Oggi ho messo il reggiseno
di mia nonna, che è morta.
È nero, in pizzo
e mi sta a pennello.
Sono sorpresa. Eravamo
così diverse. Lei
fino alla notte prima
di morire continuava
a lavarsi il viso
e a usare tutte le sue cremine antirughe
io invece fatico alle volte, alle volte
mi bocciano all’esame di serotonina, parlo
la lingua errante della depressione endogena,
ho gli sbilanciamenti chimici, carmici
di questa stessa nonna che anni prima
per poco non si dissangua nella vasca da bagno,
quando mia madre era piccola, e che salì in macchina
dicendo che non sarebbe tornata più, voglio dire
che alle volte mi ottenebro come lei,
che il corpo mi si fa autunno nonostante la spavalderia.
Ma poi è cambiata. Non ha voluto
morire mai più, persino quando le si è chiuso il cerchio dell’età,
e il suo corpo lo desiderava
lei si è astenuta, preferiva
non farlo. E oggi
ho messo
i pizzi nerissimi del suo reggiseno,
perché ho ribaltato i sassi dei fiumi,
perché, in sostanza, quel che desidero
ereditare da lei è proprio la sua voglia
di rimanere qui.
La ricordo:
il suo ultimo cibo su questa terra
una pesca caramellata.
La ricordo:
i suoi piedi non arrivavano al pavimento
quando si sedeva sulla sedia
della vecchia sala da pranzo.
Stesa sul letto dell’ultima notte,
mentre s’inabissava in quella sua morte senza scampo,
si afferrò con forza alla mia mano
come se io potessi riportarla indietro.
È morta
con le unghie laccate di rosso.
È la verità: si prega
di conformarsi
alle prove.
Nonna:
sono stata la tua discendenza
il tuo stato di latenza, la tua lattante,
la forma delle tue mani e i tuoi dubbi,
la pausa prima dell’agire.
Nonna: dura armonia di sangue e latte,
armistizio, sono stata
i debiti che hai dimenticato,
l’ombra del tuo corpo sull’asfalto,
la fibbia della tua scarpa destra.
Nonna. Gameti e pose delle labbra
di me bambina davanti allo specchio.
Nonna. Luce
di mezzanotte. Quei
sacchetti dove conservavi
sacchetti dove conservavi
bustine di zucchero
e minuscoli resti di immondizia,
splendente. Nonna. Chincaglie comprate a peso,
un carrillon, paccottiglia d’oro lenta.
Nonna. Bigiotteria. Pelle, capelli, occhi.
Dove sono? Così tanta materia inerte, così
biodegradabile.
Nonna, dormire ti faceva paura,
mi svegliavi.
Nonna, non ti passerà mai la fame,
e non cammini al buio sul tappeto,
e nemmeno una volta sei stata al mondo con fatica, a stento.
Ventaglio di oblii, sfascio di telomeri,
baravi sempre nei giochi da tavolo
e sopra ogni cosa volevi vivere
a dispetto del tuo corpo.
Nonna, stamattina
ho deciso di mettermi il tuo reggiseno di pizzo,
te lo ricordi?
La tua voglia di vivere
stretta al mio corpo,
la tua voglia
di afferrarti al mondo,
di rimanere qui.
Perché è proprio questo che desidero:
ereditare la tua voglia,
avere fame quando mi sveglio.
Perché non tutto il nero è lutto.
Lo sapevi.
Elisa Díaz Castelo è una poeta, scrittrice e traduttrice nata a Città del Messico nel 1986. Questa poesia è uscita nella raccolta Planetas habitables (Almadía 2023). Il titolo originale è Herencia electiva . La traduzione è di Monica Rita Bedana.
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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati