Editoriali

Un’antiabortista a Strasburgo

Il 18 gennaio il parlamento europeo ha eletto alla presidenza la deputata maltese di centrodestra Roberta Metsola, che prenderà il posto di David Sassoli. Metsola, giurista di 43 anni e finora vicepresidente del parlamento, è la terza donna a presiedere l’istituzione dopo le francesi Simone Veil e Nicole Fontaine. Il sostegno alla sua candidatura non è stato unanime. Molti deputati non gradiscono che Metsola, cattolica praticante come la maggior parte dei suoi compatrioti, sia contraria al diritto all’aborto. Malta, unico paese dell’Unione europea dove l’interruzione volontaria di gravidanza è ancora illegale, ha negoziato un’esenzione nel 2004 al momento dell’adesione. Nel 2021 Metsola si è astenuta su una risoluzione contro la violenza sulle donne insieme a novanta esponenti del Partito popolare europeo.

La nuova presidente del parlamento ha posizioni progressiste su altri grandi temi (immigrazione, diritti lgbt, stato di diritto, corruzione), fa parte dell’ala meno conservatrice del suo gruppo parlamentare e non è considerata vicina all’estrema destra. Inoltre è una dei pochi politici maltesi ad aver criticato apertamente il governo dopo l’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia nel 2017.

Tuttavia la scelta di una presidente che si oppone all’aborto, in un momento in cui le donne polacche lottano contro i tentativi del loro governo di privarle di questo diritto, contraddice gli obiettivi e i valori dell’Unione. Anche se il diritto all’aborto non è minacciato nel parlamento europeo, che non ha alcuna competenza per legiferare in materia, la scelta contrasta con l’opinione dominante nell’istituzione, dove la difesa dei diritti delle donne è stata oggetto di diverse risoluzioni. Sono stati i calcoli politici e le manovre per la spartizione delle cariche a convincere i socialdemocratici e i liberali a sostenere la candidatura di una deputata di cui non condividono le posizioni. ◆ as

Vent’anni di Guantanamo

Vent’anni fa, l’11 gennaio 2002, i primi prigionieri entravano nel campo di detenzione costruito nella base navale di Guantanamo, enclave statunitense a Cuba. Erano venti afgani accusati di terrorismo, che per tutte le venti ore del volo da Kandahar erano rimasti incatenati. Sbarcarono con indosso tute arancioni e incappucciati, e furono rinchiusi in gabbie all’aperto perché il carcere era ancora in costruzione.

L’amministrazione statunitense di George W. Bush voleva creare una struttura dove i detenuti non fossero protetti dalle garanzie della costituzione degli Stati Uniti e dalle convenzioni di Ginevra sui prigionieri di guerra. Furono dichiarati nemici combattenti senza stato, e il loro carcere fu concepito come un limbo giudiziario a tutti gli effetti. A Guantanamo sono state rinchiuse persone sequestrate illegalmente in paesi terzi, imprigionate a tempo indefinito e senza processo. Nel carcere è stata praticata la tortura, usando la privazione del sonno e il waterboarding (annegamento simulato). La giustificazione per questi abusi era la guerra globale contro il terrorismo lanciata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ma il mostro ha assunto una vita propria. A causa della continua opposizione dei repubblicani, nemmeno Barack Obama è riuscito a farla finita con Guantanamo, nonostante il giorno dopo il suo insediamento avesse firmato un decreto per ordinarne la chiusura. Donald Trump ha addirittura voluto aumentare il numero dei detenuti. Joe Biden, a un anno dal suo insediamento, non è ancora riuscito a mantenere la promessa di chiuderlo.

Da Guantanamo sono passati più di 700 detenuti, tutti di religione islamica. Al momento vi sono rinchiuse 39 persone. Solo dieci sono state ufficialmente incriminate, mentre contro 27 non è stata formalizzata alcuna accusa. Negli ultimi vent’anni sono morti nove detenuti, due per cause naturali e sette per suicidio. Circa settecento detenuti hanno lasciato Guantanamo, al termine di complicate trattative sulle contropartite con i paesi di destinazione. Mantenere la struttura costa 540 milioni di dollari all’anno, ma il danno politico e d’immagine subìto dagli Stati Uniti a causa di questa aberrazione legale è ancora più grande. Guantanamo, in un certo senso, è diventata una bandiera della disumanità, ed è servita come giustificazione per le violazioni dei diritti umani in tutto il mondo. ◆ as

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1444 - 21 gennaio 2022
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