Per Sophie, che mi ha dato la forza
Per molto tempo ho evitato di pronunciare il suo nome. Non perché avessi paura di comprometterlo: in fin dei conti il tizio è morto da diversi anni, in circostanze che ignoro, non ho mai voluto saperlo. E se l’ho saputo l’ho dimenticato subito, un po’ di proposito, un po’ a causa della rabbiosa confusione e del senso di colpa che per anni hanno impregnato il suo ricordo, la memoria di ciò che successe tra di noi quel mese di giugno del 2000, l’anno terribile in cui mi sono diplomata e sono diventata legalmente adulta.
Venivo da un’immensa scuola cattolica a cui non mi ero mai adattata e dove scoprii il piacere della ribellione più assurda, motivo per cui alla fine mi espulsero
In teoria ero una giovane promessa, recentemente selezionata tra più di ventimila aspiranti per studiare all’università pubblica di Veracruz, con il potenziale per laurearmi con il massimo dei voti e diventare la professionista di successo e socialmente responsabile di cui il ventunesimo secolo aveva bisogno, e che serviva ai miei genitori per curare le loro molteplici ferite narcisiste e dimostrare al mondo intero che il loro matrimonio patologicamente violento aveva senso e ragione di essere e che non era il peggiore errore commesso da entrambi nella vita. O almeno queste erano le mie più segrete e inconfessabili fantasie all’epoca, sepolte così in profondità nel substrato della mia anima inquieta che nemmeno io riuscivo a riconoscerle. Ero ancora giovane, e molto ingenua, nonostante la mia notevole intelligenza e la facciata da ragazza dura e sboccata con cui mi piaceva affrontare il mondo, totalmente cieca all’impulso oscuro che fin da bambina mi portava a dirigere contro me stessa la crudeltà che avevo imparato dagli adulti. Il cuore è ingannevole e perverso sopra ogni cosa, dice il profeta Geremia, e ingannevole e perversa è stata anche la storia che per anni mi sono raccontata per spiegarmi cosa successe a giugno del 2000. Per questo dubito molto, per questo esito e riscrivo e riformulo, più volte, i dettagli di questo paragrafo, e invento pretesti per non andare avanti, come la necessità di guardare di nuovo il ritratto che un fotografo anonimo mi scattò durante la cerimonia di consegna dei diplomi, o l’insistente impulso di rileggere un’altra volta la lettera che è appoggiata sulla mia scrivania e di verificare quello che ho sempre saputo: il vigliacco non l’ha mai firmata con il suo nome, si è limitato a dedicarmi un “addio” a mo’ di saluto, forse perché la lettera era troppo lunga e piena dei suoi reclami di amante respinto, o forse perché sapeva che firmare quello sfogo lo avrebbe compromesso ineluttabilmente se avessi deciso di denunciarlo, e davanti a questa certezza che mi fa arrabbiare capisco che è arrivato il momento di scrivere il suo nome, di confessare che si chiamava Sergio, anche se tutti lo chiamavano Chipo, che fu il mio professore di filosofia e letteratura al liceo, e che un pomeriggio di giugno dell’anno 2000, l’ultimo giorno di scuola dell’ultimo semestre dei miei studi, mi chiese di baciarlo e io accettai, e che ci ho messo vent’anni per perdonarmelo.
La reputazione di Chipo lo precedeva: si diceva che fosse il professore migliore di quella piccola scuola privata che frequentai l’ultimo anno delle superiori. Venivo da un’immensa scuola cattolica a cui non mi ero mai adattata e dove scoprii il piacere della ribellione più assurda e senza causa, motivo per cui alla fine mi espulsero nonostante i buoni voti. Situata in un edificio antico di calle Bolívar, con la facciata interamente coperta da una buganvillea violacea, la nuova scuola mi accolse con un ambiente progressista e rilassato, e presto diventò un vero rifugio. Per la prima volta nella mia adolescenza sentivo di essere arrivata in un luogo dove ero a mio agio.
Chipo era tutto quello che avevo sempre sognato in un insegnante: una persona generosa ed entusiasta che non si limitava a riempirci la testa con i nomi impronunciabili dei filosofi presocratici, ma ci spingeva con una didattica spensierata e divertente a mettere in discussione le strutture apparenti del mondo e a cercare, sopra tutte le cose, la verità e la libertà come finalità dell’esistenza. Ogni mattina arrivava in classe e dopo aver disposto in modo teatrale le sue cose sulla scrivania ci avvertiva con finta serietà: “Vediamo, canaglie, oggi mi permetterete di fare lezione? Parlerò per quindici minuti, vi chiedo solo quindici miseri minuti di concentrazione, massa d’ignoranti, poi potrete fare quello che vi pare”. In quei quindici minuti, ogni volta ci regalava un’esposizione brillante, piena di colloquialismi che ci facevano ridere, di un tema filosofico o letterario, e alla fine manteneva sempre la sua promessa di lasciarci in pace per il resto dell’ora. Però guai se qualcuno commetteva l’imprudenza d’interromperlo senza alzare la mano: il colpevole veniva immediatamente e sommariamente bersagliato da una scarica di gessetti lanciati a raffica dal professore.
La mia lezione preferita era quella di letteratura, dove ogni semestre dovevamo leggere una ventina di opere scelte da Chipo, soprattutto latinoamericane: romanzi e racconti di José Rubén Romero, Sergio Galindo, Rosario Castellanos, Elena Poniatowska, Carlos Fuentes, García Márquez, Borges, tra i tanti. Erano libri che avevo già letto, un po’ perché fin da bambina ero stata una lettrice vorace e autodidatta, ma anche perché volevo scrivere le mie storie. Mi emozionava la possibilità di scoprire i meccanismi delle mie opere di finzione preferite, così che nei due semestri in cui studiai con Chipo m’impegnai a leggere tre volte di più di quello che ci chiedeva, aggiungendo varietà al suo menù, con testi di Jorge Ibargüengoitia, José Agustín, Guillermo Fadanelli, Manuel Puig, Milan Kundera, Umberto Eco, William Burroughs, Charles Bukowski, Emil Cioran. Preparavo i miei resoconti con impegno e non esitavo a contraddire Chipo in classe, nonostante l’inevitabile pioggia di gessetti, perché volevo conquistare il suo rispetto: era l’unica persona che conoscessi che aveva la mia stessa appassionata ossessione per i libri. Fuori dalla classe lo cercavo nei corridoi per chiedergli cosa pensasse di quello scrittore o di quel regista. Gli scroccavo le sigarette nel piccolo locale in cui noi studenti ci riunivamo dopo le lezioni, e che anche lui frequentava, solo per passare più tempo in sua compagnia. Osai addirittura mostrargli l’unico racconto che ero riuscita a scrivere: un incubo iperaggettivato (“barocco” lo definivo) con protagonista un adolescente che s’immolava dando fuoco alla casa dei genitori, e in cui Chipo vide un linguaggio adeguato e una struttura eccezionale, risultati da non disdegnare per una scrittrice così giovane. Avevo talento, mi ripeteva ogni volta che parlavamo. Ero sulla buona strada e dovevo solo nutrire le mie capacità, imparare a essere paziente: continuare a leggere, continuare a vivere, continuare a scrivere, qualsiasi cosa fosse successo.
All’epoca scrivevo un diario da un anno. Guardo ora la copertina nera, maltrattata, quando lo apro a caso e con gli occhi scorro le pagine, mi accorgo quanto è difficile decifrarne il contenuto, non tanto per la mia grafia (di sicuro più contorta di quella attuale) ma a causa dell’ermetismo con cui mi riferivo ai fatti della mia vita.
Non era la tipica paura adolescenziale che i miei genitori scoprissero il mio diario e soppesassero la vera dimensione dei miei disturbi alimentari, della mia vita sessuale incipiente e del mio consumo di droghe; di certo entrambi erano assorbiti dalle rispettive crisi personali: mia madre, che all’epoca aveva 36 anni (due meno di me ora che scrivo queste parole), aveva rinunciato da poco al suo lavoro nell’azienda di famiglia, e in aperto contrasto con la madre dominante e con il resto della sua parentela invadente aveva deciso di diventare un’infermiera della Croce rossa locale. Passava molte ore lontano da casa, a volte notti intere, concedendomi la libertà di fare e disfare a mio piacimento. Anche mio padre attraversava un periodo complicato. Superati da poco i quarant’anni dirigeva da casa la sua personale e florida azienda di impianti elettrici, ma invece di essere soddisfatto perché gli affari andavano bene, sembrava scontento per la maggior parte del tempo. Non parlavamo mai della causa della sua inquietudine (non parlavamo quasi mai, io e lui, a parte di politica o per ridere di qualche ingenuità detta da mia madre), ma avevo l’impressione che non fosse felice della sua vita. Fu il periodo in cui cominciò a farsi crescere i capelli, a portare jeans strappati alle ginocchia e a pensare se comprarsi una moto, segni inquietanti che annunciavano una crisi di mezza età. Aveva sprecato la sua intera giovinezza, rimproverava a mia madre quando litigavano gridando con la porta chiusa; per questo doveva godersi la vita, per questo aveva ricominciato e bere e sniffava tutta la cocaina che voleva: aveva lavorato duramente per mantenerci e questo gli dava il diritto di fare quello che voleva.
Quindi i miei genitori non avevano né il tempo né l’interesse di frugare nella mia camera e leggere il mio diario. La mia pagella, come sempre, era piena di nove e di dieci, e questo bastava perché mi lasciassero tranquilla la maggior parte del tempo. Ma era una calma apparente: se mia madre mi sorprendeva che tornavo a casa ubriaca, o con gli occhi arrossati dalla marijuana, non ci pensava un attimo a prendermi a schiaffi per “risvegliarmi”. Mio padre preferiva le minacce: se non avessi fatto quello che diceva, avrebbe bruciato i miei libri e i miei dischi, o magari avrebbe messo nei guai T., il mio migliore amico di cui ero segretamente innamorata. Il fatto è che non ero ermetica perché avevo paura di essere letta. Era solo perché non ero capace di riconoscere la verità delle mie emozioni più intime e le sublimavo scrivendo cose inventate. Ero cresciuta sotto la tutela di due adolescenti insicuri e privati di affetto, e dalla culla avevo imparato a negare e a cancellare quello che sentivo per non scatenare il loro odio. Non potevo rischiare d’incrinare la corazza di bambina efficiente, e poi di adolescente cinica, che con tanta fatica avevo costruito per separare la mia anima indifesa dalla realtà. Quindi l’unico modo di sperimentare affetti intensi, conflittuali e ambivalenti – l’odio e la compassione che sentivo per i miei genitori; la tenerezza e la malinconia successive al sesso con T., o l’euforia contemplativa e spersonalizzante dell’lsd e della colla, le mie droghe preferite – era scrivere in terza persona, dietro la maschera di ego sperimentali, di esseri fittizi la cui manifestazione affettiva non comprometteva la mia sanità mentale né la tirannica necessità di nascondere gli strati più profondi del mio essere.
Eppure a volte scrivevo della mia vita con un linguaggio chiaro, spesso disperato.
Chipo era una persona generosa ed entusiasta che non si limitava a riempirci la testa con i nomi impronunciabili dei filosofi presocratici, ma ci spingeva con una didattica spensierata e divertente a mettere in discussione le strutture apparenti del mondo
A febbraio di quell’anno, per esempio, annotai: “Fanculo la scuola. Nessuno mi capisce. Solo Chipo mi apprezza. Solo Chipo riesce a vedermi”.
Amavo Chipo, ma in modo molto diverso da come amavo T., il mio migliore amico di allora e amante occasionale. Amavo Chipo con l’indefinitezza e l’abbandono con cui una ragazzina può amare l’unico adulto che è stato capace di vederla, vederla e amarla per com’è davvero. O questo era quello che credevo. Diverse volte arrivai a scuola che stavo a pezzi, pallida e dopo una notte insonne, depressa per la confusione che regnava a casa mia, malata di angoscia, e lo cercavo per chiedergli un abbraccio, per confessargli che volevo morire. Chipo non giudicava mai i miei sentimenti, non dubitava mai delle cose che gli raccontavo. Addirittura si offrì di tenere i miei libri preferiti a casa sua dopo un orribile litigio in cui mio padre devastò la mia stanza e mi lasciò chiusa in camera per ore. Stavo per compiere 18 anni e ingenuamente credevo che diventare maggiorenne mi avrebbe fatto sentire più in controllo della mia vita.
Non avevo la minima idea del fatto che io e Chipo parlassimo due lingue diverse. Parafrasando le idee di Sándor Ferenczi, psicoanalista ungherese ingiustamente disprezzato a suo tempo per essersi opposto ad alcune teorie del suo maestro Freud sulla natura fantasiosa dell’abuso sessuale, io parlavo con Chipo la lingua della tenerezza, la lingua della fantasia ludica, fingendo che quell’uomo fisicamente molto simile a mio padre (avevano anche la stessa età) fosse la figura paterna che mi mancava così tanto; mentre lui alla fine ha parlato la lingua della passione, venata di ansia e desiderio, di rabbia e tormento, presenti in quel bacio spaventoso che mi diede.
A un certo punto Chipo, che ci guardava in modo malinconico dalla riva, mi fece segno di andare accanto a lui. Quando mi avvicinai mi disse che ero la cosa più libera e bella che avesse mai visto nella sua vita, e mi chiese un bacio. Mi chiese un bacio come lo avrebbe chiesto un bambino
(Mi fermo all’improvviso, indecisa su come devo proseguire questo racconto. Uno scrittore è qualcuno che ascolta voci tra le voci, scrisse Sergio Pitol in uno dei suoi saggi inclassificabili, “L’oscuro fratello gemello”, e io non posso fare a meno di notare che dietro questa voce compassionevole, dietro questo testo che cerca di creare un senso assente per una ferita di molto tempo fa, persistono il vecchio clamore della confusione, i reclami della colpa e della paura dell’abbandono, e devo fare sforzi continui per allontanarne queste voci che mi inseguono e le loro esclamazioni indignate: un bacio “spaventoso”? Tutto questo dramma per un semplice bacio? Che fiocco di neve che sei! Come se all’epoca non fossi stata una vera zoccola! Come se altre donne non avessero dovuto sopportare abusi peggiori, abusi reali! Oltretutto sei stata tu a provocarlo. O non ti sei sforzata per mesi di diventare la sua preferita? Non adoravi attirare la sua attenzione, non cercavi come una disperata il suo affetto, il suo contatto, i suoi abbracci? E che ci facevi con le tette al vento in una spiaggia pubblica, quel giorno? Perché cazzo lo hai baciato la prima volta, quando te lo ha chiesto? E perché ti sei seduta sulle sue ginocchia nella macchina di P.? L’uomo si spinge fino a dove la donna glielo permette, e tu hai giocato con il fuoco, alla fine dovevi bruciarti…).
L’ultimo giorno di lezione con un gruppo di compagni andammo nella spiaggia più vicina per festeggiare la fine della scuola. Dato che fu un piano improvvisato, dovemmo andare con l’uniforme indosso. Ci ubriacammo felici, ci facemmo le canne e alla fine ci sballammo. Chipo era venuto con noi; beveva le nostre birre e noi fumavamo le sue sigarette senza filtro. In un momento di euforia, spinta dai miei amici, mi sfilai la gonna e la camicia dell’uniforme e mi buttai in acqua solo con la biancheria intima. Alcuni compagni stettero al mio gioco, si spogliarono ed entrarono per schizzarsi con me nell’acqua calda del Golfo, immobile e inoffensiva come quella di una piscina. A un certo punto Chipo, che ci guardava in modo malinconico dalla riva, mi fece segno di andare accanto a lui. Quando mi avvicinai mi disse che ero la cosa più libera e bella che avesse mai visto nella sua vita, e mi chiese un bacio. Mi chiese un bacio come lo avrebbe chiesto un bambino: con gli occhi chiusi e le labbra esageratamente sporgenti, e le mani in tasca. Io non pensai a niente quando mi misi in punta di piedi e gli diedi un bacio veloce e poi tornai in acqua con i miei amici.
Però più tardi, mentre tornavamo a casa al tramonto esausti, bagnati fradici e ammassati nel maggiolino di P., mentre ero seduta sulle ginocchia di Chipo, con le sue mani intorno alla vita e il suo alito sul collo, mi sorpresi nel sentire una carezza sulla coscia, e quando mi girai per guardarlo, mi chiese un altro bacio. Mi avvicinai senza voglia per compiacerlo. Il fragore della colpa mi assillava: “Lo hai già baciato una volta, no? Cosa cambia se lo baci di nuovo? In spiaggia hai accettato, quindi ora lo devi fare ancora, anche se non ti va molto, anche se la sua bocca non è quella di un bambino e ha un cattivo sapore e la sua barba ti pizzica le labbra e la sua lingua cerca la tua e hai voglia di piangere per lo schifo e la delusione. Scesi dall’auto di P. al semaforo successivo. Non potevo restare lì, non volevo neanche immaginare come sarebbero andate le cose se non mi fossi allontanata subito.
Quello che avvenne dopo, la confusione muta, piena di vergogna e incomunicabile che seguì a quel momento, mi avrebbe accompagnata per anni e avrebbe invaso le ore più nere delle mie crisi future con la completa certezza che tutto era stato solo colpa mia: quel bacio disperato, la lettera di dolore che Chipo mi diede giorni dopo, e il suo abbandono completo quando capì che io non potevo, né volevo, amarlo.
Decisi di non andare alla cena di fine anno, per non doverlo vedere, ma fui costretta dai miei genitori ad assistere alla cerimonia ufficiale della fine del liceo. Non gli raccontai mai quello che era successo. Avevo l’impressione che avrebbero trovato il modo di confermare la mia penosa responsabilità, come facevano le voci. Le voci in realtà erano loro, però in quel momento non lo sapevo.
Durante la cerimonia ignorai gli sguardi penosi che Chipo mi lanciava da lontano, e dopo essermi sottoposta alla foto obbligatoria me ne andai da quella scuola per sempre. Non ricordo bene come mi recapitò la lettera che in questo momento ho sulla mia scrivania. Non ricordo se me la mandò dandola a qualcuno o se me la consegnò di persona in un breve incontro, di sicuro spiacevole e cancellato completamente dalla mia memoria, ma ricordo bene il vuoto che sentii quando lessi le parole piene di rancore per quello che io gli avevo fatto, l’abbandono e il rifiuto di cui lui era vittima. Una lettera scritta nella lingua della passione che Chipo aveva deciso di offrirmi al posto delle parole nella lingua della tenerezza che io realmente gli chiedevo.
Ancora oggi mi sento colpevole (a volte, solo a volte) per quello che successe tra noi. Una colpa sciocca che a poco a poco è fermentata fino a diventare furia, soprattutto dopo aver scoperto che il mio caso non è stato l’unico: che dopo di me ci sono state altre ragazze, altre studenti, altri baci che alla fine hanno causato l’allontanamento di Chipo dalla scuola. E ogni volta che la rabbia si trasforma di nuovo in colpa lancinante guardo il ritratto che quel fotografo anonimo mi scattò alla cerimonia di consegna dei diplomi. Guardo la mia carnagione fresca, abbronzata dopo la giornata di festa in spiaggia, e le mie sopracciglia spesse che non conoscevano pinzette né ceretta, le mie labbra carnose, colorate dal rossetto che ancora non sapevo bene come mettere, i miei occhi neri con le ciglia arricciate, occhi immensi, imploranti e allo stesso tempo altezzosi, e penso, mentre mi avvicino sempre di più all’età che aveva Chipo quando ci siamo conosciuti, che devi essere veramente un coglione con il cervello spappolato, completamente delirante e perverso, per guardare la faccia della ragazza che ero e scambiarla per quella di una donna fatta e finita.
Questa rabbia che finalmente mi posso dare il lusso di provare, e un paio di libri che mi regalò – Una vuelta de tuerca e La obediencia nocturna (che ancora conservo perché che colpa hanno i libri della stupidità dei loro proprietari?) – e la lettera consumata che sta sulla scrivania dove scrivo, sono i soli sopravvissuti di quell’episodio della mia adolescenza. Non vedo più nessuno dell’epoca, non so che fine hanno fatto i miei vecchi compagni. Da molto non vado a Veracruz e sulle sue spiagge. L’ultima volta che ho desiderato di vedere quell’antico edificio, con le sue finestre enormi e la buganvillea viola che si arrampicava sulla facciata, ho scoperto che non c’erano più. A un certo punto del nuovo secolo hanno venduto la scuola, hanno demolito il palazzo e hanno sradicato la pianta che ci adornava i capelli con i suoi fiori delicati. Oggi, in quel terreno all’angolo tra calle Bolívar e calle 20 de noviembre, c’è un minimarket aperto ventiquattr’ore al giorno. ◆
Fernanda Melchor è una scrittrice nata a Veracruz nel 1982. In Italia ha pubblicato Stagione di uragan i (Bompiani 2018) e Páradais (Bompiani 2022). Questo racconto è uscito sul trimestrale lettarario britannico Granta con il titolo Confusion of tongues . La traduzione è di Andrea Sparacino.
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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati