Prima di arrivare in tutti i parchi giochi urbani del novecento, l’altalena è stata per secoli uno strumento rituale di guarigione, castigo e trasformazione. Attraverso i suoi movimenti ripetitivi e frastornanti, è stata usata per celebrare divinità ed entità leggendarie, allontanare il maligno, placare impulsi suicidi, curare malattie mentali, affermare il proprio dominio sessuale e tormentare chi era accusato di pratiche occulte. La sua funzione più profonda, però, è sempre stata quella della trasformazione: sotto l’incantesimo del suo moto oscillatorio, l’altalena ci spinge a mettere in discussione il mondo che conosciamo, con le sue gerarchie e i suoi ritmi prestabiliti. Andare sull’altalena non vuol dire semplicemente giocare, ma aprire spazi di disorientamento con la trasgressione.

Cosa significa raccontare la storia di questo oggetto? L’altalena ci rivela come una cosa nata per disorientare sia stata strumentalizzata per tutto l’arco della cultura umana, apparendo in culture e territori diversi. Ma non è solo la storia di un oggetto. È anche quella di tante storie non raccontate, di corpi in movimento che cercano di svelare gesti dimenticati, trascurati o nascosti. La storia umana non è fatta soltanto di parole e oggetti. L’altalena ci permette di cominciare a raccontare la lunga vicenda culturale di un dondolio che attraversa il tempo e lo spazio.

Già a un primo sguardo, l’altalena spunta nei luoghi più inaspettati. Compare nelle feste dell’antica Grecia e nelle pitture rupestri realizzate nell’India occidentale durante il quinto secolo. È illustrata nelle pergamene cinesi della dinastia Song, che risalgono all’undicesimo e al dodicesimo secolo. È il soggetto di dipinti indostani e punjabi come Lady on a swing in the monsoon (1750-75), in cui una donna si dondola gioiosa con gli abiti che svolazzano mentre in lontananza si addensano nubi oscure. È citata perfino nella storia delle origini della festa del nowruz, il capodanno persiano: si racconta che le persone si dondolassero sull’altalena per imitare il leggendario Sash Jamšīd che guidava il suo carro nel cielo. È presente nella vita della dinastia tailandese Chakri del diciottesimo secolo, perché re Rama I ne fece costruire una gigantesca. E si ritrova un po’ ovunque nelle pagine della letteratura e della filosofia occidentale, da Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche (1883-85) a Il ramo d’oro di James George Frazer (1890), dai Tre saggi sulla teoria sessuale di Sigmund Freud (1905) a Homo ludens di Johan Huizinga (1938).

Questo oggetto è arrivato fino a noi facendo un cammino lungo e tortuoso, e ripercorrere questa strada a ritroso presenta non poche difficoltà. Se molti strumenti e gesti che risalgono all’antichità sono significativamente cambiati nel loro passaggio al presente, l’altalena è rimasta quasi completamente identica; ne troviamo esemplari sparsi in tutte le città del mondo. Può sembrare un vantaggio, ma avere a che fare con una cosa che è sostanzialmente uguale nell’antica Grecia, in Cina o in Persia ha i suoi inconvenienti. Tanto per cominciare, il fatto che l’altalena sia in tutti i parchi giochi moderni porta molti a considerarla puerile nell’uso e irrilevante nel significato. È un’esperienza a cui siamo talmente abituati da convincerci che non meriti un pensiero serio. Soprattutto, ha subìto le sorti di molti altri oggetti trascurati dagli adulti: è finita nelle mani dei bambini.

Sostenere che tenere il corpo sospeso su due corde e dondolare sia necessariamente un’esperienza infantile e gioiosa non è altro che un pregiudizio. Per millenni la combinazione di sospensione e dondolio è servita a scopi punitivi o terapeutici lontanissimi da qualsiasi idea d’infanzia o di divertimento. Nella Grecia classica, la parola aiora si riferiva sia all’altalena sia al cappio della forca. Questo duplice significato emerge già nella storia di Erigone tratta dalla Bibliotheca, la grande raccolta di miti scritta dallo Pseudo-Apollodoro tra il primo e il secondo secolo dC.

Secondo la versione più diffusa del mito, il dio Dioniso insegnò l’arte della vinificazione al padre di Erigone, Icario, che ne condivise i frutti con i suoi pastori. I pastori si ubriacarono e, pensando di essere stati avvelenati, uccisero Icario e nascosero il suo corpo seppellendolo ai piedi di un albero. La giovane Erigone trovò la salma e, dice la leggenda, “pianse il padre e s’impiccò” allo stesso albero vicino a cui era sepolto Icario. Fu allora che Dioniso – o la stessa Erigone, per alcune versioni – lanciò una maledizione sulla città di Atene, spingendo le vergini ateniesi a impiccarsi in preda alla follia.

Secondo Gaio Giulio Igino, scrittore latino nato ad Alessandria nel primo secolo, gli ateniesi misero fine alla maledizione istituendo la pratica di dondolarsi su assi di legno legate con delle funi: così, i loro corpi avrebbero ondeggiato al vento come Erigone. In questi miti troviamo una delle prime interpretazioni delle origini dell’altalena: uno strumento di morte che diventa apotropaico, cioè capace di allontanare un incantesimo malvagio (in quel caso impedire che le giovani ateniesi si impiccassero). Secondo Igino, l’altalena nasce dunque come un oggetto magico, una macchina per spezzare una maledi­zione.

Se molti strumenti e gesti che ci arrivano dall’antichità sono significativamente cambiati nel loro passaggio al presente, l’altalena è rimasta quasi completamente identica

Nel tempo, il significato dell’altalena è cambiato a seconda delle diverse culture che l’hanno adottata, diventando uno strumento di gioco ma anche di disciplina. Dondolarsi sull’altalena può avere effetti diversi o addirittura contrastanti, un po’ come la pratica del “lancio con il lenzuolo”, in cui qualcuno viene punito oppure portato in trionfo da un gruppo di persone che lo lanciano in aria e lo riprendono su un lenzuolo teso. Un esempio dell’uso dell’altalena a scopo disciplinare è la “culla della strega”, un sacco di stoffa ruvida appeso a un albero che aveva la stessa funzione di quello che in Nordamerica e nel Regno Unito era chiamato ducking stool o cucking stool (come la sedia su cui erano messi alla berlina i colpevoli). A partire dal quindicesimo secolo, le donne accusate di stregoneria erano obbligate a entrare nel sacco, tenute sospese in aria e fatte dondolare avanti e indietro come in certe forme contemporanee di aerial yoga.

Anche quando non era usata a scopo punitivo, l’altalena provocava comunque effetti indesiderati. In molti casi, nelle società in cui ci si spostava prevalentemente a piedi, chi usava l’altalena spesso avvertiva vertigini e giramenti di testa. Altri avevano paura di cadere, o per via di funi troppo lunghe o perché i seggiolini minacciavano di rompersi. Dondolare, insomma, non era sempre un’esperienza positiva. Fino alla fine del settecento, però, i medici europei e nordamericani incoraggiarono questa pratica nella convinzione che la sudorazione, la nausea o il vomito che si accompagnavano all’uso dell’altalena fossero terapeutici. Negli anni venti dell’ottocento, l’anatomista ceco Jan Evangelista Purkyně, noto per i suoi studi sul labirinto dell’orecchio interno, confessò di aver patito sofferenze indescrivibili sottoponendosi al dondolio. Per esplorare quella cavità, Purkyně aveva costruito una sedia rotante tenuta sospesa con una corda, non molto diversa dagli strumenti che venivano usati all’epoca per curare varie forme di pazzia, e molto simile alle altalene che si andavano via via diffondendo nei parchi e nelle fiere della Boemia. Dopo aver dondolato per più di un’ora e mezza, raccontava lo studioso ceco, la sofferenza diventava insopportabile.

L’altalena era una fonte non solo di disagio fisico, ma anche di terrore. Nella storia dello spiritismo si trovano molti riferimenti alle altalene (o ai pendoli). Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, ne descrive una nella sua Storia dello spiritismo (1925), e i fotografi vittoriani, particolarmente inclini a immortalare i defunti, ritraevano spesso bambine apparentemente morte sulle altalene. Il cliché dell’“altalena stregata” che dondola da sola si ritrova anche nei film dell’orrore e nei parchi dei divertimenti del novecento.

Capace di curare e castigare, nel corso della storia l’altalena è stata molto usata come uno strumento rituale. È un oggetto particolarmente adatto, poiché contiene sia l’elemento apollineo sia quello dionisiaco. Nel Ramo d’oro, Frazer, un antropologo britannico, descrive 21 esempi di riti in Nepal, Corea, Indonesia, Grecia, Pakistan, Borneo e altri luoghi in cui l’altalena era usata come strumento di magia per affinità (dondolare più in alto per far crescere di più il grano), come mezzo per allontanare il maligno o come una forma di celebrazione.

Ma perché l’atto del dondolare si è ritualizzato in tutti questi luoghi? Il dondolio rituale, nella Grecia classica o nella Cina imperiale, è stato descritto all’interno di una mitologia dell’amore e della morte che comincia sempre con un impulso insopprimibile, una forza trasgressiva che produce un disorientamento emotivo e morale. Questo impulso a volte è interpretato in termini sessuali, come il desiderio delle gopī, le giovani mandriane indiane che si offrono al dio Krishna descritte nei Purāna (l’atto del dondolare non è citato nel testo, ma le illustra­zioni raffigurano Krishna su un’altalena accanto a una gopī).

L’impulso può anche esprimersi nel desiderio del suicidio, come nel caso delle giovani ateniesi che usavano l’altalena invece d’impiccarsi. A volte l’impulso è oggetto di ricerca psicoanalitica, come per Freud, che nei Tre saggi sulla teoria sessuale descrive la suzione ritmica dei pollici e altre “sensazioni piacevoli, causate da forme di eccitazione meccanica del corpo, come il dondolio”. Per Freud, il dondolio è associato a una sessualità asessuata che, una volta repressa o sublimata, si manifesta attraverso l’esperienza adulta della nausea e del vomito quando si viaggia in treno o in nave. Questi impulsi più profondi sembrerebbero alla base del dondolio rituale.

Franco Matticchio

Quando è parte di un rito, tuttavia, l’altalena è confinata a un luogo e un momento specifico, come la festa del nowruz in Persia, l’Eid al Fitr nell’Africa musulmana e in Medio Oriente, o le feste dell’altalena nel nord della Thailandia o nel sud della Spagna. In Cina era un giardino recintato dove le mogli e le concubine delle famiglie più ricche della dinastia Ming si incontravano. C’era una dimensione di genere nel gesto di dondolarsi sulle altalene: tradizionalmente, erano le donne a sottoporsi volontariamente al rito, partecipando a un atto che era in sostanza un ribaltamento temporaneo del loro status. Grazie all’altalena, chi occupava una posizione sociale inferiore poteva liberarsi (almeno temporaneamente) dalla sua condizione di asservimento.

Attraverso il dondolio possiamo stimolare artificialmente l’apparato vestibolare, il sistema sensoriale che fornisce al cervello le informazioni sull’equilibrio e la posizione, stabilendo una nuova relazione con il nostro senso dell’orientamento. A volte questo può avere effetti sgradevoli, come le vertigini. Nei moderni trattati sulla chinetosi, la vertigine è descritta come uno stato di falsa coscienza in cui si ha la percezione errata che la Terra si stia muovendo. Ondeggiando avanti e indietro, il soggetto cerca le ombre volanti proiettate sulla retina, fondamentalmente credendo che siano qualcosa che non sono. A differenza di chi soffre di malattie mentali (o dei bambini), chi va in altalena è soggetto a uno stato di disorientamento che inizialmente è fisico, ma che può diventare emotivo e addirittura politico.

Questo elemento dissociativo, che ci fa credere di essere qualcosa che non siamo, ha permesso all’altalena di assumere un significato simbolico e immaginario. L’altalena non è né un cavallo né un tappeto, né un forcone né una scopa, né una barca né un pene, ma è riuscita a incarnare ognuno di questi elementi, rappresentandoli e, in qualche misura, sostituendoli. Grazie a questo processo, è riuscita a creare una serie di spazi di fantasia in tutto il mondo, diventando uno strumento di evasione e sogno a occhi aperti. In India, una delle immagini associate all’estetica della stagione dei monsoni – denominata hindola rāga – è la rappresentazione di Krishna e Rhādā insieme su un’altalena. Nel Padiglione delle peonie, opera drammatica cinese scritta da Tang Xianzu alla fine del cinquecento, la protagonista sogna il suo amore dipingendo una “scena in giardino con altalena”. E nella versione per la corte Qing del rotolo La festa di Qingming lungo il fiume, dipinto nel 1737, l’altalena è raffigurata come uno strumento di evasione, un momento di piacere e calma in mezzo al trambusto della vita quotidiana.

L’esperienza dell’oscillazione, di ondeggiare avanti e indietro, è parte di un’economia leggermente concettualizzata, in cui il corpo si sente liberato dalle norme sociali che regolano il mondo. Questa liberazione non aveva luogo soltanto durante le celebrazioni rituali. Prendiamo L’altalena (1767-1768) di Jean-Honoré Fragonard, capolavoro della pittura rococò in cui è raffigurata una donna con un abito rosa a balze che si dondola gioiosa mentre un uomo sdraiato tra i cespugli le guarda sotto la gonna. In Heaven and the flesh (Il paradiso e la carne, 1995) gli studiosi Clive Hart e Kay Gilliland Stevenson scrivono che L’altalena è la rappresentazione di un’inversione del rapporto sessuale, una sovversiva “raffigurazione dell’esplicito dominio femminile”.

Nella storia l’uso dell’altalena, per lo più da parte delle donne, è stato spesso associato alla volontà di occupare una posizione di privilegio o dominio, simbolico e fisico, innalzandosi al di sopra degli altri. Nel caso dell’Altalena di Fragonard e altri dipinti sul tema – tra cui quelli di Jean-Antoine Watteau e Francisco Goya – le scene s’incentrano soprattutto sulla gioia del travestitismo e lo scambio dei tradizionali ruoli sessuali e di genere. Prima di essere relegata ai parchi giochi, l’altalena era un modo per mettere in discussione le gerarchie e trovare sollievo da situazioni e congiunture oppressive. Liberando l’individuo dalle costrizioni fisiche e dalle convenzioni, può diventare un rifugio emotivo. Come la poesia, offre un riparo accogliente dalle tempeste politiche, dai ruoli sociali e dalle tragedie personali.

Dondolarsi sull’altalena, però, non è sempre un atto trasgressivo: a volte serve a consolidare l’ordine costituito. Lo vediamo durante i rituali in cui l’altalena è inserita in una rappresentazione. Come l’attore, che sa che sta recitando, chi va sull’altalena ha uno sdoppiamento di coscienza: mentre sale e scende, dondolandosi avanti e indietro, capisce che le leggi dell’orientamento possono essere messe in discussione, ma sa anche che sta eseguendo un esercizio finalizzato all’ottemperanza di una norma, che consente solo certi tipi di movimenti. Andare sull’altalena ha le caratteristiche di un’attività volontaria, ma solo in apparenza.

Franco Matticchio

Inoltre, anche se mette in discussione l’ordine fisico e sociale attraverso il disorientamento fisico ed emotivo, l’altalena lascia comunque tutto com’è. È un gioco d’inganni. Nella migliore delle ipotesi, conduce a una liberazione provvisoria, non all’emancipazione. Per esempio nella cerimonia dell’Akha, nel nord della Thailandia, sono le donne che si agghindano e si dondolano sull’altalena. Per pochi giorni all’anno, mentre si vestono a festa, giocano e si divertono, non devono dare da mangiare ai maiali, lavorare la terra o portare l’acqua. Il rito non modifica le condizioni di disuguaglianza, perpetua lo status quo: finita la festa, ognuna torna ai suoi doveri e ai suoi compiti.

L’altalena, una macchina che mette in moto esperienze umane come la vertigine, il disorientamento e l’angoscia, è anche un metronomo sul quale è possibile recitare un mantra. Dalla festa dionisiaca delle Antesterie nella Grecia classica ai festival livoniani in Lituania, l’oscillazione rituale è spesso accompagnata da canti e balli. Il collegamento è esplicito nella scultura precolombiana dell’altalena conservata al Museo de antropología di Xalapa, nello stato di Veracruz, che è anche uno strumento musicale.

Fin dall’antichità, gli usi rituali dell’altalena sono stati collegati alle strutture musicali o alle variazioni ritmiche. Nel quarto secolo aC, Platone sosteneva che il pianto sconsolato dei bambini poteva essere lenito imitando il suono e il moto delle onde. Anziché cercare d’invitare i figli al silenzio, diceva il filosofo, le madri dovevano incantarli attraverso l’azione combinata di movimenti e suoni dolci, come facevano le sacerdotesse con i seguaci di Dioniso. Lo stesso movimento era in grado di confortare i bambini e di placare gli esaltati.

La combinazione di dondolio e canto ha due conseguenze importanti. La prima: durante festività come il Teej in India, la festa del popolo akha e il festival delle altalene nella città di Ubrique nel sud della Spagna, le giovani donne usano la cadenza del movimento oscillatorio per intonare canti in cui contestano la distribuzione iniqua delle successioni o del lavoro, raccontano la paura di essere maltrattate dai futuri mariti o denunciano le condizioni a cui sono sottoposte nel matrimonio. Sono canzoni d’amore e di paura. Hanno un carattere festoso, ma non sempre le parole sono positive: a volte, come nel caso delle feste dell’altalena nella Grecia classica, sono legate alla minaccia del suicidio.

La seconda conseguenza è che il canto durante i riti dell’altalena è correlato alla formazione di comunità esperienziali. In tutto il mondo le donne si agghindano, vanno sull’altalena e cantano insieme. Non è un passatempo individuale, ma un processo pianificato di rovesciamento sociale che implica la formazione di una comunità. Dondolandosi, le concubine delle grandi famiglie della Cina imperiale potevano muoversi insieme, almeno per un po’, e gettare uno sguardo su com’era la vita oltre le mura del loro giardino recintato. Le donne akha, come le ragazze del Tamil Nadu in India o di Ubrique, potevano temporaneamente sospendere i loro obblighi di genere e avere l’illusione della libertà e dell’emancipazione. Tutti questi rituali ribaltano il regime gerarchico, permettendo la trasposizione di proprietà, classi e generi. Chi è in basso può giocare a essere in cima, e chi è in cima si ritrova in basso. È una forma di travestitismo sociale che è stata spesso associata simbolicamente alla forza del sesso, con le donne temporaneamente in posizione dominante.

La storia dell’altalena non è collegata solo all’impulso primitivo di dondolare, ma anche alla postura sessuale che la donna assume quando monta il suo amante, come nel dipinto di Fragonard. La posizione nota come mulier super virum (donna sopra il maschio) trova il suo mito fondativo nel culto di Iside, che si diffuse nei regni ellenistici del terzo e quarto secolo aC. Secondo il mito, dopo aver appreso che il corpo di Osiride era stato fatto a pezzi e sparpagliato in tutto l’Egitto dal dio Seth, Iside andò in cerca dei suoi resti girando tra le paludi. Trovato il suo pene, che aveva conservato un barlume di vita, ci si posò sopra e si fece penetrare, assumendo la forma di un falco. In un papiro conservato al museo del Louvre a Parigi, questa forma di concepimento è descritta così:

Io sono tua sorella Iside. Non c’è altro dio o altra dea che abbia fatto ciò che ho fatto io. Ho recitato la parte di un uomo, anche se sono una donna, per far sì che il tuo nome vivesse sulla terra, affinché il tuo seme divino fosse nel mio corpo.

Nel secondo secolo, mentre Apuleio scriveva le Metamorfosi (in cui troviamo il primo riferimento alla mulier super virum in una storia dove il giovane protagonista, Lucio, è trasformato in asino e cade sotto la protezione di Iside), la festa in onore della dea nota come navigium Isidis era molto popolare nel mondo romano. Durante la celebrazione, una processione emulava non solo i movimenti del mare, ma anche l’oscillazione sessuale della dea sul pene di Osiride. La storia ci ha lasciato abbondanti testimonianze visive del fatto che le celebrazioni della piena di un fiume erano accompagnate da riti erotici legati a questa posizione sessuale. Una si trova sugli affreschi che adornano le pareti del colombarium di Villa Pamphilj a Roma, realizzati durante il regno dell’imperatore Augusto e ora parte della collezione del Museo nazionale romano, nel Palazzo Massimo alle Terme.

L’altalena, un capitolo dimenticato nella storia dell’umanità, è intrecciata di mitologie e processi rituali. Che si parli di Grecia classica, Persia antica, Cina preimperiale o antico Egitto, è permeata dalla presenza di tratti comuni e miti condivisi: ebbrezza, amore, omicidio, suicidio e ambizione ruotano tutti intorno a un impulso irrefrenabile, come quello di Erigone che s’impicca dopo aver trovato la salma del padre. D’altro canto, queste storie e leggende non sarebbero nulla senza il processo sociale su cui s’innestano, senza le forme collettive e ritualizzate che permettono di raccontare e tramandare storie simili tra loro. Attraverso l’altalena e l’atto del dondolarsi riusciamo a vedere in quali forme la cultura comune e le norme sociali si proiettano nel corpo, ritualisticamente e impercettibilmente.

Perché, dunque, andiamo sull’altalena? Lo strumento che popola i nostri parchi giochi è arrivato fino a noi, ma le sue origini ci sfuggono. La sopravvivenza dell’atto del dondolarsi come gesto comune non può essere spiegata facendo riferimento a una storia ancestrale da cui banalmente deriverebbe ogni nuovo movimento. Le origini della nostra predilezione per questo gesto non sono annotate su nessun registro. Si perdono tra le nebbie della leggenda, molto prima che qualcuno si preoccupasse di disporre gli eventi su una scala cronologica. ◆ fas

Javier Moscoso insegna storia e filosofia della scienza al Consejo superior de investigaciones científicas di Madrid, in Spagna. Questo articolo sviluppa alcune idee discusse dall’autore nel suo libro Historia del columpio (Taurus 2021). È uscito sulla rivista culturale online Aeon con il titolo Disorient yourself.

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Questo articolo è uscito sul numero 1513 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati