. Interrompevano, anche, le ore di veglia, interrompevano la mia teoria del bosco.

“Non hanno mai imparato la nostra lingua”, dicevano alcuni a mo’ di giustificazione. E tutto questo dentro la chiesa.

“Hanno disprezzato le nostre danze”, argomentavano altri nel discreto rumore delle campane.

“Avete visto che non chinano mai il capo?”.

Il bosco è sempre una cosa in espansione.

Le domande continuarono così. Le giustificazioni. Non importava che altri parlassero di fiumi comunicanti. Non importava nessun tentativo di spiegare il contesto, quanto è indispensabile il contesto per la diffusione della nostra lingua. C’è qualcosa di più grande. Ci capiremmo noi se non ci fossero altri che non ci capiscono? C’è qualcosa che ci contiene. Interrogativi come questi provocarono una grande irritazione. Un borbottare diffuso.

“Abbiamo appiccato il fuoco ai loro villaggi”, si sentì dentro la chiesa, una grave eco, una voce molto lieve. “Abbiamo appiccato il fuoco ai loro abitanti. Abbiamo adottato le loro abitudini. I loro vestiti”.

Io abbassai gli occhi e mi trovai le mani in grembo, orfane.

Intorno a me, la parola agreste. Tocca questo.

La civiltà si espande e la barbarie anche. Tra l’una e l’altra c’è il bosco, lo so. Il verde. Il cielo. La neve, che cade. Le campane a morto. Il sangue, l’impronta. C’è un uomo nel bosco che è una donna. C’è una donna. Un bosco.

Non so se lo fecero per me, anche se me lo sono sempre chiesta. È difficile discernere le intenzioni altrui. Ne erano morti altri tre: due bambine e un bambino. Eravamo così pochi. La scarsezza produce strani comportamenti. L’oscurità sotto gli alberi. Stare fuori; stare oltre. Il panico è una malattia: questo è chiaro. Toccarono più volte la fronte dei bambini, solo per verificare che la febbre avrebbe messo fine alle loro vite. Cercarono di decifrare le loro ultime parole. Fu una madre a puntare il dito. Il panico è una malattia che è un dramma. Il suo pianto era uno strumento affilato che mi spezzò in due. Avevo vissuto, in effetti, molti anni tra loro. Li avevo serviti bene. Provavano per me l’affetto cauto che si sente per chi, arrivando troppo tardi, si è perso per sempre il mistero della causa. Eppure non mi guardavano con diffidenza. Chinavano la testa al mio passaggio. Chiedevano la mia opinione. Quando mi ruppi una gamba, badarono alla mia fattoria. Mi tirarono fuori dal pozzo quando ci cascai dentro, un’estate. Mi regalarono tre pecore, che poi divennero sette, e poi quindici. E poi diventarono lana e, anche, pezzi di carne su piatti di peltro. Mangiammo insieme. Deglutimmo nello stesso momento. Non ci lasciammo intimidire dal luccichio sui nostri denti né dal peso delle nostre mani sul tavolo di legno. Su questo tavolo studiammo i loro vestiti e le loro abitudini sui miei quaderni. Qui sfogliammo i libri e guardammo le immagini. Qui pianificammo di appiccare il fuoco.

Io ho sempre parlato la loro lingua. Non chiede­temi perché qualcuno sceglie un bosco. Non ho risposte.

Disse che finalmente se l’era ricordato. Disse che mi aveva visto, molto tempo addietro, mesi o perfino anni prima della mia partenza. Riconobbe i quaderni, disse. Le copertine nere. Il loro formato singolare. Le mani che li stringevano, decise.

“Questo te lo ricordi?”, chiese.

Naturalmente risposi di no.

Non lo fece desistere. Disse che lui era stato lì, sul marciapiede di fronte, sotto la pioggia fine, mentre io aspettavo, i quaderni stretti al petto, l’autobus che mi avrebbe portato lontano.

“Ora mi ricordo perfettamente di quel giorno”, affermò.

Ovviamente io continuai a negare con la testa. Dovetti guardarlo con occhi smisurati perché d’un tratto scoppiò in una risata divertita. Il volo di un uccello. Anch’io cominciai a ridere senza sapere bene perché. Quel genere di risata che sfocia nell’ilarità di solito mi suscita una certa desolazione. C’è un momento in ogni storia in cui è possibile discernere quello che succederà dopo. Io lo capii allora, nel bel mezzo della storia inventata da un forestiero per costruire un contesto che potesse comprendere un momento mai esistito. Nel bel mezzo della desolazione. Dopo la risata.

Per questo rimasi in silenzio.

Per questo: fuori sarebbe caduta di nuovo la neve, silenziosa. A poco a poco non si sarebbero più sentiti i passi. Il resto sarebbe successo in fretta: la colluttazione, lo strumento affilato nell’aria, la sua irrevocabile caduta. Le parti del corpo. Il rivolo di sangue. Le impronte.

Aveva detto, prima di scoppiare nella sua risata divertita, che si sentiva come chi racconta una storia solo per avere il privilegio – o il potere, disse anche questo – di inserirvi un elemento bizzarro. Qualcosa che non va.

Allora lo vidi. Gli sgombrai il volto con le mani. Lo vidi assolutamente.

“L’ultimo giorno, il giorno della pioggia fine, non è mai esistito”, mormorai.

Fu solo allora che lui tacque.

È difficile spiegare come può una persona restare immobile sotto la neve per tanto tempo. Difficile dire: queste sono le mie ginocchia, questo è il tuo torso, la tua coscia, le tue dita. Questi sono gli occhi con cui mi hai visto. La migrazione è una cosa naturale. È sempre difficile descrivere quel che fa un’ascia. Difficile concepire il dito svettante della madre e difficile sentire il suo mugolio dall’altro lato della finestra e difficile spezzarsi in due, molto lentamente, quando si comprende il verdetto. È difficile restare immobile, i pugni stretti, ed essere testimone dei fatti. Il ramo che scricchiola. L’uccello. È difficile stare sotto il cielo.

Quando mormoravo di nascosto la parola Carpazi ero capace di vedere un bosco, un cielo azzurro, la neve che cadeva. All’epoca ero una bambina. Questo è vero. ◆

Cristina Rivera Garza è una scrittrice nata a Matamoros nel 1964. Ha scritto romanzi, saggi, racconti e poesie. In Italia ha pubblicato L’invincibile estate di Liliana (Sur 2024), con cui ha vinto il Pulitzer per il miglior memoir, e Terrestre (Sur 2025). La traduzione è di Giulia Zavagna. La mujer de los Cárpatos , from La frontera más distante © 2008, Cristina Rivera Garza

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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati