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Mi avvicino al finestrino dell’aereo fino a quasi premerci la faccia contro. Sorvoliamo la città. Gioco a riconoscere gli edifici: il World trade center, un tempo noto come Hotel de México; la Torre Latinoamericana, in lontananza, che segna il territorio del centro storico; il centro commerciale di Reforma 222, davanti al quale, qualche anno fa, prima di emigrare in Canada, passavo ogni giorno per andare a fare il mio lavoro di redattore.

Mi sedevo su una piccola sedia di legno nel corridoio senza tetto e scrivevo poesie su un vecchio portatile. Non conoscevo nessuno, nessuno mi conosceva

Sono dodici mesi che non vengo a Città del Messico e l’unica cosa che riesco a pensare è che è orribile, e che la amo. Questa contraddizione è assolutamente comune, e tutti noi chilangos l’abbiamo provata almeno una volta, quando intravediamo il mostro da lontano. Penso a tutte le volte in cui ho visto, dall’alto di un aereo, l’infinito oceano di strade, case grigie e viali sporchi della città stendersi sotto i miei piedi. Ogni volta che arrivo in Messico provo questa stessa miscela di repulsione e fascino, questo movimento di attrazione e rifiuto.

Questo doppio impulso lo provò anche Efraín Huerta che, nel 1944, pubblicò la sua Dichiarazione d’amore a Città del Messico nello stesso libro in cui era incluso uno dei testi più belli e onesti mai scritti sul Distrito federal (Df), la Dichiarazione d’odio a Città del Messico. A volte leggo quella poesia ad alta voce, con fervore, per ricordare le mie origini: “Ti dichiariamo il nostro odio perfezionato a forza di sentirti ogni giorno più immensa, / ogni ora più cedevole, ogni linea più brusca”.

Esattamente dieci anni fa atterrai all’aeroporto internazionale Benito Juárez di Città del Messico, al quale ora ci stiamo avvicinando. Allora tornavo da Madrid, dopo aver vissuto quattro anni in Spagna. Ero un giovane poeta di 21 anni e avevo una borsa di studio del governo messicano per scrivere il mio primo libro. Non avevo mai vissuto nella città da adulto, ma un’inestinguibile arroganza – tipica dei giovani poeti – mi faceva confidare ciecamente nel futuro.

Era l’ottobre del 2006 e mi sistemai in un piccolo appartamento nel quartiere Roma, che allora non era ancora gentrificato fino ai ridicoli livelli di oggi.

Il condominio in cui vivevo, pieno di piante e di pappagalli in gabbia, aveva l’ingresso proprio tra una sinagoga e un negozio di riparazione di pianoforti: in quegli anni la colonna sonora della mia vita era uno strano miscuglio di musica ebraica ed esperimenti atonali, tipo una composizione di John Zorn ma accidentale e di strada. Per una curiosa peculiarità architettonica, il breve corridoio che collegava il mio salotto, la cucina e la stanza da letto era scoperto, senza tetto: così, quando pioveva, per passare da uno spazio all’altro dell’appartamento mi bagnavo.

Avevo pochissime cose: un’orchidea portata da casa di mia madre, una manciata di libri di poesia e una caffettiera italiana. Vivevo a base di quesadillas, sesso e birra in lattina. Mi sedevo su una piccola sedia di legno nel corridoio senza tetto e scrivevo poesie su un vecchio portatile, davanti alla mia orchidea. Non conoscevo nessuno, nessuno mi conosceva. Il Df – che ormai non si chiama più Df – era un agglomerato di possibilità.

Poco dopo, grazie alla borsa che avevo per scrivere il mio primo libro, conobbi altri poeti. Ballai con loro, litigai con loro, li amai, mi ubriacai con loro, ci insultammo. Le tipiche cose che i giovani poeti fanno in qualsiasi città, e che paradossalmente li fanno sentire unici. Io mi sentivo unico, ascoltando le note imperfette dell’accordatore di pianoforti mentre ballavo nel corridoio scoperto del mio piccolo appartamento, sotto la mia pioggia casalinga.

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Sono già due settimane che sto a Città del Messico, dopo quell’atterraggio all’aeroporto Benito Juárez, dopo quel momento in cui ho pensato, come Efraín Huerta, che amo e odio questa città . Due settimane di uscite quotidiane, di ritorni all’alba, ebbro di luce elettrica e d’intensità e di smog e di tequila. Due settimane di questa strana parentesi che è la mia visita al luogo in cui sono nato, dopo un anno vissuto all’estero.

Io, Jorge e Benjamín guardiamo il cielo, sdraiati sul tetto, mentre parliamo. La conversazione viene interrotta di tanto in tanto dal rumore degli aerei. colonia Narvarte, il quartiere in cui siamo, si trova sulla rotta d’atterraggio dell’aeroporto Benito Juárez: centinaia di voli commerciali, soprattutto dalle due del pomeriggio in poi, eseguono una curva elegante sopra il tetto di casa di Benjamín prima di puntare verso una delle due piste del vecchio aeroporto (mi ha sempre stupito che le piste si chiamino 5L/23R e 5R/23L, come se non fossimo capaci di riconoscere che si tratta di un aeroporto con due piste e che quindi si potrebbero semplicemente chiamare 1 e 2).

Tre ore fa io, Benjamín e Jorge ci siamo presi mezza dose di lsd a testa. Ora chiacchieriamo con una certa letargia, per l’allucinata lucidità della droga, interrotti di tanto in tanto dal rombo delle turbine sopra di noi. È una domenica radiosa e lenta. Devono essere le tre o le quattro del pomeriggio.

Ogni volta che il suono delle turbine taglia in due il cielo, io, Benjamín e Jorge ci azzittiamo per guardare e ascoltare con tutta la forza della nostra attenzione. Il naso dell’aereo spunta dall’estremità sinistra del nostro campo visivo, che immagino corrisponda al nord. Da lì scivola dolcemente verso l’estremità opposta, come un coltello caldo che attraversa un panetto di burro. Il rumore risuona ancora per qualche secondo, quando l’aereo non è più visibile da dove siamo sdraiati. L’lsd accentua l’effetto Doppler e so che tutti e tre – io, Benjamín e Jorge – stiamo pensando alla stessa cosa, al modo in cui il suono degli aerei rivela, in maniera quasi scientifica, la curvatura del pianeta e la dimensione esatta dell’atmosfera sopra di noi.

Poco più di un anno fa, in modo piuttosto imprevisto, sono stato il protagonista di un film girato a Città del Messico, proprio prima di trasferirmi in Canada. Dico “imprevisto” perché non sono un attore e non avevo mai lavorato prima nel cinema. Ma accettai di recitare nel film perché mi sembrava un’esperienza interessante, e avevo bisogno di soldi. Sui due mesi di durata della faccenda, quattro giorni di riprese si svolsero a colonia Narvarte, a una decina di isolati dalla casa di Benjamín, da dove ora guardo il cielo sdraiato sul tetto. Durante le riprese, il passaggio degli aerei rese tortuoso il lavoro del fonico, che perdeva momenti importanti di un dialogo più o meno improvvisato e irripetibile.

Per ovviare ai problemi che questo avrebbe rappresentato nel processo di montaggio, mi abituai a tacere ogni volta che passava un aereo. In modo più o meno naturale, non appena intuivo il cupo rumore delle turbine facevo una pausa, e poi riprendevo quando il suono diventava impercettibile. Così il regista finì per girare scene di anche diciassette minuti senza un solo taglio, con grande irritazione di buona parte della troupe, abituata a uno stile di lavoro più conservatore e rapido.

Quell’esperienza mi ha reso estremamente sensibile al passaggio degli aerei a Città del Messico, cosa che per trent’anni avevo ignorato con relativo successo. Da allora, non riesco a sostenere una conversazione nel Df senza fare una pausa, anche minima, quando passa un aereo.

Due settimane di uscite quotidiane, di ritorni all’alba, ebbro di luce elettrica e d’intensità e di smog e di tequila. Due settimane di questa strana parentesi che è la mia visita al luogo in cui sono nato, dopo un anno vissuto all’estero

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Non so da dove mi sia venuta la stravagante idea di potermi dedicare alla scrittura, ma è un’idea a dir poco conflittuale. Nessuno può vivere di scrittura in Messico. O meglio, forse sì, ma sono persone che non conosco e che, in fondo, non ho alcun interesse a conoscere. In Messico, per vivere decentemente come scrittore bisogna parlare molto di calcio e di politica – di politica in modo superficiale, ovvio –, tenere conferenze su temi vari e apparire in televisione. Il resto di noi scrittori messicani passa il tempo a mandare pietose email chiedendo lavoro o facendo richiesta di borse di studio, oppure a fare mestieri affini con orari infami.

Non sapevo nulla di tutto questo quando sono venuto a vivere in città dieci anni fa, ansioso di plasmare in versi innocenti la mia misera visione del mondo mentre ascoltavo la musica della sinagoga e dell’accordatore di pianoforti. Allora credevo, con un fervore ridicolo, che sarei stato la gloriosa eccezione alla regola. Mi sarei dedicato a scrivere poesie e avrei conquistato lentamente il mondo dal mio corridoio senza tetto nella colonia Roma. Invece ho finito per lavorare dieci o undici ore al giorno in una rivista, in una casa editrice, in un festival, in un film indipendente.

Scrivere a Città del Messico è come parlare sotto la rotta di decollo e atterraggio degli aerei: di tanto in tanto bisogna tacere, lasciare che il rumore occupi tutto, che il cielo si spacchi in due prima di riprendere la parola. Tra il 2006 e il 2015 ho cercato di essere uno scrittore a Città del Messico. In quel periodo, il cielo si è spaccato in due moltissime volte.

All’inizio sono sopravvissuto grazie alle borse di studio. In Messico ce ne sono per giovani scrittori, e implicano la partecipazione a certi laboratori con tutor di una generazione più anziana. Questi tutor sono, salvo eccezioni, persone che non hanno altro merito se non quello di essere invecchiate.

E poi, piano piano, tutto ha cominciato ad andare storto: l’ipertrofica città ha alimentato in me il vizio e la violenza. Ho osservato con tenerezza il farsi strada del mio alcolismo come altri seguono la crescita di un figlio

La letteratura in Messico è una gerontocrazia. I vecchi sono celebrati per il semplice fatto di aver compiuto gli anni; i giovani sono guardati con sospetto e trattati con sufficienza. E i laboratori, in generale, sono spazi dove si smussano tutti gli angoli della scrittura, omogenizzando e privando i testi del loro mordente o della loro originalità. Per tre anni ho vissuto grazie a borse di studio di questo tipo, opponendo al sistema dei laboratori un’ostinazione iperbolica.

Ma ogni borsa prima o poi finisce. Quando ho cominciato a lavorare come redattore in una rivista letteraria, ho pensato che in fondo non fosse poi così male occuparmi di quello. Potevo scrivere un po’ nelle settimane più tranquille, subito dopo la chiusura del numero. Potevo chiedere testi agli autori che m’interessavano. Insomma, mi pagavano per leggere poesia: tutto sommato, non era così male. Ma quell’illusione è durata poco: la rivista era un covo di vipere.

Curare ogni numero era come ballare con le iene. Scrittori vicini al potere politico che si spartivano un prestigio immaginario e si maceravano nella mediocrità di una prosa che, al massimo, aspirava a una pallida efficacia. Non erano gli unici, ma erano la maggioranza. Il direttore della rivista, un rinomato liberale, se la prese con me perché osai dargli del tu invece che del lei, la mia maledetta educazione montessoriana . E così alla fine me ne sono andato.

In ogni caso, in quegli anni non è stato tutto negativo. Mi sono sposato con una donna bella e intelligente. Ci siamo trasferiti insieme a colonia Narvarte, proprio sotto la rotta d’atterraggio degli aerei. Il rumore ricorrente è diventato la nuova colonna sonora della mia esistenza, sostituendo la musica della sinagoga e dell’accordatore di pianoforti.

E poi, piano piano, tutto ha cominciato ad andare storto: l’ipertrofica città ha alimentato in me il vizio e la violenza. Ho osservato con tenerezza il farsi strada del mio alcolismo come altri seguono la crescita di un figlio. Sono diventato un essere irritabile, soggetto ad accessi d’ira. Ho scritto un romanzo nei tempi morti della mia devastazione. E poi il cielo si è spaccato in due. Ho divorziato. Ho perso completamente la fiducia in quello che facevo. Sono dovuto restare in silenzio per un po’, ad ascoltare il passaggio degli aerei.

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È molto facile idealizzare Città del Messico. Trasformarla in una meta turistica per ammiratori di Roberto Bolaño. Presentare i suoi quartieri più hip come epitomi di un cosmopolitismo che non rinnega le tradizioni. Tutto questo è pura merda. Città del Messico è essenzialmente brutta, al di là dei tre o quattro quartieri dove vive la nascente classe media. Bisogna abbracciare quella bruttezza, trovarne il fascino senza tradirlo. Bisogna dare retta a Witold Gombrowicz, che celebrava l’immaturità sudicia di Buenos Aires – la volgarità del sobborgo – al di là dei boulevard illuminati che imitavano l’Europa.

Ciò che caratterizza Città del Messico non è la combinazione di azzurro e terra di Siena della casa di Frida Kahlo, a Coyoacán, bensì il mare di case grigie, non intonacate, con i ferri del cemento a vista, che si estende intorno alla calzada Ignacio Zaragoza, sulla via per Puebla. È una città dove ci sono parrucchieri e negozi di animali che pagano il pizzo ai cartelli della droga per tingere capelli o vendere criceti. Le donne non si possono vestire come vogliono né prendere i mezzi pubblici senza che qualcuno gli tocchi il culo. Ci sono zone miserabili accanto a edifici di uffici dove i dirigenti arrivano in elicottero. Ci sono manifestazioni quotidiane perché il governo non riesce a concepire che la gente insista nel volere un lavoro dignitoso. Ci sono quartieri interi che restano senz’acqua per giorni. Ci sono pomeriggi ventosi in cui da oriente arriva un odore penetrante d’immondizia. Ogni volta che piove, tutto si allaga e i tombini sputano merda. Di tanto in tanto appare, in qualche punto della città, un cadavere smembrato o appeso a un ponte. Ci sono reti di tratta che tengono prigioniere decine di adolescenti e le fanno prostituire con la complicità della polizia. Ci sono centinaia di suv pieni di guardie del corpo armate che esercitano violenza sulla popolazione con una totale impunità. Ci sono milionari, in certi quartieri, che pagano una grossa tangente a qualche funzionario pubblico per deviare la rotta degli aerei, così che il rumore non li disturbi mentre guardano serie statunitensi nei loro cinema a casa

Amo follemente Città del Messico, sorvolata da molto vicino da aerei che a volte immagino sganciare bombe. ◆

Daniel saldaña París è uno scrittore e poeta nato a Città del Messico nel 1984. In Italia ha pubblicato In mezzo a strane vittime (Edizioni Arcoiris 2022) e Il ballo e l’incendio (Alessandro Polidoro editore 2024). Questo testo fa parte del romanzo Aviones sobrevolando un monstruo (Anagrama 2021). La traduzione è di Sara Cavarero.

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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati