Gli eventi della scorsa settimana nella regione del Donbass hanno ricordato alla Russia la fragilità dell’assetto geopolitico che ha preso forma in seguito alla sua annessione della Crimea. Dopo una pausa di qualche anno, il Cremlino è di nuovo sul piede di guerra. Il New York Times ha riferito che Mosca ha ammassato truppe e mezzi al confine con la regione dell’Ucraina, in parte occupata dalle repubbliche secessioniste filorusse di Donetsk e Luhansk, che si sono autoproclamate indipendenti nel 2014. Alla radice dell’escalation sembra esserci lo scontro a fuoco del 26 marzo nel villaggio ucraino di Šuma, in cui sono stati uccisi quattro soldati (secondo Kiev, la responsabilità è dei miliziani della repubblica di Donetsk, la quale ha però negato ogni coinvolgimento, sostenendo che la morte dei militari sarebbe stata provocata da una mina).
Le azioni della Russia sono state interpretate da diversi osservatori come un segnale allarmante. Ma il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha affermato che gli spostamenti di truppe “non disturbano nessuno e non rappresentano una minaccia per nessuno”. Da parte sua, come ha notato il New York Times, Washington non si è ancora fatta un’idea definitiva delle motivazioni del Cremlino: “Alcuni funzionari ritengono che Mosca stia solo mostrando i muscoli e che non abbia intenzione di lanciarsi in un’offensiva militare. Altri sono più preoccupati e pensano che le intenzioni di Vladimir Putin non siano chiare e che la manovra, decisa per mettere alla prova il nuovo presidente statunitense, potrebbe rapidamente degenerare”.
Nel frattempo, il comando europeo dell’esercito degli Stati Uniti ha alzato al massimo il livello di allerta. Inoltre, per la prima volta in un documento ufficiale, il parlamento ucraino ha definito gli scontri nel Donbass un “conflitto armato russo-ucraino”, conseguenza “dell’aggressione armata della Federazione Russa”. Il ministro degli esteri ucraino, Dmitro Kuleba, ha detto che Mosca è impegnata in una “sistematica operazione” per aumentare la tensione nel Donbass, e il presidente Volodymyr Zelenskyj ha descritto le recenti operazioni russe come “una dimostrazione di forza”. Francia e Germania hanno invece rilasciato una dichiarazione congiunta in cui invitano tutti a fare un passo indietro: “Stiamo monitorando la situazione, in particolare i movimenti delle truppe russe, e invitiamo le parti a porre subito fine all’escalation militare”.
Aleksej Arestovič, il rappresentante di Kiev nel Gruppo di contatto trilaterale sul Donbass, ha affermato che le esercitazioni militari del programma Nato Defender Europe 2021 serviranno a prepararsi per un eventuale conflitto. “Per la Nato una guerra contro la Russia sarebbe un incubo. La retorica della leadership ucraina, che punta a far crescere la tensione e a inasprire il conflitto, si è spinta troppo oltre e sta portando a conseguenze terribili”, ha scritto per tutta risposta sul suo canale Telegram Vjačeslav Volodin, il portavoce della duma, la camera bassa russa.
Naturalmente, ci sono diverse interpretazioni di come le attuali tensioni possano fare il gioco di Putin. Ma anche se gli eventi recenti non dovessero portare a un conflitto aperto, la rapidità con cui è peggiorata la situazione mostra soprattutto la complessa eredità delle passate avventure del Cremlino in politica estera, le cui conseguenze dureranno ancora molti anni.
Nessuna opzione
La vera natura del problema del Donbass è stata chiara più o meno dall’annessione della Crimea nel 2014. Nell’autunno di quell’anno i politologi statunitensi Lincoln Mitchell e Alexander Cooley, della Columbia university, avevano paragonato la situazione del Donbass a quella dei “conflitti congelati”, sostenendo che la “pazienza strategica” era l’approccio meno rischioso per ottenere la reintegrazione dell’area nel territorio ucraino. L’idea era quella di aiutare l’Ucraina a diventare un fiorente stato democratico, come si era cercato di fare con la Georgia. Una volta avvenute queste trasformazioni, gli abitanti delle entità secessioniste non riconosciute – il Donbass ma anche l’Abkhazia e l’Ossezia del sud, in Georgia – avrebbero cercato spontaneamente la riunificazione. A grandi linee questo era il piano. Che però, all’atto pratico, si è tradotto in un’assenza d’iniziativa.
Nel frattempo la Russia ha sostenuto generosamente i separatisti. Le cifre esatte non sono note, dato che ufficialmente Mosca non riconosce le repubbliche di Donetsk e Luhansk e non ammette di aver partecipato al conflitto del 2014. Tuttavia, nel 2015 l’agenzia statunitense Stratfor calcolava che Mosca spendeva due miliardi di dollari all’anno per aiutare i secessionisti. Nella cifra non erano compresi i costi indiretti né le perdite causate dalle sanzioni e dal conseguente deterioramento dell’economia.
L’anno scorso gli analisti dell’Istituto di Vienna per gli studi economici internazionali hanno calcolato che per la ricostruzione del Donbass servirebbero 21,7 miliardi di dollari, equivalenti al 16 per cento del pil ucraino nel 2018. Kiev non può affrontare uno sforzo simile da sola. Ma c’è chi potrebbe essere pronto a lanciarsi nell’impresa. “Com’è successo con la Transnistria, regione secessionista della Moldova, è probabile che il Donbass orientale riceverà dalla Russia sussidi, contratti commerciali, investimenti infrastrutturali e, soprattutto, protezione militare”, scrivevano nel 2014 Mitchell e Cooley. “Inoltre le dimensioni della regione e il fatto che confina con la Russia indeboliscono ulteriormente gli argomenti a favore della ‘pazienza strategica’ come strumento per riportare il Donbass in Ucraina. Quindi quali opzioni ha Kiev?”.
O, meglio, c’è una via d’uscita civile e pacifica da questa situazione? La domanda, che ha ormai quasi sette anni, non ha ancora una risposta chiara. In realtà è difficile che una simile soluzione esista. E, a ben vedere, anche la “pazienza strategica” ha un limite. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1404 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati