Il 20 febbraio del 2020, giorno in cui l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) segnalava tre casi di covid-19 in Italia e 15 negli Stati Uniti, ho preso insieme alla mia famiglia e ad alcuni amici un vaporetto della linea 2, uno dei tanti autobus acquatici su cui veneziani e turisti si accalcano sgomitando. Era la seconda settimana del carnevale di Venezia e alcune persone avevano il viso coperto da maschere spettrali. Le mie vicine portavano enormi gonne, sorrette da una struttura di crinolina, che mi strusciavano contro i polpacci come allegri cagnolini.

Il nostro gruppo – quattro adulti e cinque tra ragazzi e bambini – è sceso alla fermata San Marcuola per visitare quello che un tempo era il ghetto ebraico. Ad alcuni di noi la storia di quel posto interessava. Ai giovani evidentemente no, anche se tre di loro sono ebrei e il ghetto di Venezia è da molti considerato il primo della storia, quello da cui deriva la parola “ghetto”. Nel 1516 il doge Leonardo Loredan trasferì gli ebrei di Venezia sul sito di un’antica fonderia (geto in veneto). Erano circondati da un muro di pietra i cui cancelli venivano chiusi di notte. Se qualcuno fosse stato interessato, avrei potuto raccontare cosa fecero gli stati e le città stato, o cosa fa chiunque tema di essere contaminato, sul piano religioso e culturale, dagli stranieri. Invece ci siamo limitati a trovare l’arco dove un tempo c’erano i cancelli e a guardare i segni lasciati dai cardini.

Il 21 febbraio, quando l’Organizzazione mondiale della sanità continuava a segnalare tre casi di covid-19 in Italia e 15 negli Stati Uniti, abbiamo preso un altro vaporetto fino a un’isola dove in passato le navi, con tutto il loro equipaggio, rimanevano ancorate per quaranta giorni durante le epidemie. L’usanza risaliva all’epoca della peste nera, nel trecento. Venezia, da secoli centro del commercio marittimo, era particolarmente esposta alle malattie portate dalle navi provenienti da terre lontane (un traffico ancora in corso, se pensiamo alle invasioni stagionali delle navi da crociera). Forse è per questo che a Venezia – e non a Parigi, dov’eravamo stati pochi giorni prima – ci hanno misurato la temperatura prima di lasciarci passare nella zona di libero accesso dell’aeroporto Marco Polo. Oltre a ghetto, i veneziani del medioevo hanno quindi introdotto un secondo termine del lessico del contenimento: quarantena.

Il 22 febbraio, giorno in cui l’Italia registrava i primi due morti da covid-19, siamo saliti su un aereo per tornare negli Stati Uniti. A Parigi, dove abbiamo cambiato volo e compagnia, nessuno ha controllato la temperatura dei passeggeri provenienti da una delle regioni italiane al centro dell’epidemia. Nessuno ci ha chiesto – né al momento dell’imbarco, né quando siamo sbarcati all’aeroporto JFK di New York – quale fosse la nostra provenienza.

Il 23 febbraio, giorno in cui il carnevale di Venezia è stato cancellato e l’Oms segnalava 76 casi di covid-19 in Italia, abbiamo capito di aver corso un rischio molto più serio di quanto pensassimo. È vero che quando siamo partiti c’era già qualche caso in Europa, ma non ero preoccupata dal virus, nel senso che non temevo potesse farci del male. E questo per me è molto strano, perché sono una persona che definireste, a seconda della vostra visione del mondo, una catastrofista o un’esperta di scenari inverosimili. È difficile che io abbia dell’acqua o dei cerotti in borsa, ma se avete bisogno di un coltellino svizzero o di un pezzo di corda, potete contare su di me. Quando mi ritrovo sola in albergo la sera tardi, mi piace guardare il programma Sos: how to survive, condotto da Creek Stewart, esperto di tecniche di sopravvivenza. Con la bandana annodata intorno al collo e i pantaloni strappati, Stewart se ne va in giro a scovare persone scampate alla morte nella natura selvaggia e spiega al pubblico perché un campione olimpionico di lotta greco-romana rimasto bloccato con la motoslitta nel ghiaccio sarebbe sopravvissuto ancora meglio a una notte a venti gradi sotto zero se solo avesse avuto con sé del nastro adesivo e un assorbente.

Detto ciò, in famiglia mio marito è quello che si occupa dei pericoli evidenti. Io mi occupo di quelli meno evidenti. Un virus che minacciava di trasformarsi in pandemia rientrava nella categoria dei pericoli evidenti. Prima di prendere il volo di ritorno ho distribuito, su richiesta di mio marito, dei flaconcini di disinfettante per le mani che nessuno ha usato e che tutti hanno perso. In aereo l’amica di mia figlia si è messa una mascherina azzurra che si è presto coperta di cioccolata e che non l’ha protetta più di tanto (sicuramente non dalle nostre prese in giro).

Abitudini cognitive

Il 23 febbraio mio marito e io abbiamo deciso comunque di stabilire il nostro “limite” etico di contenimento. Anche se non c’erano ancora casi di covid-19 a Venezia ed era difficile che fossimo dei portatori, ci siamo detti: se a uno di noi viene la febbre o la tosse, ce ne staremo tutti a casa per due settimane.

Quel piccolo passo, che pure, in quella fase, era già molto prudente, ci ha costretti a cambiare il nostro modo di pensare, un po’ com’era successo all’aeroporto di Venezia, quando avevamo dovuto superare un controllo per uscire dalla zona ad accesso limitato. Di solito si resta a casa per evitare un pericolo di farsi male. È la profonda abitudine cognitiva che la “casa” ha inciso nei nostri cervelli, anche se irrazionale (e che cambia a seconda della realtà vissuta in casa).

Columbia university, New York, 14 aprile 2020 (Rob Kim, Getty Images)

Un anno prima, sempre durante le vacanze di carnevale, amici e parenti ci avevano spinti a restare a casa perché temevano per la nostra sicurezza. Avevamo programmato un viaggio ad Acapulco, in Messico, in parte perché nostra figlia sarebbe presto andata al college e volevamo fare un ultimo viaggio di famiglia. Avevo scelto Acapulco perché l’albergo costava poco, immagino perché la città, per dirla con le parole di un mio amico, era “la capitale mondiale degli omicidi” (in realtà nella classifica delle città “non in guerra” con il più alto tasso di omicidi Acapulco è al secondo posto). Mia madre, persona pratica, mi aveva fatto notare che il dipartimento di stato americano consigliava di evitare viaggi nello stato di Guerrero. Un altro amico, meno diplomatico (in tutti i sensi), mi aveva chiesto: “E quale sarà la vostra prossima destinazione, Damasco?”. Poi però avevo parlato con varie persone che conoscevano quella parte del Messico. Da una di loro avevo scoperto che bisogna evitare l’autostrada tra Città del Messico e Acapulco, e che invece di noleggiare un’auto o usare gli autobus conveniva prendere l’aereo. Un’amica che ha una casa ad Acapulco mi aveva detto: “Non vi avventurate nei vicoli. Prendete sempre i taxi ufficiali. La sera non guidate in zone isolate. Tutte precauzioni elementari in una grande città”. La mia conclusione era stata che i turisti statunitensi dotati di buon senso non correvano particolari rischi. Erano molto più a rischio gli abitanti di Acapulco e i ricchi turisti messicani.

In quel caso il dubbio – partire o no – ruotava intorno alla nostra sicurezza e alla possibilità che ci succedesse qualcosa mentre eravamo via. Non rischiavamo di portare, con i nostri corpi, un pericolo in Messico. E, a parte l’ansia dei nostri cari, non avremmo causato sofferenze.

Il 3 marzo del 2020 mio marito ha ricevuto un’email dall’ente che gli aveva assegnato una borsa di ricerca. Erano state adottate nuove linee guida: chi aveva viaggiato in Italia non poteva tornare in ufficio per 14 giorni. Ho fatto presente – osservazione non molto costruttiva – che dopo essere tornato negli Stati Uniti era stato a casa dieci giorni, era andato in ufficio varie volte e che se aveva il covid-19 (cosa di cui dubitavo), allora aveva contaminato la cucina condivisa, il tavolo comune e probabilmente più di un collega. Questo mentre a un’amica che insegna in una scuola pubblica di New York, anche lei appena tornata dall’Italia del nord, non era stato chiesto di restare a casa. A nessuno dei seimila studenti che frequentano il liceo di mia figlia era stato chiesto dove avessero trascorso le vacanze. All’estremo opposto c’era la Columbia university, l’ateneo dove insegno, che ha ricostruito gli itinerari di viaggio di tutte le persone affiliate all’università, inviandoci aggiornamenti e indicazioni più volte al giorno.

La somma di tutte queste informazioni, provenienti da gruppi ed enti che reagivano con diversi gradi di precauzione o indifferenza, creava un senso di confusione collettiva.

Ora vi aspetterete la seguente frase: “E poi siamo risultati tutti positivi al tampone”

Mentre ero in Italia ho letto Venice di Jan Morris, autrice anche di un libro sulla prima scalata del monte Everest, che ho letto dopo il nostro rientro. Tutti sanno perché sono ossessionata dalle storie di sopravvivenza nella natura selvaggia, che si tratti di libri o di programmi tv: sono storie che parlano della lotta tra una sola persona, o una sola famiglia, e il mondo. In entrambi i casi la vittima è anche l’eroe, e chi vince di solito non ha ucciso nessuno, o quanto meno nessun essere umano.

Due cancelli

Ammettere che il pericolo possa non provenire da una minaccia esterna è difficile. Lo è per tutti, credo, ma di certo lo è per chi, come me, si calma pensando a come evitare improbabili tragedie (una strategia adottata principalmente, se non esclusivamente, da chi mette la sicurezza al centro della propria vita quotidiana). Il pericolo, per me, è sempre stato qualcosa di esterno, ai confini della mia vita. Accettare il contrario richiede un cambiamento di prospettiva degno di un contorsionista, soprattutto durante una pandemia: il pericolo sei tu.

La Columbia university – dove sono adesso mentre scrivo – è di fatto la mia casa, il posto dove rimarrei per sfuggire ai pericoli del mondo. La mia è un’esistenza protetta. Abito in un alloggio che mi è stato assegnato dall’università. Il nostro palazzo è appena fuori dal campus, il quale è circondato da un muro invisibile, implicito. Quasi ogni ingresso ha un cancello. Quello su Morningside drive è sempre chiuso, per un motivo che ho finito per considerare logico, dato l’elevato tasso di criminalità a Morningside park, anche se il carattere simbolico di quel cancello non ha nulla a che vedere con la logica.

Altri due cancelli – quello che da su Broadway e sul Barnard college e quello sulla 114a strada – non sono sempre chiusi. I cancelli principali, alle estremità del cosiddetto College walk, il viale pedonale che taglia in due l’università, sono “ad accesso ristretto” solo durante il periodo delle lauree. Quasi ogni volta che gli addetti alla sicurezza fanno entrare gli studenti in toga azzurra e poi chiudono i cancelli mi tornano in mente le riprese delle proteste negli anni sessanta, quando i poliziotti sprangarono quegli stessi cancelli con una catena gigante. All’interno c’erano gli studenti che protestavano, mentre fuori altri studenti cercavano di forzare i cancelli per unirsi alle proteste. Allo stesso modo, durante le cerimonie di laurea, non mi è mai chiaro se le persone che celebrano siano tenute fuori o dentro.

La storia del terreno su cui sorge l’università è fatta di istituzioni che proteggevano le persone all’esterno da ciò che c’era dentro, o viceversa. Tra il 1821 e il 1889 questa fu la sede del Bloomingdale insane asylum, un manicomio i cui pazienti erano isolati dal resto degli abitanti della città, presumibilmente più sani. L’isolamento era rafforzato dalla topografia dei luoghi: il quartiere si trova in cima a una collina, con un dirupo su due lati. Lo stigma della malattia mentale scoraggiò qualunque sviluppo urbanistico nei dintorni, fino a quando il Bloomingdale chiuse. Come scrive Andrew S. Dolkart, docente della Columbia graduate school di architettura, urbanistica e conservazione e autore di una storia di Morningside heights, l’istituto e i suoi pazienti erano considerati “un flagello per il quartiere”.

Risentimento e diffidenza

Con la chiusura del Bloomingdale, nei primi anni novanta dell’ottocento altre grandi istituzioni cominciarono a occupare la zona: la Columbia university, la cattedrale di San Giovanni il divino, il St Luke’s hospital. Nel 1904 arrivò la metropolitana, e poco dopo furono costruiti interi isolati di palazzi residenziali (quello dove abito io, di dodici piani, fu costruito nel 1912, quello di fronte nel 1910). Il tempo, la necessità, la convenienza e l’oblio: tutto questo spiega perché il quartiere non fu più percepito come contaminato. Oggi rimane un solo edificio del Bloomingdale, al centro del campus della Columbia university, e non è nemmeno considerato un monumento. Chi ci passa accanto spesso non ha idea di cosa sia.

Se il manicomio un tempo proteggeva dai pazienti le persone all’esterno, negli anni settanta del novecento la situazione nel campus della Columbia si ribaltò. Il tasso di criminalità in città era alto, nella zona intorno all’università molto alto, al punto che pochi professori volevano vivere negli stessi palazzi che oggi ci contendiamo. Quello stesso terreno diventò un luogo dove il pericolo – così si pensava – arrivava da fuori più che da dentro.

Amsterdam avenue, New York, 3 maggio 2020 (Peter Titmuss, Education Images/Universal Images Group/Getty Images)

Quel periodo ha creato un retaggio di risentimento e diffidenza nella comunità locale, soprattutto a est, dove l’università e il quartiere accanto sono separati da un dirupo di trenta metri. Negli ultimi decenni ci sono stati numerosi episodi di tensione, il più recente a dicembre del 2019, quando una studente del Barnard college è stata uccisa ai piedi del dirupo. Tre giovanissimi adolescenti sono stati incriminati in relazione alla morte. Questa tragedia ha scatenato, fuori e dentro il campus, molte discussioni sul fuori e sul dentro e su come queste persistenti distinzioni continuino a fare danni.

Ma quando l’8 marzo la Columbia ha annullato tutte le lezioni per via del covid 19, i cancelli – fino a quel momento confini o simboli di una proprietà – sono diventati superflui. La prima mattina non si è visto nessuno, né da un lato né dall’altro. Nessun movimento di studenti tra una lezione e l’altra. Nessun turista che fotografava le biblioteche. Mentre l’impatto del virus si estendeva oltre ogni frontiera e ogni misura di contenimento, diventava sempre più difficile stabilire dove (e da quale lato di quale confine) una persona era più al sicuro, e se una persona era la vittima di un pericolo o l’inconsapevole portatrice di quel pericolo, e cos’era l’assenza di pericolo, e cosa s’intendeva per “controlli di sicurezza”, e chi doveva essere sottoposto a quel tipo di controlli, e per passare da dove a dove.

Ufficio prevenzione catastrofi

A questo punto vi aspetterete la seguente confessione: “E poi siamo risultati tutti positivi al tampone”. Non è andata così, anche perché non abbiamo nemmeno potuto fare il test. Anche se finora nessuno nella mia famiglia ha mai mostrato sintomi da covid-19, non sapremo mai con certezza se lo abbiamo avuto o no. Né posso dire se gli amici con cui siamo andati a Venezia lo hanno avuto (due di loro avevano il raffreddore, ma secondo noi lo avevano già negli Stati Uniti). Non posso sapere se lo ha avuto un altro amico, che era nell’Italia del nord quando c’eravamo noi (lo abbiamo visto in aeroporto), e che una volta andato dal suo medico di New York con una brutta tosse si è sentito dire che non aveva nulla.

Mi sono rallegrata all’idea dei turisti che fotograferanno i segni lasciati dai cardini

Mi è praticamente impossibile raccontare o ricordare con precisione come la nostra comprensione del virus (del suo comportamento e del nostro rapporto con la sua diffusione) abbia cominciato, a metà marzo, a intensificarsi ora dopo ora. Quella che la mattina ci sembrava una precauzione quasi eccessiva la sera era diventata semplice buon senso. Il dodicesimo giorno dopo il nostro rientro ho saputo che i primi due casi nel Rhode Island erano un uomo e un’adolescente che avevano viaggiato in Italia nella stessa settimana in cui c’eravamo stati noi. Stessa storia per il secondo caso sospetto in Massachusetts. Un numero sempre più alto di focolai, negli Stai Uniti e altrove, poteva essere ricondotto a persone che erano state in quella parte d’Italia. Contavo le poche, ultime ore che mancavano prima che fossimo tecnicamente fuori pericolo. Ho chiesto all’insegnante di mio figlio se avremmo dovuto tenerlo a casa durante quelle due settimane. Temevo la sua risposta. Mi ha detto, con aria circospetta, che dovevo parlare con la preside, ma che comunque la scuola non aveva preso misure rispetto ai viaggi in Italia. Però era evidente che, per la prima volta, stava pensando che forse – forse? – avremmo dovuto tenerlo a casa. L’8 marzo, giorno in cui finivano le nostre due settimane di quarantena, l’Oms segnalava 5.883 casi in Italia e 213 negli Stati Uniti.

Per una persona ossessionata dalle catastrofi come me, il dodicesimo giorno è stato un momento di presa di coscienza. Com’era potuto succedere, per la prima volta nella mia vita, che fossi stata più lenta, meno creativa e meno contorta della realtà? Sto ancora cercando di capire come mai non ho attivato quella che è indiscutibilmente la parte migliore del mio cervello, l’ufficio prevenzione catastrofi, proprio quando, in termini di sopravvivenza della specie, sarebbe stata essenziale. L’unico messaggio diramato da quell’ufficio era stato “non siamo malati, non siamo malati”, messaggio poi oscurato da quello, più inconscio e vagamente minaccioso, firmato dal direttore dell’ufficio (figura che deve il suo incarico a vita a generazioni di stoici antenati): Va. Tutto. Bene. Questa era la crisi che l’ufficio prevenzione catastrofi si preparava ad affrontare da cinquant’anni: quando diceva a mio figlio di non camminare sotto gli alberi nei giorni ventosi o a mia figlia di non cambiare metropolitana a Times square nell’ora di punta, indipendentemente dal livello di allerta ufficiale; quando vedeva pericoli ovunque o, a seconda di come mi faceva comodo, quasi ovunque.

Distanza in biblioteca

Queste precisazioni faranno sembrare quello che segue ancora più illogico o indifendibile, anche se credo fosse il nostro ultimo, vano tentativo di aggrapparci alla normalità. Il 16 marzo, in occasione di un’altra vacanza scolastica, saremmo dovuti andare in Colorado. Abbiamo compilato una lista di “fattori di rischio”, cosa che non avevamo fatto qualche settimana prima. Nostra figlia sarebbe rimasta a casa da sola. Uno di noi doveva restare con lei? E se il governo avesse improvvisamente limitato gli spostamenti tra gli stati? E se ci avessero messo in quarantena in una città, in un albergo o nella piazzola di un aeroporto, per settimane, nell’attesa di farci tamponi che nessuno aveva? La sua scuola giurava che non avrebbe chiuso, ma potevano cambiare idea. Una persona a cui ho chiesto consiglio mi ha ricordato una possibilità a cui non avevo pensato: e se mia figlia si fosse ammalata mentre era da sola? In ogni caso, le nostre valutazioni riguardavano, ancora una volta, solo i pericoli che ci minacciavano e i danni che potevamo subire. Rimanendo a casa avremmo perso soldi che non avevamo mai avuto. L’addebito per il volo e l’albergo se ne stava ancora sulla carta di credito ad accumulare interessi.

Nonostante la lezione che avremmo dovuto imparare in Italia, abbiamo aspettato l’11 marzo prima di decidere: non potevamo partire, e non perché rischiassimo di rimanere bloccati ma perché rischiavamo di essere gli involontari vettori del pericolo, trasportando la malattia dentro di noi. Potevamo portare il pericolo in Colorado. Potevamo riportarlo a casa.

Nella biblioteca quasi vuota della Columbia university le poche persone presenti lavoravano a distanza di sicurezza, mantenendo varie postazioni vuote tra loro, come tacche di un righello. I sentimenti che condividevamo senza parlare non erano la paura o la preoccupazione. Erano il rispetto e la buona volontà, insieme all’elettrizzante ondata di solidarietà da fine del mondo. Attraversando il campus quasi vuoto per tornare a casa, ho notato che le poche persone in giro non si salutavano, non parlavano, non si scambiavano segni di riconoscimento. Eppure, per una volta, provavamo tutti la stessa tensione, ed era qualcosa che ci univa.

Uscendo dai cancelli ho pensato che, una volta finita l’epidemia, l’università dovrebbe considerare l’ipotesi di rimuoverli. Mi sono rallegrata all’idea dei turisti che fotograferanno i segni lasciati dai cardini. Tornata a casa, ho pensato che forse presto sarei stata costretta a rimanerci, se mi fosse venuta la febbre o la tosse. Per la prima volta nella mia vita, non avrei evitato il pericolo restando a casa. Lo avrei contenuto non uscendo. Mi sono tolta il cappotto e mi sono lavata le mani. Poi ho guardato, per l’ennesima volta, due video che avevo fatto a Venezia, perché mi calmavano, nel senso che mi facevano diventare più riflessiva, e non solo perché erano belli.

Alga perfetta

Uno dei motivi per cui siamo andati a Venezia è che non ci eravamo mai stati, e ci siamo detti che bisognava rimediare subito. Presto visitarla sarebbe diventato impossibile. L’acqua che aveva così a lungo protetto la città da contaminazioni esterne – persone o malattie – era diventata fonte di contaminazione. Lungo la Fondamenta delle Zattere, che costeggia il canale della Giudecca (così chiamato, si pensa, perché i primi ebrei di Venezia si stabilirono sull’isola di fronte, separati dal resto della città da quel corso d’acqua), avevamo visto i segni scuri lasciati dall’ultima acqua alta. Era arrivata a un terzo dell’altezza di molti portoni, sommergendo i davanzali. Programmando il nostro viaggio non sapevamo quanto rapidamente Venezia sarebbe diventata una città impossibile da visitare. Perfino mentre eravamo lì le strade erano stranamente vuote. Abbiamo scherzato sulle riviste di viaggio: avrebbero dovuto rivedere le loro previsioni sul “periodo migliore per visitare” un posto, facendo coincidere varie catastrofi come in un diagramma di Venn, e creando così brevi intervalli di tempo in cui le strade di città come Venezia sarebbero state libere dalle orde di turisti.

Nel primo video si vede l’immagine ravvicinata di un muro della Ca’ d’Oro. Il sole si riflette nel canale e le lastre di marmo, liquefatte da quel luminoso tremolio, sembrano muoversi. Quel giorno l’acqua della laguna – lo ricordo benissimo – era di un meraviglioso turchese opalescente che non avevo mai visto prima. Ho detto a una delle adolescenti che morivo dalla voglia di nuotare in quell’acqua. Ha sussultato fingendosi disgustata, e ha detto che se l’avessi fatto mi sarei presa qualche terribile malattia. Anche solo immaginando di nuotare nel canale rischiavo di essere contaminata, se non da una malattia, quanto meno da idee spericolate.

Nel secondo video si vede un’alga ondeggiare, attaccata alla parete di pietra che delimita la Giudecca. L’alga è viola scuro, simile a un millepiedi marino dalle zampe sfilacciate come rebbi flessuosi. Un pezzo di filo interdentale è incastrato tra i filamenti, e l’intera massa, opera congiunta di uomo e natura, fluttua placidamente nella scia dei vaporetti che vanno e vengono nella laguna, riversando in città persone munite di maschere e macchine fotografiche. All’inizio, notando il filo interdentale, mi era spiaciuto non aver trovato un’alga senza detriti per ricordare il mio viaggio a Venezia, che rischiava di essere il primo e l’ultimo. Poi, dopo aver guardato un po’ di volte il video, quel filo interdentale, piccolo svolazzo di ottimismo e umiltà (ammesso che il filo interdentale possa rappresentare l’uno o l’altra), mi è sembrato al suo posto. Ora non vorrei per nulla al mondo che non fosse lì. Guardo sempre il video con il volume alto per sentire l’acqua sciabordare e sfregarsi contro la banchina. Questa musica potrebbe accompagnare le parole di un canto, semplice e toccante: il pericolo sei tu, il pericolo sei tu. O, troppo tardi, il pericolo eri tu. ◆ fs

Heidi Julavits è una scrittrice statunitense, tra le fondatrici della rivista The Believer.
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Tra le pieghe dell’orologio (66thand2nd 2018).

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Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati