Jair Bolsonaro è stato sconfitto alle urne e il 1 gennaio 2023 lascerà il palazzo del Planalto, la sede della presidenza della repubblica brasiliana. Ma lui e la sua politica sono ancora vivi. Anzi, sono rinvigoriti dal voto di 58 milioni di brasiliani fatti a immagine e somiglianza del loro messia. Sono qui, condividono lo stesso territorio: il Brasile.

Subito dopo il secondo turno delle elezioni del 30 ottobre abbiamo visto i sostenitori fare una specie di saluto nazista, marciare con indosso la maglietta della nazionale, cantare l’inno e intonare solennemente il suo primo verso, “Ascoltarono dell’Ipiranga i placidi margini”, rivolgendosi alla ruota di una macchina. Non chiedetemi perché abbiano scelto uno pneumatico: non ne ho idea. I bolsonaristi sono intorno a noi, a volte in casa nostra, e pensano che sia legittimo chiedere qualcosa che non lo è: il ritorno della dittatura.

Come possiamo convivere con queste donne e questi uomini?

Siamo di fronte a una malattia sociale che ha bisogno di essere trattata come tale. E affrontarla sarà compito del nuovo governo. Messe di fronte a un fatto incontestabile, cioè la vittoria di Lula, queste persone hanno perso la ragione. Il problema non è solo di certe scene diventate memi, come quella dell’uomo rimasto aggrappato per chilometri a un camion che aveva sfidato i blocchi stradali golpisti; o di gesti criminali, come intonare l’inno nazionale facendo il saluto nazista, cosa che è successa a São Miguel do Oeste, nello stato di Santa Catarina. Di fronte a un fatto incontestabile, la vittoria di Lula, queste persone hanno festeggiato l’arresto mai avvenuto del presidente del tribunale superiore elettorale, Alexandre de Moraes. Hanno creduto alla notizia falsa e hanno celebrato un fatto che non è mai successo. Hanno esultato anche per l’arresto del pedagogo Paulo Freire, trasformato in un nemico del bolsonarismo. Peccato che Freire sia morto nel 1997.

Come società, dobbiamo restare con i piedi ben piantati a terra. Al divorzio dalla realtà bisogna rispondere con maggiore realismo, e la realtà più profonda è la vita. Il modo migliore di combattere il progetto di morte connaturato alla sopravvivenza del bolsonarismo e dei suoi seguaci sarà restare fedeli alla vita.

Dico questo perché noi, la parte della società brasiliana spaventata dalla falsificazione della realtà e sequestrata per quattro anni da un criminale in grado di usare la macchina dello stato contro la popolazione, ci siamo ammalati a nostra volta. I sintomi sono da tutte le parti. Non ho dati per dimostrarlo ma ho la percezione che intorno a me molti abbiano contratto qualche malattia, come se il corpo avesse finalmente potuto cedere, sicuro del riparo offerto dal risultato delle urne. Il nostro malessere, che il corpo esprime attraverso disturbi curabili con la medicina, è tuttavia molto più persistente nella soggettività. Siamo ancora segnati dal bolsonarismo e dai suoi abusi quotidiani. Siamo legati a quell’orrore come l’ostaggio al suo sequestratore. È arrivato il momento di liberarci.

Il patto con la vita non comincia e finisce con l’individuo. È il momento in cui il singolo scopre che può esistere solo in relazione all’altro

Pensare al presente

Se la nostra sgangherata democrazia è arrivata fino a qui è stato grazie alla resistenza dei collettivi e delle istituzioni che, nonostante i grandi problemi, hanno saputo fissare dei limiti, specialmente durante l’anno elettorale. È stato grazie agli squarci di vita a cui ci siamo aggrappati se siamo riusciti a respirare. È arrivato il momento di trasformare questi squarci in orizzonte.

Dobbiamo andare avanti, ma senza preoccuparci di quello che i sostenitori di Bolsonaro fanno ogni giorno e continueranno a fare se non riusciremo a dare una risposta, come società, alla malattia che ci affligge. Questo non significa ignorare la realtà che rappresentano. Significa non esserne più condizionati, e creare una relazione profonda con la vita.

Abbiamo bisogno di essere. Non in contrapposizione a loro, come è stato finora, ma lavorando per il nostro presente, e possiamo farlo solo immaginando questo presente, non il futuro, ma solo il qui e ora.

Bisogna fare quello che ci fa stare bene, tornando all’arte, alla danza, alla poesia, a un’educazione emancipatrice, alla spiritualità, all’allegria della convivenza. Dobbiamo immaginare la nostra vita e immaginare un paese, liberare la soggettività dopo quattro anni di risvegli agitati dal pensiero di quello che loro facevano, dicevano, cospiravano. E di quello che dovevamo fare per difenderci. Dobbiamo unire tutte le nostre forze. Anzi, unirle non basta. Dobbiamo mescolarle.

L’ho imparato vivendo in Amazzonia e osservando i popoli della foresta, come un’apprendista alle prime armi. Se la foresta esiste nonostante tutti gli attacchi è perché vive ferocemente. Dove c’è morte, c’è sempre la vita che si sovrappone. Quello che si secca fino quasi a svanire, alle prime piogge si risveglia selvaggiamente. Ciò che muore è subito divorato per garantire la vita di qualcos’altro. Ci sono fiori che sbocciano nei luoghi più devastati, animali che seminano foreste tutto il tempo, funghi che comunicano tra loro in grandi gruppi, alberi immersi in conversazioni senza fine. Abbiamo costruito le nostre case – un atto violento perché distrugge la casa degli altri – e la foresta passa il tempo sabotando quello che abbiamo costruito, provando a divorarci e a imporsi una volta di più. È impossibile dimenticare un avanzo per un minuto senza che subito migliaia di animali o insetti lo trasformino nel proprio pasto o in materiale per costruire la loro casa. Se lasciamo che succeda per giorni, diventa un ecosistema, un minipianeta.

Sono certa che la natura saprà immaginare di nuovo se stessa dopo la nostra sparizione da questo pianeta; e dopo la sparizione delle multinazionali legali e illegali, dei suoi azionisti e dirigenti, dei leader loro servi, di quella parte dei parlamenti e del sistema giudiziario che hanno favorito il cambiamento del clima e del pianeta.

Chi vive vuole vivere. Forse l’inettitudine di gran parte della società rispetto a quanto danneggia ogni giorno la natura può suggerire che gran parte dell’umanità è come se fosse morta. È il momento di abbandonare il regno dei morti e convincerci che vogliamo vivere. Per farlo dobbiamo lasciarci alle spalle la battaglia quotidiana contro il bolsonarismo e riprendere il nostro impegno e il gusto delle piccole cose.

Il patto con la vita non è un’azione che comincia e finisce con l’individuo. È la presa di coscienza in cui il singolo scopre che può esistere solo in relazione all’altro. In ambito pubblico significa lottare, insieme, perché chi ha fame possa mangiare. Lottare, insieme, affinché Bolsonaro e tutti i criminali del suo governo siano messi sotto inchiesta, giudicati e puniti, perché è stata proprio l’impunità dei criminali della dittatura a produrre Bolsonaro e la sua politica. L’impegno in ambito pubblico è lottare, insieme, per identificare e giudicare chi è stato il mandante dell’omicidio della consigliera comunale Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes. È combattere il razzismo, compreso quello commesso quotidianamente contro le altre specie viventi. Il patto con la vita è convivere, un verbo che ci è stato proibito: lottare mentre balliamo, produciamo arte, conversiamo, festeggiamo, baciamo e ridiamo fino ad avere mal di pancia. Ridiamo con l’altro, non dell’altro. Divertirsi a spese dell’altro, e non con l’altro, è stata la perversione della politica di Bolsonaro.

È questo shock della realtà, o della vita che s’impone ferocemente ma avevamo dimenticato, che può curare i malati sociali del bolsonarismo al di là del risultato elettorale. È quella forza primordiale che spinge la gente a fare figli mentre il pianeta è vicino al collasso climatico e il fascismo si diffonde nel mondo, non come un virus ma come solo l’essere umano sa diffondersi e produrre morte.

Un pianeta interconnesso

Più che la ricostruzione di un paese, la vittoria di Lula significa la possibilità di riconnetterci con la realtà. Per farlo dobbiamo evitare di mistificare il leader del Partito dei lavoratori, facendo lo stesso errore del passato. Non abbiamo un paese da ricostruire: significherebbe dare credito al mito che c’era un Brasile a cui tornare. Se fosse stato così, né Bolsonaro né i suoi sostenitori sarebbero emersi dall’intestino del paese. C’è un Brasile da immaginare: un paese senza razzismo e senza fame. Dobbiamo immaginare soprattutto un pianeta che abbia al centro la vita e non il mercato, un cambiamento che determinerà tutti gli altri. Immaginare per emancipare il presente dalla sua mancanza di futuro.

Itacaré, stato di Bahia, agosto 2020 (Cristina de Middel, Magnum/Contrasto)

Per renderlo possibile, la foresta deve poter restare foresta. Secondo l’opinione degli scienziati, l’Amazzonia arriverà a un punto di non ritorno – cioè non riuscirà più ad agire come grande regolatrice del clima – quando la deforestazione sarà tra il 20 e il 25 per cento della superficie totale. Siamo molto vicini al 20 per cento. Non è una distruzione omogenea: alcune parti sono già oltre il punto di non ritorno e producono più anidride carbonica di quanta ne assorbano; altre, come le riserve dei popoli nativi, le più protette, sono ancora distanti da quel punto. Ma la foresta è interconnessa: tutto quello che succede al suo interno produce una reazione a catena, che a sua volta ricade su un pianeta diversificato ma intimamente legato.

La sconfitta di Bolsonaro rappresenta un’occasione unica per fermare la distruzione dell’Amazzonia e trovare il modo di recuperare le aree degradate prima che diventi impossibile. L’azione più efficace è delimitare le riserve indigene dove non è ancora stato fatto. Non si tratta di fare favoritismo a vantaggio delle popolazioni native. Innanzitutto perché la costituzione del 1988 stabilisce che i confini di tutte le terre dei popoli indigeni dovevano essere tracciati entro cinque anni. Ne sono già passati trenta e la volontà della costituzione non è stata rispettata. Secondo, perché da questo dipende la qualità della vita di tutti, degli abitanti di qualunque città brasiliana e del pianeta. Il governo eletto deve riconoscere le comunità _quilombolas _(formate dai discendenti degli schiavi fuggiti dalle piantagioni), ampliare le unità di conservazione ambientale e proteggere tutto quello che con Bolsonaro è stato lasciato senza protezione.

E non solo. Anche prima dell’elezione di Bolsonaro il sistema di protezione era molto al di sotto delle aspettative. Il governo eletto deve procedere con la riforma agraria in Amazzonia, riconoscendo e aiutando gli insediamenti dei contadini che portano avanti un’agricoltura sostenibile. Chi vive nella foresta pluviale e assiste ai massacri commessi contro le coltivazioni familiari e gli insediamenti sa che senza riforma agraria non sarà possibile proteggere l’Amazzonia.

Quello che si deve fare è noto da tempo: ci sono piani e progetti in ogni direzione, anche per espellere i ventimila garimpeiros (cercatori d’oro illegali) che operano nella terra indigena yanomami, in parte ridotta in stato di schiavitù.

Lula è stato eletto con un’alleanza larga che va da Marina Silva, ministra dell’ambiente tra il 2003 e il 2008, a cui si deve l’indice più basso di deforestazione dell’Amazzonia, fino a personaggi noti per essere predatori della foresta e di altri ecosistemi come il Cerrado. Non ce l’avrebbe fatta senza questa coalizione. Ma quello che ha permesso a Lula di vincere di misura, tuttavia, potrebbe ancora impedire la protezione dell’Amazzonia. Questa dev’essere un impegno radicale perché dalla foresta dipende la nostra vita e perfino quella di chi la distrugge, anche se non se ne rende conto.

Non basterà creare un ministero dei popoli nativi guidato da una persona indigena. Bisognerà che abbia un potere vero. È fondamentale che la sbandierata trasversalità della questione climatica sia assicurata dal nuovo governo: dovrà interessare e guidare tutti i ministeri. Quanto più il pianeta si scalda, con i suoi effetti a catena visibili a occhio nudo, tanto più si accentuano le disuguaglianze di genere, etnia e classe.

Da sapere
La deforestazione rallenta

◆ Tra l’agosto 2021 e il luglio 2022 la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana ha rallentato. Il 30 novembre 2022 l’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe) ha reso noto che in quel periodo sono stati distrutti 11.568 chilometri quadrati di foresta. Un dato enorme, ma in calo dell’11 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando la deforestazione ha raggiuto il punto più alto degli ultimi quindici anni. Lo stesso giorno un portavoce del presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha detto che la squadra di transizione vuole stringere accordi con i rappresentanti dell’industria della soia per fermare la deforestazione del Cerrado, una savana tropicale. Reuters


Anche se nessuno sarà risparmiato, saranno comunque le donne, i neri e i più poveri i primi a essere colpiti, come i fatti stanno già dimostrando. I multimilionari costruiscono bunker di lusso sottoterra in paesi come la Nuova Zelanda, nel tentativo di mettersi al riparo. Miliardari come Elon Musk, il nuovo padrone di Twitter, sperano di trovare un altro pianeta da colonizzare. Le promesse fatte da Lula in campagna elettorale saranno esaudite se i popoli nativi e tradizionali (gli abitanti dei quilombo, delle zone lungo i fiumi e decine di altri) saranno ascoltati. Tuttavia l’ascolto non è sufficiente: è necessario che questi popoli siano anche protetti. I movimenti per i diritti dei neri hanno insegnato alla società brasiliana che senza divisione dei poteri la struttura sociale non cambia. È necessario che i popoli della foresta e quelli delle altre enclave naturali occupino posizioni nel futuro governo, anche di primo piano.

La squadra della transizione e del nuovo esecutivo che s’insedierà il 1 gennaio 2023 dovrà includere più donne, più persone afrodiscendenti (che sono la maggioranza dei brasiliani), più indigeni e altri rappresentanti dei popoli della foresta. Dovrà essere un governo meno binario e cisessuale, ma più evangelico, con rappresentanti che rispettino lo stato laico.

La sinistra brasiliana dovrebbe ormai aver capito quanto sia imprudente, anzi impossibile, ignorare la forza crescente degli evangelici nel paese. Far finta che il fenomeno non esista rafforza solo quei pastori avidi di soldi che usano il fondamentalismo per ricattare e arricchirsi, e fa perdere sostegno ai leader evangelici che invece vogliono lavorare per il Brasile senza imporre la loro religione.

Con l’allegria

Come potrà realizzarsi tutto questo con la grande alleanza che ha portato Lula alla vittoria e con un vicepresidente come Geraldo Alckmin (di centrodestra)? Grazie alla pressione della società brasiliana. Senza, per Lula sarà molto difficile mantenere le promesse fatte in campagna elettorale sull’Amazzonia e la crisi climatica. Al di là delle posizioni contrastanti al suo interno, il futuro governo dovrà vedersela con un parlamento perfino peggiore di quello attuale, in cui le forze legate agli affari dell’agricoltura predatoria saranno sia alla camera che al senato. Per poter crescere, la società brasiliana dovrà garantire la sostenibilità delle proposte avanzate per tutelare l’Amazzonia e tutto il patrimonio naturale del paese. La stessa energia impiegata a far vincere Lula ora ­dev’essere riattivata affinché il presidente realizzi le sue promesse sulla foresta pluviale e sul contrasto alla crisi climatica.

Siamo in guerra, non fatevi illusioni. Non è una guerra tra noi e i bolsonaristi. È una guerra tra la minoranza che, come dice lo sciamano Davi Kopenawa Yanomami, si è mangiata il pianeta e una maggioranza che sta vivendo in un pianeta più ostile. Il Brasile ha un ruolo fondamentale in questa guerra: non a causa dell’agricoltura industriale che distrugge l’Amazzonia e il Cerrado per produrre la soia con cui dar da mangiare agli animali schiavizzati di tutto il mondo, ma perché nel suo territorio ospita il 60 per cento della maggior foresta tropicale del pianeta.

I presidenti degli Stati Uniti e dei paesi europei si sono affrettati a fare i complimenti a Lula dopo la sua vittoria non per il ruolo del Brasile, ma per l’Amazzonia. Se la foresta pluviale scompare, finisce anche l’interesse per il Brasile. Indipendentemente da chi lo governi, il paese sarà per sempre ridotto a paria per aver esposto l’umanità a un grave rischio. È il momento di agire tenendo presente la realtà: il Brasile oggi è la periferia dell’Amazzonia.

Non si tratta più di scegliere tra lottare e non lottare, ma di decidere come farlo. Lotteremo come se fossimo una foresta, aggrappandoci agli squarci di vita per trasformarli in orizzonti, usando l’allegria come strumento di resistenza, immaginando il paese in cui vogliamo vivere. Occupando, come fa la natura, tutti gli spazi disponibili, respirando l’ultimo soffio di vita delle terre devastate e rinascendo, sabotando i signori della morte giorno dopo giorno per riaffermare la vita.

Lottare come foresta è questo: immergersi radicalmente nella vita. ◆ ar

Eliane Brum è una scrittrice, giornalista e documentarista brasiliana. A settembre di quest’anno ha fondato il sito Sumaúma (dal nome di un grande albero amazzonico) per raccontare la crisi climatica concentrandosi sull’Amazzonia. Vive ad Altamira, nello stato del Pará. In Italia ha pubblicato Le vite che nessuno vede (Sellerio 2020).

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Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati