All’interno dei 125mila ettari del Grand Teton national park del Wyoming, uno dei parcheggi più grandi è nel villaggio di Colter Bay. All’estremità del parcheggio, annidata tra gli alberi, c’è una maleodorante stazione di pompaggio delle acque reflue che Jesse Barber, un ecologo sensoriale della Boise state university, chiama shiterator. In questa sera particolare, seduto tranquillamente all’interno di una fessura sotto la tettoia metallica dell’edificio e illuminato dalla torcia di Barber, c’è un piccolo pipistrello marrone. Sul suo dorso è attaccato un dispositivo bianco grande quanto un chicco di riso. “È un tracciatore radio”, mi dice Barber, che aveva fissato lo strumento sul pipistrello in modo da seguirne gli spostamenti, e stasera è tornato per metterlo su qualche altro esemplare.

Dall’interno dello shiterator, sento provenire i versi di altri pipistrelli. Gli animali cominciano a venir fuori quando tramonta il sole. Alcuni rimangono impigliati nella grande rete che Barber ha fissato tra due alberi. L’ecologo libera un pipistrello e Hunter Cole, uno dei suoi studenti, lo esamina attentamente per verificare che sia sano e abbastanza in forze da portare un tracciatore. Dopo aver controllato, Cole stende una goccia di cemento chirurgico tra le sue scapole e attacca il piccolo dispositivo. “Tracciare i pipistrelli è una sorta di progetto artistico”, mi dice Barber. Dopo pochi minuti, Cole mette sul tronco dell’albero più vicino il pipistrello, che si arrampica verso l’alto e vola via, portandosi nel bosco un’apparecchiatura radio del valore di 175 dollari.

Osservo la squadra esaminare un altro pipistrello, che apre la bocca ed espone denti sorprendentemente lunghi. Sembra una manifestazione di aggressività; ma non lo è. Il pipistrello sta emettendo dalla bocca un flusso di brevi ultrasuoni, a una frequenza così alta che io non posso sentirli. I pipistrelli, invece, li sentono e, ascoltando gli echi di ritorno, riescono a localizzare gli oggetti vicino a loro.

L’ecolocalizzazione è lo strumento principale con cui la maggior parte dei pipistrelli si orienta e caccia. Solo due gruppi di animali hanno perfezionato questa abilità: gli odontoceti (delfini, orche e capodogli) e i pipistrelli. L’ecolocalizzazione si differenzia dai sensi umani perché implica l’immissione di energia nell’ambiente. Gli occhi scrutano, il naso annusa e le dita premono, ma questi organi sensoriali raccolgono stimoli che già esistono nel mondo. Al contrario, un pipistrello crea lo stimolo che in seguito rileverà. L’ecolocalizzazione è un modo per costringere con l’inganno l’ambiente circostante a rivelarsi. Un pipistrello dice “Marco” e l’ambiente circostante non può fare a meno di dire “Polo”.

Il processo di base sembra semplice, ma i suoi dettagli sono straordinari. Nell’aria i suoni acuti perdono rapidamente forza, quindi i pipistrelli devono urlare per inviare segnali abbastanza forti da rimandare echi udibili. Per evitare di assordarsi mentre lanciano i loro richiami, contraggono i muscoli delle orecchie, desensibilizzando il loro udito a ogni grido e ripristinandolo in tempo per l’eco. Ogni eco fornisce un’istantanea, quindi i pipistrelli devono adeguare rapidamente i loro richiami per seguire gli insetti in rapido movimento. Fortunatamente, i loro muscoli vocali sono i più veloci che si conoscano nei mammiferi: rilasciano fino a duecento impulsi al secondo. Il sistema nervoso di un pipistrello è così sensibile che può rilevare differenze nel ritardo dell’eco di appena uno o due milionesimi di secondo, che si traduce in una distanza fisica inferiore a un millimetro. Un pipistrello misura quindi la distanza di un insetto con molta più precisione di quanto possano fare gli esseri umani.

Il principale punto debole dell’ecolocalizzazione è il corto raggio: alcuni pipistrelli possono rilevare la presenza di piccole falene da circa sei a otto metri di distanza. Sono capaci di farlo in un’oscurità così totale da non consentire la visione. Anche nel buio pesto, i pipistrelli possono aggirare i rami e arraffare minuscoli insetti volanti. Naturalmente, non sono gli unici animali a cacciare di notte. Mentre osservo Barber che fissa i rilevatori sui pipistrelli, le zanzare mi pungono attraverso la camicia, attratte dall’odore dell’anidride carbonica del mio respiro. Mi gratto e un gufo vola sopra la mia testa, inseguendo una preda con l’aiuto di una parabola fatta di rigide piume facciali che incanalano il suono verso le sue orecchie. Queste creature hanno tutte evoluto sensi che gli permettono di prosperare nel buio. Ma il buio sta scomparendo.

Troppa luce

Barber fa parte di un crescente gruppo di biologi sensoriali preoccupati che gli esseri umani stiano inquinando il mondo con troppa luce, a scapito di altre specie. Perfino qui, nel bel mezzo di un parco nazionale, la luce della tecnologia s’intrufola nell’oscurità. È emessa dai fari dei veicoli di passaggio, dalle lampadine fluorescenti del centro visitatori e dai lampioni che circondano le auto parcheggiate. “Il parcheggio è illuminato come quello di un centro commerciale, nessuno ha pensato alle conseguenze per la fauna selvatica”, dice Barber.

Molti insetti volanti sono fatalmente attratti dai lampioni, che scambiano per luci del cielo, e volteggiano sotto di loro fino a morire di sfinimento. Alcuni pipistrelli sfruttano questa confusione, banchettando con gli sciami disorientati. Altre specie che si muovono più lentamente, tra cui i piccoli pipistrelli marroni che Barber sta monitorando, rimangono lontane dalla luce, forse perché le rende delle prede più facili per i gufi. Le luci rimodellano le comunità animali, attirandone alcune e allontanandone altre, con conseguenze difficili da prevedere.

Per stabilire l’effetto della luce sui pipistrelli di Grand Teton, Barber ha convinto il National park service (l’agenzia statunitense che gestisce i parchi nazionali) a lasciargli provare un esperimento insolito. Nel 2019 ha montato su tutti i 32 lampioni del parcheggio di Colter Bay lampadine speciali che cambiano colore: possono produrre luce bianca, che influenza fortemente il comportamento di insetti e pipistrelli, o rossa, che non sembra avere lo stesso effetto. Durante la mia visita, ogni pochi giorni la squadra di Barber inverte i colori. Le trappole a forma di imbuto appese sotto le lampade raccolgono gli insetti, mentre i ricetrasmettitori captano i segnali provenienti dai pipistrelli etichettati. Questi dati dovrebbero rivelare come le normali luci bianche influiscono sugli animali e se le luci rosse possono contribuire a far tornare il cielo notturno al suo stato naturale.

Cole mi dà una piccola dimostrazione passando al rosso. All’inizio il parcheggio ha un aspetto inquietante, come se fossimo in un film dell’orrore. Ma quando i miei occhi si abituano, le tonalità rosse sembrano meno drammatiche e diventano quasi piacevoli. È incredibile quanto riusciamo ancora a vedere. Le auto e il fogliame circostante sono visibili. Alzo gli occhi e noto che sotto le lampade sembrano essersi raccolti meno insetti. Guardo ancora più in alto e vedo la striscia della Via Lattea che attraversa il cielo. È uno spettacolo dolorosamente bello, che non ho mai visto nell’emisfero settentrionale.

Staccati dal cosmo

Ogni animale è racchiuso all’interno della propria bolla sensoriale e percepisce solo un piccolo frammento di un mondo immenso. C’è una parola meravigliosa per descrivere questa bolla: umwelt. Il concetto fu definito e divulgato dallo zoologo tedesco Jakob von Uexküll nel 1909. Umwelt deriva dalla parola tedesca che significa “ambiente”, ma Uexküll non la usava per riferirsi a quello che circonda un animale, bensì specificamente a quella parte dell’ambiente che un animale può sentire e percepire: il suo mondo percettivo. A una pulce alla ricerca di sangue di mammifero interessano il calore corporeo, il contatto con i peli e l’odore di acido butirrico che emana la pelle. Non le interessano altri stimoli e probabilmente non sa che esistono. Ogni umwelt è limitato, solo che non lo sembra. Per chi lo sperimenta è l’unica cosa che c’è. Il nostro umwelt è tutto quello che sappiamo, e quindi lo scambiamo facilmente per tutto quello che c’è da sapere. Questa è un’illusione condivisa da tutti gli animali.

Gran parte della devastazione che abbiamo causato ci è ormai familiare

Noi esseri umani, tuttavia, possediamo la capacità unica di comprendere l’umwelt di altre specie e, attraverso secoli di sforzi, abbiamo imparato molto su quei mondi sensoriali. Ma nel tempo che ci è voluto per accumulare una tale conoscenza, li abbiamo radicalmente rimodellati. Gran parte della devastazione che abbiamo causato ci è ormai familiare. Abbiamo cambiato il clima e reso acidi gli oceani. Abbiamo mescolato la fauna selvatica dei continenti, sostituendo le specie indigene con quelle invasive. Abbiamo provocato quella che alcuni scienziati chiamano un’era di “annientamento biologico”, paragonabile ai cinque grandi eventi di estinzione di massa della preistoria. Abbiamo anche riempito il silenzio di rumore e la notte di luce.

Questo fenomeno spesso ignorato è chiamato inquinamento sensoriale: stimoli prodotti dagli esseri umani, che interferiscono con i sensi di altre specie. Bombardando diversi animali con stimoli che noi abbiamo creato, li abbiamo costretti a vivere nel nostro umwelt. Li abbiamo distratti da quello che hanno realmente bisogno di percepire, abbiamo soffocato i segnali da cui dipendono e li abbiamo attirati in trappole sensoriali. Tutto questo può provocare danni catastrofici.

Nel 2001, l’astronomo Pierantonio Cinzano e i suoi colleghi hanno creato il primo atlante globale dell’inquinamento luminoso. Hanno calcolato che due terzi della popolazione mondiale vive in aree inquinate dalla luce, dove le notti sono almeno il 10 per cento più luminose dell’oscurità naturale. Circa il 40 per cento dell’umanità è permanentemente immerso nell’equivalente della luce lunare perpetua e il 25 vive costantemente in un crepuscolo artificiale che supera l’illuminazione di una luna piena. “Per queste persone la ‘notte’ non arriva mai veramente”, hanno scritto i ricercatori. Nel 2016, quando il gruppo ha aggiornato l’atlante, ha scoperto che la situazione era addirittura peggiorata. A quel punto, circa l’83 per cento degli esseri umani, tra cui più del 99 per cento degli statunitensi e degli europei, vivevano sotto cieli inquinati dalla luce. Più di un terzo dell’umanità, e quasi l’80 per cento dei nordamericani, non può più vedere la Via Lattea. “Il pensiero della luce che viaggia per miliardi di anni da galassie lontane per poi essere spazzata via nell’ultimo miliardesimo di secondo dal bagliore del centro commerciale più vicino mi deprime a non finire”, ha scritto l’ecologo visivo Sönke Johnsen.

A Colter Bay, Cole riporta le luci dal rosso al bianco e io strizzo gli occhi. L’illuminazione più forte dà una sensazione sgradevole. Le stelle sembrano più deboli. L’inquinamento sensoriale provoca la disconnessione. Ci distacca dal cosmo. Soffoca gli stimoli che collegano gli animali all’ambiente circostante e tra loro. Rendendo il pianeta più luminoso e più rumoroso, abbiamo messo in pericolo gli ambienti sensoriali d’innumerevoli specie in modi che sono meno istintivamente insopportabili della distruzione delle foreste pluviali e dello sbiancamento delle barriere coralline, ma non meno tragici. Ora le cose devono cambiare. Possiamo ancora salvare la quiete e preservare il buio.

Tartaruga marina (Shayan Asgharnia, August/Contrasto)

Deviazione fatale

Ogni anno l’11 settembre il cielo sopra New York è trafitto da due colonne di intensa luce blu. Questa installazione artistica, chiamata Tribute in light, commemora le vittime degli attentati terroristici del 2001, con i fasci di luce che puntano verso il cielo dove sorgevano le torri gemelle cadute. Ognuna è prodotta da 44 lampadine allo xeno con una potenza di settemila watt. La loro luce può essere vista a quasi cento chilometri di distanza. Da più vicino, gli osservatori spesso notano piccole macchie, che danzano tra le colonne come nevischio. Quelle macchie sono uccelli. Migliaia di uccelli.

Il rituale dell’11 settembre purtroppo si celebra durante la stagione migratoria autunnale, quando miliardi di piccoli uccelli canori intraprendono lunghi viaggi attraverso i cieli nordamericani. Al riparo dell’oscurità, volano in stormi così numerosi da apparire sui radar. Analizzando le immagini radar meteorologiche, Benjamin Van Doren ha dimostrato che in sette notti di attività Tribute in light ha intercettato circa 1,1 milioni di uccelli. I fasci arrivano così in alto che anche ad altitudini di diversi chilometri attraggono i volatili di passaggio. Gli uccelli canori e altre piccole specie si ammassano all’interno della luce fino a 150 volte i loro normali livelli di densità. Girano lentamente, come intrappolati in una gabbia incorporea. Lanciano spesso forti richiami. Ogni tanto si schiantano contro gli edifici vicini.

Le migrazioni sono viaggi estenuanti che spingono i piccoli uccelli al loro limite fisiologico. Anche una piccola deviazione notturna può indebolire le loro riserve di energia con conseguenze fatali. Quindi, ogni volta che mille o più uccelli sono catturati all’interno dei due fasci di luce a New York, le lampadine restano spente per 20 minuti, per consentire agli stormi di riorientarsi. Ma questa è una fonte di luce tra le tante, e anche se intensa e verticale, brilla solo una volta all’anno. Altre volte, la luce esce dagli stadi e dalle attrazioni turistiche, dalle piattaforme petrolifere e dagli uffici. Respinge il buio e attira gli uccelli migratori.

Nel 1886, poco dopo che Thomas Edison aveva commercializzato la lampadina elettrica, circa mille uccelli morirono dopo essersi scontrati con le torri illuminate di Decatur, nell’Illinois. Più di un secolo dopo, lo scienziato ambientale Travis Long­core e i suoi colleghi hanno calcolato che quasi sette milioni di uccelli muoiono ogni anno negli Stati Uniti e in Canada sbattendo contro le torri di telecomunicazione. Le luci di quelle torri servono come avvertimento per i piloti di aerei, ma fanno perdere l’orientamento agli uccelli notturni, che finiscono per scontrarsi con i cavi o tra loro.

Molte di queste morti potrebbero essere evitate semplicemente sostituendo le luci fisse con quelle lampeggianti. “Dimentichiamo troppo spesso che noi non percepiamo il mondo allo stesso modo delle altre specie e, così, ignoriamo conseguenze che non dovremmo ignorare”, mi dice Longcore nel suo ufficio di Los Angeles. I nostri occhi sono tra i più acuti del regno animale, ma la loro alta risoluzione ha come costo la bassa sensibilità. A differenza della maggior parte degli altri mammiferi, di notte vediamo poco, quindi desideriamo più illuminazione, non meno. Pensare che la luce inquina non ci piace, ma cominciamo a rendercene conto quando s’insinua in luoghi a cui non appartiene. La luce diffusa di notte è esclusivamente antropogenica. I ritmi quotidiani e stagionali di luce e buio sono rimasti per lo più invariati per tutto il periodo evolutivo, un’era di quattro miliardi di anni che cominciò a cambiare nel diciannovesimo secolo.

Salamandra tigre sbarrata (Shayan Asgharnia, August/Contrasto)

Come una prigione

Quando i piccoli di tartaruga marina emergono dai loro nidi, strisciano via dal buio della vegetazione delle dune verso il più luminoso orizzonte oceanico. Ma le strade illuminate e i resort sulla spiaggia possono spingerli nella direzione sbagliata, verso luoghi in cui sono facilmente catturati dai predatori o schiacciati dai veicoli. Solo in Florida le luci artificiali uccidono migliaia di tartarughine ogni anno. Vagano verso una partita di baseball o, cosa ancora più orribile, verso i fuochi lasciati accesi sulla spiaggia. Il custode di una villa di Melbourne Beach ne ha trovate centinaia morte sotto un’unica lampada a vapori di mercurio.

Le luci artificiali possono anche attirare fatalmente gli insetti, contribuendo al loro allarmante declino globale. Un singolo lampione può richiamare falene da 25 metri di distanza, una strada ben illuminata può diventare una prigione. Molti insetti che si raccolgono intorno ai lampioni entro l’alba saranno stati probabilmente mangiati o saranno morti di sfinimento. Quelli che sfrecciano verso i fari dei veicoli moriranno ancora prima. Le conseguenze di queste perdite possono ripercuotersi su vari ecosistemi. Nel 2014, nell’ambito di un esperimento, l’ecologa Eva Knop ha installato dei lampioni su sette prati svizzeri. Dopo il tramonto, si aggirava in quei campi con un paio di occhiali per la visione notturna, guardando nei fiori per cercare falene e altri impollinatori. Confrontando questi siti con altri che erano stati tenuti al buio, Knop ha dimostrato che i fiori illuminati hanno ricevuto il 62 per cento in meno di visite di insetti impollinatori. Una pianta ha prodotto il 13 per cento in meno di frutti anche se durante il giorno era stata visitata da api e farfalle.

La presenza della luce non è l’unico fattore che conta, anche la sua natura è importante. Gli insetti con larve acquatiche, come le effimere e le libellule, depongono inutilmente le loro uova su strade bagnate, finestre e tetti di auto, perché questi riflettono la luce polarizzata orizzontalmente allo stesso modo delle distese d’acqua. Le lampadine tremolanti possono provocare mal di testa e altri problemi neurologici agli esseri umani, anche se in genere i nostri occhi sono troppo lenti per rilevare questi cambiamenti. Cosa fanno, allora, agli animali che hanno una visione più rapida, come insetti e piccoli uccelli?

Anche i colori contano. Il rosso è meglio per pipistrelli e insetti, ma può sviare gli uccelli migratori. Il giallo non dà fastidio alle tartarughe e alla maggior parte degli insetti, ma può disturbare le salamandre. Nessuna lunghezza d’onda è perfetta, dice Longcore, ma il blu e il bianco sono i peggiori di tutti. La luce blu interferisce con i nostri orologi biologici e attrae fortemente gli insetti. Si diffonde anche facilmente, aumentando l’inquinamento luminoso. Ma è economica e facile da produrre. La nuova generazione di led bianchi ad alta efficienza energetica contiene molta luce blu e il mondo potrebbe abbandonare le tradizionali luci al sodio giallo-arancio in loro favore. In termini energetici, sarebbe una vittoria ambientale. Ma raddoppierebbe o triplicherebbe anche la quantità d’inquinamento luminoso globale.

Dopo aver parlato con Longcore, torno a casa a Washington, con un volo notturno. Mentre l’aereo decolla, guardo Los Angeles dal finestrino. La sua griglia scintillante di luci suscita lo stesso stupore primordiale che provoca guardare un cielo stellato o un mare rischiarato dalla Luna. Ma mentre la città illuminata si allontana sotto di noi, il mio stupore si tinge di disagio. L’inquinamento luminoso non è più solo un problema urbano. La luce viaggia, invadendo anche luoghi altrimenti non soggetti all’influenza umana. La luce proveniente da Los Angeles raggiunge la Death valley, uno dei più grandi parchi nazionali degli Stati Uniti, a più di 240 chilometri di distanza. La vera oscurità è difficile da trovare. Come il vero silenzio.

Il rumore delle città

È una soleggiata mattina di aprile a Boulder, nel Colorado, e ho camminato fino a una collina rocciosa, a circa 1.800 metri sul livello del mare. Da qui il mondo sembra più grande, non solo per la vista panoramica sulle foreste di conifere, ma anche perché è piacevolmente silenzioso. Lontano dal chiasso cittadino, i rumori più piccoli si riescono a sentire a distanze maggiori. Sul pendio uno scoiattolo provoca un fruscio. Le cavallette schioccano le ali mentre volano. Un picchio batte il becco contro un tronco vicino. Il vento agita le foglie. Più resto seduto lì, più suoni mi sembra di sentire.

Due uomini interrompono questa tranquillità. Non riesco a vederli, ma sono da qualche parte sul sentiero sottostante, intenti a comunicare le loro opinioni a tutto il Colorado. Poi mi rendo conto che posso anche sentire i veicoli che sfrecciano lungo l’autostrada oltre gli alberi. Denver ronza in lontananza, un rumore di fondo che avevo quasi rimosso. Sento i motori ruggenti di un aereo che vola sopra la mia testa.

Dopo la passeggiata, incontro Kurt Fristrup, che dice di viaggiare con lo zaino in spalla dalla metà degli anni sessanta. Da allora, le emissioni degli aerei sono aumentate di quasi sette volte. “Uno dei miei giochetti preferiti quando gli amici mi vengono a trovare è chiedere se, lungo la strada, hanno sentito qualche aereo”, mi dice. “In genere ne ricordano uno o due. E io replico che sono passati 23 jet e due elicotteri”.

Prima di andare in pensione, Fristrup era uno scienziato della divisione Suoni naturali e cieli notturni del National park service, un gruppo che si occupa di salvaguardare (tra le altre cose) i paesaggi sonori naturali degli Stati Uniti. Per proteggerli, il team ha dovuto prima mapparli e il suono, a differenza della luce, non può essere rilevato dai satelliti. Fristrup e i suoi colleghi hanno passato anni a trasportare apparecchiature di registrazione in circa cinquecento siti di tutto il paese, catturando quasi un milione e mezzo di campioni audio. Hanno scoperto che l’attività umana raddoppia i livelli di rumore di fondo nel 63 per cento degli spazi protetti come i parchi nazionali, e li aumenta di dieci volte nel 21 per cento dei casi. In questi ultimi posti, “se prima potevamo sentire un suono a trenta metri di distanza, ora possiamo sentirlo solo a tre metri”, mi ha detto Rachel Buxton, un’ex ricercatrice del National park service. I principali responsabili sono gli aerei e le strade, ma anche industrie come quelle per l’estrazione di petrolio e gas, le miniere e la silvicoltura, che riempiono l’aria con le perforazioni, le esplosioni, il rombo dei motori e il rumore sordo di pneumatici pesanti. Anche le aree protette nel modo più rigido sono sotto assedio acustico.

Anche le aree protette nel modo più rigido sono sotto assedio acustico

Nelle città il problema è peggiore, e non solo negli Stati Uniti. Nel 2005 due terzi degli europei erano immersi in un rumore ambientale equivalente a una pioggia perpetua. Condizioni simili sono punitive per i molti animali che comunicano attraverso richiami e canti. Alcuni scienziati hanno scoperto che i quartieri rumorosi di Leida, nei Paesi Bassi, costringono le cinciallegre a cantare a frequenze più alte per impedire che le loro note siano coperte dal trambusto della città. A Berlino, gli usignoli sono costretti a intonare più forte le loro melodie per farsi sentire al di sopra del frastuono circostante.

Il rumore urbano e industriale può anche cambiare i tempi del canto degli uccelli, ridimensionare la complessità dei loro richiami e impedirgli di trovare compagni. L’inquinamento acustico copre non solo i suoni che gli animali emettono deliberatamente, ma anche la “rete di suoni non intenzionali che tiene insieme le comunità”, afferma Fristrup. Per esempio i delicati fruscii che indicano ai gufi dove si trova la loro preda, o i colpetti che avvertono i topi di un pericolo imminente.

Nel 2012 Jesse Barber e i suoi colleghi Heidi Ware Carlisle e Christopher McClure hanno costruito una strada fantasma. Su un crinale dell’Idaho che funge da scalo per gli uccelli migratori, il team ha allestito un corridoio di mezzo chilometro di altoparlanti che trasmettevano senza sosta la registrazione di auto di passaggio. Un terzo degli uccelli abituali non si è fermato, e molti di loro hanno pagato a caro prezzo la decisione di proseguire. Con pneumatici e clacson che soffocavano i suoni dei predatori, gli uccelli trascorrevano più tempo a evitare i pericoli e meno alla ricerca di cibo. Mettevano su meno peso ed erano più deboli durante le loro faticose migrazioni. L’esperimento della strada fantasma è stato fondamentale per dimostrare che la fauna selvatica può essere scoraggiata anche dal solo rumore, indipendentemente dalla vista dei veicoli e dalla puzza degli scarichi. Centinaia di studi sono arrivati a conclusioni simili. In condizioni rumorose, i cani della prateria trascorrono più tempo sottoterra. I gufi sbagliano i loro attacchi. Le mosche ormia parassitarie fanno fatica a trovare i grilli ospiti.

I suoni possono percorrere lunghe distanze, in ogni momento della giornata e attraverso ostacoli solidi. Queste qualità li rendono ottimi stimoli per gli animali ma anche inquinanti per eccellenza. Il rumore può degradare habitat che sembrano idilliaci e rendere invivibili luoghi altrimenti vivibili. Dove andranno gli animali? Nel 2003 l’83 per cento degli Stati Uniti contigui si trovava a circa un chilometro da una strada.

In fondo al mare

Neanche i mari possono garantire il silenzio. Anche se Jacques Cousteau una volta descrisse l’oceano come un mondo silenzioso, in realtà non è affatto così. L’oceano pullula di suoni di onde che s’infrangono e venti che soffiano, sorgenti idrotermali gorgoglianti e iceberg che si staccano. Tutto questo arriva più lontano e viaggia più velocemente sott’acqua che nell’aria. Anche gli animali marini sono rumorosi. Le balene cantano, i pesci rospo borbottano, i merluzzi grugniscono e le foche barbute trillano. Le migliaia di schiocchi dei gamberi, che stordiscono i pesci di passaggio con le onde d’urto prodotte dalle loro grandi chele, riempiono le barriere coralline con suoni simili alla pancetta che sfrigola o al riso soffiato che scoppietta nel latte. Parte di questo paesaggio sonoro è stato messo a tacere da quando gli esseri umani pescano con le reti, con gli ami e con gli arpioni negli oceani. Altri rumori naturali sono stati soffocati da quelli che abbiamo aggiunto noi: il fruscio delle reti sul fondo del mare, gli scoppi delle cariche usate per la ricerca di petrolio e gas, il tintinnio dei sonar militari e, come base musicale onnipresente, i rumori delle navi.

“Pensi da dove vengono le sue scarpe”, mi dice l’esperto di mammiferi marini John Hildebrand. Guardo e prevedibilmente la risposta è dalla Cina. Qualche nave le ha trasportate attraverso il Pacifico, lasciando dietro di sé una scia sonora che s’irradiava per chilometri. Dal 1945 al 2008 la flotta marittima globale è più che triplicata e ha cominciato a spostare dieci volte più merci a velocità sempre più elevate. E negli ultimi cinquant’anni le navi da trasporto hanno moltiplicato i livelli di rumore a bassa frequenza negli oceani di 32 volte, un aumento di 15 decibel rispetto ai livelli che Hildebrand sospetta fossero già da 10 a 15 decibel più forti di quelli del periodo precedente all’introduzione delle eliche. Dato che le balene giganti possono vivere per un secolo o più, ci sono probabilmente ancora esemplari che hanno sperimentato in prima persona questo innalzamento del chiasso sottomarino e ora il loro udito è solo una piccola parte di quello originale.

Mentre di notte passano le navi, le megattere smettono di cantare, le orche smettono di andare a caccia e le balene franche si stressano. I granchi smettono di nutrirsi, le seppie cambiano colore, i pesci damigella sono più facili da catturare. “Se dicessi che intendo aumentare il livello di rumore nel suo ufficio di 30 decibel, l’Agenzia per la sicurezza e la salute sul lavoro interverrebbe subito e le consiglierebbe di mettere i tappi per le orecchie”, mi dice Hildebrand. “Stiamo conducendo un esperimento sugli animali marini esponendoli a questi alti livelli di rumore, un esperimento che non permetteremmo mai di fare su noi stessi”.

Spirito di adattamento

Per come abbiamo sconvolto i mondi di altri animali, i sensi che li hanno serviti bene per milioni di anni oggi sono un problema. Le superfici verticali lisce, che non esistono in natura, rimandano echi che danno l’impressione di essere all’aria aperta. Forse è per questo che i pipistrelli si schiantano così spesso contro le finestre. Il solfuro di dimetile, la sostanza chimica dall’odore di alga che un tempo guidava in modo affidabile gli uccelli marini verso il cibo, ora li guida anche verso i milioni di tonnellate di rifiuti di plastica che gli esseri umani hanno scaricato negli oceani. Forse questo è uno dei motivi per cui si stima che il 90 per cento degli uccelli marini prima o poi inghiotta la plastica.

I lamantini possono rilevare le correnti prodotte grazie a oggetti che si muovono nell’acqua con peli simili a vibrisse su tutto il corpo, ma non riescono a farlo abbastanza in fretta da evitare un motoscafo in rapido movimento; le collisioni con le barche sono responsabili di almeno un quinto delle morti tra i lamantini della Florida. I recettori olfattivi possono guidare i salmoni fino al loro luogo di nascita, ma non se i pesticidi scaricati nei fiumi indeboliscono il loro senso dell’olfatto. Deboli campi elettrici sul fondo del mare possono guidare gli squali verso prede sepolte sotto la sabbia, ma anche verso cavi ad alta tensione.

Con ogni creatura che svanisce, perdiamo un modo d’interpretare il mondo

Alcuni animali sono arrivati a sopportare i panorami e i suoni della modernità. Altri addirittura ci convivono bene. Alcune falene urbane hanno sviluppato una minore attrazione per la luce. Alcuni ragni di città sono andati nella direzione opposta: tessono ragnatele sotto i lampioni e banchettano con gli insetti che ne sono attratti. In alcune città di Panamá, le luci notturne allontanano i pipistrelli che mangiano le rane, consentendo alle rane tungara maschio di arricchire le loro canzoni con svolazzi che normalmente attirerebbero predatori oltre che compagne. Gli animali possono adattarsi, cambiando il loro comportamento nel corso della vita e sviluppando nuovi comportamenti nel corso di molte generazioni.

Ma l’adattamento non è sempre possibile. Le specie che maturano e si riproducono lentamente non possono evolversi abbastanza rapidamente da tenere il passo con i livelli di inquinamento luminoso e acustico che raddoppiano in pochi decenni. Gli animali che sono già stati confinati in habitat sempre più ridotti non possono semplicemente alzarsi e andarsene. Quelli che si affidano a sensi specializzati non possono risintonizzare il loro intero umwelt.

C’è ancora tempo

La nostra influenza non è distruttiva in sé, ma è spesso omogeneizzante. Facendo scappare via specie che non possono sopportare i nostri attacchi sensoriali, ci lasciamo dietro comunità più piccole e meno diversificate. E oltre a inquinare il mondo con segnali indesiderati, stiamo anche rimuovendo gli stimoli naturali da cui gli animali sono diventati dipendenti, appiattendo i variegati paesaggi sensoriali che hanno generato la meravigliosa varietà degli umwelt animali.

Pensate al lago Vittoria, in Africa orientale. Ospita più di cinquecento specie di pesci ciclidi che non si trovano da nessun’altra parte. Questa straordinaria diversità è dovuta in parte alla luce. Nelle zone più profonde del lago, la luce tende a essere gialla o arancione, mentre nelle acque meno profonde prevale l’azzurro.

Queste differenze hanno influito sugli occhi dei ciclidi e, di conseguenza, sulle loro scelte di accoppiamento. Il biologo evoluzionista Ole Seehausen ha scoperto che le ciclidi femmina provenienti da acque profonde preferiscono i maschi più rossi, mentre quelle che vivono nelle secche sono attratte da quelli più azzurri. Questi gusti agivano da barriere, dividendo i ciclidi in colori differenti. La diversità della luce ha contribuito a creare diversità nella visione, nel colore e nelle specie. Ma nel novecento gli scarichi di fattorie, miniere e fognature hanno riempito il lago di sostanze nutritive che hanno stimolato la crescita di alghe che annebbiano l’acqua.

Lamantino (Shayan Asgharnia, August/Contrasto)

In alcuni punti i vecchi gradienti di luce si sono appiattiti, i colori e le inclinazioni visive dei ciclidi non contavano più e il numero di specie è crollato: spegnendo la luce nel lago, gli esseri umani hanno anche spento il motore sensoriale della diversità, contribuendo a quella che Seehausen ha definito “l’estinzione su vasta scala più veloce mai osservata”.

Man mano che queste specie si estinguono, sparisce anche il loro umwelt. Con ogni creatura che svanisce, perdiamo un modo di interpretare il mondo. Le nostre bolle sensoriali ci impediscono di cogliere quelle perdite, ma non ci proteggono dalle loro conseguenze. Nei boschi del New Mexico, gli ecologi Clinton Francis e Catherine Ortega hanno scoperto che la ghiandaia di Woodhouse evita il rumore dei compressori usati per l’estrazione del gas naturale. Le ghiandaie spargono i semi dei pini pinyon e un singolo uccello può sotterrare migliaia di semi all’anno. Sono così importanti per le foreste che, nelle zone tranquille dove prosperano ancora, le piantine di pino sono quattro volte più numerose che nelle aree rumorose che hanno abbandonato, come Francis e i suoi colleghi hanno scoperto con uno studio successivo.

I pini pinyon sono fondamentali per l’ecosistema che li circonda, una singola specie fornisce cibo e riparo a centinaia di altre, compresi i nativi americani. Perderne tre quarti sarebbe disastroso. E siccome crescono lentamente, “il rumore potrebbe avere conseguenze per oltre un secolo, per l’intero ecosistema”, dice Francis. Una migliore comprensione dei sensi di altri animali può farci capire come stiamo deturpando il mondo naturale, e può anche indicarci i modi per salvarlo.

Nel 2016 per il suo dottorato il biologo marino Tim Lamont (in precedenza Tim Gordon) è andato a studiare la Grande barriera corallina australiana. Avrebbe dovuto passare i mesi nuotando tra il vivido splendore dei coralli, ma un’ondata di calore li aveva costretti a espellere le alghe simbiotiche che gli davano nutrimento e colore. Senza queste partner, i coralli erano morti di fame e si erano sbiancati: era stato il peggior sbiancamento mai registrato, e il primo di molti a venire. Facendo snorkeling tra questi resti, Lamont ha scoperto che le barriere coralline erano state non solo sbiancate ma anche ridotte al silenzio. I gamberetti non schioccavano più. I pesci pappagallo non scricchiolavano. Questi suoni normalmente guidano i pesciolini verso la barriera corallina nei loro primi pericolosi mesi in mare. La barriera senza suoni era molto meno attraente.

Lamont temeva che se i pesci avessero evitato le barriere coralline degradate, le alghe di cui normalmente si nutrono sarebbero andate fuori controllo, crescendo più dei coralli sbiancati e impedendogli di far rimbalzare i suoni. Lui e i suoi colleghi hanno installato altoparlanti che riproducevano continuamente registrazioni di barriere coralline sane su chiazze di macerie di corallo. Il team s’immergeva spesso per controllare la situazione. Dopo quaranta giorni, ha fatto i conti e ha visto che nelle barriere coralline arricchite acusticamente c’era il doppio dei pesci giovani rispetto a quelle silenziose e il 50 per cento in più di specie. Non solo erano state attratte dai suoni, ma erano rimaste e avevano formato una comunità. “È stato un bell’esperimento”, dice Lamont. Ha dimostrato quello che i biologi della conservazione possono fare “vedendo il mondo attraverso le percezioni degli animali che stanno cercando di proteggere”.

L’esperimento è stato possibile solo perché Lamont e i suoi colleghi sono riusciti a registrare i suoni delle barriere coralline sane prima che fossero sbiancate. I paesaggi sensoriali naturali esistono ancora. C’è ancora tempo per preservarli e ripristinarli prima che l’ultima eco dell’ultima barriera corallina svanisca dalla memoria. E nella maggior parte dei casi, questo lavoro è piuttosto facile: invece di aggiungere gli stimoli che abbiamo rimosso, possiamo semplicemente rimuovere quelli che abbiamo aggiunto. Le scorie radioattive possono impiegare millenni per degradarsi. Sostanze chimiche persistenti come il pesticida ddt possono penetrare nei corpi degli animali molto tempo dopo essere state vietate. La plastica continuerà a inquinare gli oceani anche se tutta la produzione si fermasse domani. Ma l’inquinamento luminoso cessa appena si spengono le luci. L’inquinamento acustico diminuisce una volta che i motori e le eliche si riducono. L’inquinamento sensoriale è un’inezia ecologica: un raro esempio di problema planetario che può essere affrontato immediatamente e in modo efficace. Nella primavera del 2020 il mondo lo ha inconsapevolmente fatto.

Il canto degli uccelli

Con la diffusione del coronavirus, gli spazi pubblici sono stati chiusi. Gli aerei sono stati lasciati a terra. Le auto sono rimaste parcheggiate. Le navi da crociera attraccate. A circa 4,5 miliardi di persone – quasi i tre quinti della popolazione mondiale – è stato imposto o consigliato di rimanere a casa. Di conseguenza, molti luoghi sono diventati sostanzialmente più bui e silenziosi. Con meno aerei e auto in movimento, nei cieli notturni intorno a Berlino c’era la metà della luce abituale. Nella riserva di Glacier bay, un santuario delle megattere in Alaska, c’era metà del rumore dell’anno precedente, e la stessa cosa succedeva nelle città e nelle aree rurali della California, nello stato di New York, in Florida e in Texas. I suoni che normalmente sarebbero stati ovattati sono diventati più chiari.

Gli abitanti delle città di tutto il mondo hanno improvvisamente notato il canto degli uccelli.

In una moltitudine di modi, la pandemia ha dimostrato che l’inquinamento sensoriale può essere ridotto se le persone sono abbastanza motivate a farlo, e che questa riduzione non implica le terribili conseguenze di un blocco globale. Nell’estate del 2007 Kurt Fristrup e i suoi colleghi del National park service hanno fatto un semplice esperimento al Muir Woods national monument, in California. In momenti diversi scelti a caso, hanno attaccato cartelli che dichiaravano una delle aree più popolari del parco zona del silenzio e invitavano i visitatori a spegnere i loro telefoni e abbassare la voce. Questi semplici accorgimenti, non accompagnati da obblighi, hanno ridotto i livelli di rumore del parco di tre decibel, l’equivalente di 1.200 visitatori in meno.

La natura selvaggia non è lontana. Ci siamo continuamente immersi

Per intaccare veramente l’inquinamento sensoriale, però, sono necessari accorgimenti più seri. Le luci possono essere attenuate o spente quando edifici e strade non sono usati. Possono essere schermate in modo che non brillino sopra l’orizzonte. I led possono essere cambiati dal blu o bianco al rosso. Le pavimentazioni con superfici porose possono assorbire il rumore dei veicoli in transito. Le barriere fonoassorbenti possono attenuare il frastuono del traffico e delle fabbriche. I veicoli possono essere deviati da importanti aree naturali, o possono essere costretti a rallentare. Nel 2007, quando sul Mediterraneo le navi commerciali hanno cominciato a rallentare solo del 12 per cento, per risparmiare carburante e ridurre le emissioni, hanno prodotto la metà del rumore. Le navi possono essere costruite con scafi ed eliche più silenziosi, come già si fa per mimetizzare le navi militari (così sarebbero anche più efficienti in termini di consumo di carburante).

Potremmo regolamentare le industrie che causano inquinamento sensoriale, ma non c’è la volontà. “L’inquinamento da plastica nel mare ci sembra una cosa terribile e siamo tutti preoccupati, mentre l’inquinamento acustico in mare è qualcosa che non sperimentiamo direttamente, quindi nessuno s’indigna”, dice Lamont. E mentre profaniamo gli ambienti sensoriali, ci abituiamo ai risultati. Il nostro mondo accecante e squillante diventa normale e la natura incontaminata ci sembra più lontana.

Ma la maestosità della natura non consiste solo nei canyon e nelle montagne. Possiamo trovarla anche nelle terre selvagge della percezione, negli spazi che si trovano al di fuori del nostro umwelt e all’interno di quello di altri animali. Cogliere il mondo attraverso i sensi degli altri significa trovare lo splendore nella familiarità e il sacro nel mondano. Le meraviglie esistono nel nostro giardino di casa, dove le api prendono la misura dei campi elettrici di un fiore, le cicaline inviano melodiche vibrazioni attraverso gli steli delle piante e gli uccelli osservano le tavolozze nascoste dei colori ultravioletti sulle piume dei loro compagni di stormo. La natura selvaggia non è lontana. Ci siamo continuamente immersi. È lì e la possiamo immaginare, assaporare e proteggere.

Punti di vista

Nel 1934, dopo aver studiato i sensi di zecche, cani, taccole e vespe, Jakob von Uexküll scrisse dell’umwelt dell’astronomo. “Grazie a giganteschi ausili ottici”, questa creatura unica ha occhi che “sono in grado di penetrare nello spazio fino alle stelle più lontane. Nel suo umwelt, soli e pianeti girano a un ritmo solenne”. Gli strumenti dell’astronomia possono catturare stimoli che nessun animale è in grado di percepire naturalmente: raggi x, onde radio, onde gravitazionali provenienti dalla collisione di buchi neri. Estendono l’umwelt umano attraverso l’universo e tornano alle sue origini.

Gli strumenti dei biologi sono più modesti, ma anche quelli permettono di gettare uno sguardo sull’infinito. Gli scienziati hanno usato occhiali per la visione notturna per dimostrare che le api possono vedere nell’oscurità più profonda, minuscoli microfoni per origliare i canti vibrazionali delle cicaline ed elettrodi per ascoltare gli impulsi dei pesci elettrici. Con microscopi, telecamere, altoparlanti, satelliti e registratori, gli esseri umani hanno esplorato altri mondi sensoriali. Abbiamo usato la tecnologia per rendere visibile l’invisibile e udibile l’inudibile.

Nessun animale può percepire tutto, e nessuno ha bisogno di farlo. Evolvendosi in base alle necessità del loro proprietario, i sensi smistano un’infinità di stimoli e lasciano passare solo quello che è rilevante. Conoscere il resto è una scelta. La capacità d’immergersi in altri umwelt è la nostra più grande abilità sensoriale. Una falena non saprà mai cosa sente un fringuello zebra nella sua canzone, un fringuello zebra non sentirà mai il ronzio elettrico di un pesce coltello fantasma, un pesce coltello non vedrà mai attraverso gli occhi di una canocchia, una canocchia non potrà mai annusare come un cane e un cane non capirà mai cosa vuol dire essere un pipistrello.

Neanche noi faremo mai tutte queste cose completamente, ma siamo l’unico animale che può provarci.

Con l’osservazione paziente, con le tecnologie a nostra disposizione, con il metodo scientifico e, soprattutto, grazie alla nostra curiosità e immaginazione, possiamo provare ad assumere punti di vista diversi dal nostro. Questo è un dono importante, che comporta una pesante responsabilità. Essendo l’unica specie che può avvicinarsi alla comprensione di altri umwelt, ma anche la specie più responsabile della distruzione di quei regni sensoriali, spetta a noi sfruttare tutta la nostra empatia e il nostro ingegno per proteggere altre creature e il loro modo unico di percepire il mondo che condividiamo. ◆ bt

Ed Yong è un giornalista scientifico britannico di origine malese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Contengo moltitudini (La nave di Teseo 2019). Questo articolo è un adattamento del suo ultimo libro An immense world: how animal senses reveal the hidden realms around us (Random House 2022), che sarà pubblicato in Italia il prossimo da La nave di Teseo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1475 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati