Nell’aprile 2015, durante un discorso per i quarant’anni dalla fine della guerra del Vietnam, il primo ministro dell’epoca Nguyen Tan Dung, filoccidentale, non usò mezzi termini nel ricordare gli “innumerevoli crimini barbari” commessi dagli Stati Uniti durante il conflitto. Dieci anni dopo, al World economic forum di Davos che si è tenuto a gennaio, l’attuale premier Pham Minh Chinh ha usato un tono diverso, che rifletteva i legami economici più profondi con Washington. Sotto la patina diplomatica, però, il suo messaggio era chiaro: gli Stati Uniti hanno il dovere di aiutare il Vietnam dopo la devastazione che gli hanno inflitto.

Nonostante una progressiva distensione nei rapporti, la questione dell’eredità bellica è rimasta centrale nelle relazioni tra Washington e Hanoi. Ma lo smantellamento dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) e il taglio degli aiuti statunitensi all’estero, stanno mandando in fumo decenni di fiducia negli impegni di Washington.

Ora uno dei pilastri della riconciliazione tra i due paesi – la bonifica delle zone contaminate dall’agente arancio, il defoliante tossico spruzzato dall’esercito statunitense su vaste aree del Vietnam meridionale durante la guerra – è in pericolo. L’Usaid è stata fondamentale per portare avanti i programmi di bonifica. L’imminente collasso dell’agenzia si aggiunge alla sospensione dei programmi di sminamento di Washington a livello globale e infligge un altro colpo alla ripresa postbellica, mentre milioni di tonnellate di ordigni inesplosi sono ancora disseminati in Vietnam e più di centomila persone sono state uccise nelle esplosioni dalla fine della guerra. Tutto questo in un momento in cui Hanoi rimane uno dei pochi paesi dell’Asia sudorientale a privilegiare l’allineamento con Washington rispetto a Pechino. Questa crisi va ben oltre i confini del Vietnam. In tutta l’Asia la fiducia verso gli Stati Uniti sta svanendo rapidamente. E la Cina si prepara a riempire il vuoto.

L’Usaid e gli aiuti esteri statunitensi erano fondamentali in tutta l’Asia anche per i programmi di ricostruzione, forniture mediche e progetti umanitari. Le conseguenze del loro azzeramento sono già devastanti: trattamenti salvavita sospesi, team di ricerca sciolti e popolazioni vulnerabili abbandonate.

In Cambogia, dove le mine continuano a mutilare, le squadre di bonifica lottano per rimanere operative e non bloccare anni di progressi nella rimozione dei residuati bellici inesplosi. In Laos, il paese più pesantemente bombardato in rapporto al numero di abitanti, le operazioni di sminamento sono a rischio.

Il prezzo per la società civile
Fondi statunitensi congelati, milioni di dollari statunitensi (lowy institute)

◆ Gli Stati Uniti sono il quinto partner bilaterale del sudest asiatico per lo sviluppo e quasi la metà dei fondi – per lo più gestiti dall’Usaid – è diretta a paesi come l’Indonesia e le Filippine, dove gli aiuti sono una piccola parte delle entrate statali, ma dove il loro congelamento potrebbe indebolire la società civile. Le iniziative di governance – il 22 per cento degli aiuti – sostengono infatti la società civile, le forze dell’ordine e i sistemi giudiziari in una regione in cui la democrazia è fragile. Nel settore sanitario, dove gli Stati Uniti forniscono il 10 per cento degli aiuti regionali, la sospensione minaccia programmi critici come le iniziative per la nutrizione e la salute materno-infantile. The Interpreter


L’interruzione degli aiuti sta colpendo duramente le persone più vulnerabili in Cambogia, e lascia in sospeso servizi sociali vitali e programmi di difesa dei diritti umani. In Thailandia sono state chiuse le cliniche nei campi profughi, lasciando senza cure mediche essenziali quasi centomila sfollati dalla Birmania. In Nepal è stato sospeso il programma di nutrizione infantile da 72 milioni di dollari e migliaia di bambini sono ora esposti al rischio di malnutrizione. In Pakistan il congelamento dei fondi ha frenato iniziative chiave in materia di infrastrutture, energia e amministrazione, aggravando le relazioni già tese con gli Stati Uniti.

Cambiamento in atto

Si potrebbe obiettare che non c’è niente di sorprendente, vista la tendenza di Trump a maltrattare gli alleati. Il punto però è che Washington sta anche creando un vuoto sempre più vasto che la Cina è pronta a riempire. Il cambiamento è già in atto. Mentre gli Stati Uniti si ritirano dal ruolo di leader globale in materia di sviluppo, nella regione indo-pacifica si affievolisce la speranza di un’alternativa agli aiuti cinesi, con il conseguente deragliamento di anni di sforzi coordinati da Washington con alleati come il Giappone e la Corea del Sud. L’ultima indagine dell’Iseas-Yusof Ishak institute, barometro annuale degli orientamenti del sudest asiatico rispetto alla competizione tra grandi potenze, segna una svolta storica: per la prima volta dalla creazione di questa rilevazione nel 2019, la maggioranza degli intervistati preferisce la Cina agli Stati Uniti. Vietnam e Filippine sono gli unici a propendere ancora per Washington.

Invece di aspettare che queste percezioni si trasformino in politiche concrete, Pechino sta già consolidando la sua influenza sul campo. Già prima della ritirata statunitense aveva esteso la sua presenza in Cambogia e Laos con piani di sminamento, rafforzando il suo ascendente su due paesi già nella sua orbita. Oltre il sudest asiatico, gli aiuti inviati dalla Cina al Pakistan – compreso il rifinanziamento del debito e nuovi investimenti – hanno rafforzato la sua influenza sul futuro economico del paese.

Trump può giustificare i suoi tagli con la necessità di mantenere la promessa di mettere al primo posto i contribuenti americani. Così facendo, però, sta venendo meno a un’altra promessa, quella di limitare la crescente influenza della Cina, a cui sta servendo su un piatto d’argento la possibilità di trovarsi in una posizione più forte in Asia. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati