In una fredda mattina di febbraio del 2018 un gruppo di trenta microbiologi, zoologi ed esperti di sanità pubblica di tutto il mondo si è riunito nella sede dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a Ginevra, in Svizzera. Il gruppo era stato creato dall’Oms nel 2015 per compilare una lista dei virus più pericolosi, in particolare di quelli per cui non si stavano studiando né vaccini né cure. Tutti, almeno quelli riuniti nella stanza, erano d’accordo su una cosa: con il continuo aumento della popolazione e dei viaggi, e con lo sviluppo che stava raggiungendo le zone più incontaminate del pianeta, era quasi inevitabile che alcune epidemie locali come la Sars o l’ebola, che un tempo potevano essere contenute, diventassero delle catastrofi globali.

“La riunione si è svolta in una grande sala, con tutti i tavoli disposti lungo il perimetro della stanza, rivolti verso il centro”, ricorda uno dei partecipanti, Peter Daszak. “Il modo di procedere era molto formale. A ognuno dei presenti veniva richiesto di spiegare perché una particolare malattia dovesse essere inclusa nella lista delle minacce più importanti. Tutto quello che si diceva veniva scritto, verificato e registrato”.

Daszak, che dirige l’organizzazione per la prevenzione delle pandemie EcoHealth Alliance e presiede anche il Forum sulle minacce microbiche delle National academies of sciences, engineering and medicine, negli Stati Uniti, aveva il compito di presentare la Sars, una malattia provocata da un coronavirus che, da quando era emerso nel 2002, aveva ucciso circa 800 persone. L’acronimo Sars sta per severe acute respiratory syndrome, sindrome respiratoria acuta grave, e il nome ufficiale del virus è Sars-cov-1. “Avevamo fatto molte ricerche sui coronavirus, perciò sapevamo che erano chiaramente il pericolo del momento”, dice. “Hanno un alto tasso di mortalità, non c’è nessun farmaco né vaccino in vista, e potrebbero emergerne ancora nuove varianti”. La discussione è stata accesa. “In quella stanza tutti conoscevano i fatti, avevano letto i risultati di ogni ricerca”, dice Daszak. Ma per ogni agente patogeno, chi parlava doveva convincere gli altri che rappresentava una minaccia importante, “che quella malattia poteva davvero decollare e bisognava concentrarsi su quella invece che sulla febbre di Lassa o qualcos’altro. Perciò ognuno presentava la sua tesi e poi si votava. A volte l’atmosfera si riscaldava. Ricordo che si è parlato del vaiolo delle scimmie, perché c’erano state epidemie ma non c’era niente che si poteva fare al riguardo. È stato un ottimo dibattito, molto rigoroso, e alla fine siamo andati tutti a mangiare la fonduta”.

Aggirare il problema

La lista finale – che conteneva la Sars e la Mers, insieme ad altri sette virus respiratori, emorragici o per altri versi letali – includeva anche quella che l’Oms definiva la “malattia x”: tutti gli altri agenti patogeni sconosciuti o varianti letali di patogeni già noti che non erano ancora emerse. Secondo Daszak il covid-19, la malattia provocata dal virus Sars-cov-2, è esattamente il tipo di minaccia rappresentato da quella malattia x: un nuovo coronavirus altamente infettivo, con un alto tasso di mortalità e per il quale non esiste nessun tipo di trattamento né di prevenzione. “Il problema non è che la prevenzione era impossibile”, dice Daszak. “Era possibile ma non l’abbiamo fatta. I governi pensavano che fosse troppo costosa. Le case farmaceutiche guardano al profitto”. E l’Oms non aveva né i fondi né il potere di imporre la vasta collaborazione globale necessaria per combattere la malattia.

Quando il covid-19 si è diffuso in tutto il mondo, mandando in tilt gli ospedali e perfino le camere mortuarie, siamo rimasti tutti sconfortati dal fatto di essere stati colti alla sprovvista da un virus. Visti i brillanti progressi della medicina ad alta tecnologia – chirurgia controllata dai computer, immunoterapie senza precedenti, programmi di intelligenza artificiale per valutare il rischio di malattie cardiache – è un errore davvero sconcertante. Come ha fatto il mondo intero a rimanere così impotente? E, soprattutto, cosa si potrebbe fare la prossima volta?

Sierra Leone, agosto 2018 (Simon Townsley)

Secondo alcuni esperti di malattie infettive, esistono già gli strumenti scientifici per creare una sorta di ministero per la difesa dai virus, che ci consentirebbe di realizzare un’ampia gamma di progetti globali fondamentali, dallo sviluppo dei vaccini e dei farmaci che funzionano contro un vasto spettro di agenti patogeni al monitoraggio dei focolai della malattia fino all’identificazione di possibili virus ad alto rischio, sia noti sia ignoti. Quello che manca sono le risorse. “La sveglia è già suonata e noi l’abbiamo spenta”, dice Daszak. “La prima volta è suonata con la Sars, e l’abbiamo silenziata. Poi abbiamo fatto lo stesso con l’ebola, con la Mers e il virus zika. Ora che siamo svegli, dovremmo decidere cosa fare”.

Alla fine di marzo Vincent Racaniello, un professore della Columbia university che conduce il podcast This week in virology, ha intervistato Mark Denison, un esperto di malattie infettive pediatriche. Denison, che insegna alla facoltà di medicina della Vanderbilt university, a Nashville, negli Stati Uniti, dirige un gruppo che ha creato uno dei trattamenti oggi più promettenti per il covid-19, un farmaco chiamato remdesivir, della casa farmaceutica Gilead Sciences.

Dal momento che è quasi impossibile prevedere quale virus provocherà la prossima pandemia, ha detto Denison nell’intervista, i ricercatori sostengono da tempo che bisogna realizzare farmaci e vaccini panvirali efficaci contro un’ampia gamma di ceppi: per esempio tutti i tipi di virus dell’influenza o un considerevole gruppo di coronavirus invece di uno solo. Quando il suo laboratorio ha presentato per la prima volta la richiesta di fondi per studiare il remdesivir, il suo obiettivo era quello: “Non vogliamo lavorare su un composto se non è in grado di combattere tutti i coronavirus su cui lo testiamo”, ha detto. “Siamo preoccupati per la Mers e per la Sars-1, ma non sono loro il problema. Il problema è il futuro”.

I farmaci panvirali, cioè efficaci contro un buon numero di famiglie di virus, sono più difficili da realizzare degli antibiotici ad ampio spettro, soprattutto perché i virus si impadroniscono del macchinario delle nostre cellule, sfruttando le loro funzioni principali per riprodursi. Un farmaco che blocca una di quelle funzioni – per esempio la produzione di una particolare proteina – spesso distrugge anche qualcosa di cui le nostre cellule hanno bisogno per sopravvivere. I ricercatori hanno cominciato a trovare il modo di aggirare il problema, identificando con più precisione il processo che il farmaco prende di mira. Ma hanno anche cominciato a testare i farmaci già esistenti contro un gran numero di virus, e proprio durante questo lavoro di _screening _la Gilead ha scoperto che il remdesivir, in origine destinato a curare l’epatite C e poi sperimentato contro l’ebola, potrebbe essere efficace contro i coronavirus. Il favipiravir, un farmaco per l’influenza sviluppato in Giappone, è un altro candidato.

Nyabissam, Camerun, 2011. Un ecologo spiega quali virus possono passare dagli animali alle persone (Brent Stirton, Getty Images)

I farmaci a volte funzionano per patologie molto diverse tra loro – come l’ebola, i coronavirus e l’influenza – perché bloccano un meccanismo che quelle hanno in comune. Il remdesivir e il favipiravir, per esempio, imitano ognuno una componente fondamentale dell’Rna di un virus; quando viene inserita, questa componente impedisce al virus di replicarsi. “È assolutamente possibile creare un farmaco efficace contro un ampio spettro di coronavirus”, afferma Racaniello. “Sinceramente, avremmo dovuto averlo già da tempo, da quando arrivò la Sars nel 2003. Avrebbe bloccato l’attuale epidemia in Cina prima che uscisse dai suoi confini. E l’unico motivo per cui non lo abbiamo è che non avevamo abbastanza fondi”.

Un pessimo investimento

Anche i vaccini panvirali stanno diventando una possibilità reale. Negli ultimi anni è stato sviluppato un certo numero di vaccini universali per l’influenza che invece di attaccare la testa globulare del virus, che muta facilmente, attaccano il gambo, che non muta quasi mai. Come ha osservato Daszak, se quest’epidemia fosse stata provocata da un virus dell’influenza invece che da un coronavirus, saremmo stati molto più attrezzati. Un altro nuovo metodo, quello su cui si basano i vaccini mRna, funziona sfruttando l’Rna messaggero – una specie di corriere che comunica le istruzioni genetiche per la produzione delle proteine – per innescare la risposta del sistema immunitario. I vaccini mRna presentano vantaggi potenzialmente enormi, in parte perché possono essere prodotti con molta rapidità (un solo mese invece di sei per un ceppo conosciuto, tra i due e i tre mesi per uno nuovo), ma anche perché possono essere realizzati su vasta scala (miliardi di dosi, rispetto alle centomila che sono state necessarie per l’epidemia di ebola). Sono anche molto adattabili: se un ricercatore riesce a creare una base che funziona con questo coronavirus, sarà facile adattarla per il prossimo. Una startup che lavora sull’mRna, la Moderna, ha stabilito un record nel settore creando un possibile vaccino per il covid-19, l’mRna-1273, in appena 42 giorni, usando la sequenza genetica del virus. Oggi il farmaco è nella fase 1 dei test clinici, cioè la sperimentazione su volontari sani per verificare le controindicazioni. E anche se nessun vaccino mRna ha ancora ottenuto l’approvazione della Food and drug administration (Fda) statunitense, il covid-19 quasi sicuramente accelererà i tempi.

Ma da anni, osserva Racaniello, il vero ostacolo alla realizzazione di farmaci o vaccini panvirali è che nessuno è disposto a investire in questo campo. Per le case farmaceutiche sono un pessimo affare: devono spendere centinaia di milioni di dollari per sviluppare un vaccino che la gente farà al massimo una volta all’anno e, se non è prevista una particolare malattia, neanche tutti gli anni.

I farmaci panvirali sono poco redditizi per lo stesso motivo. Tanto per cominciare il trattamento dura poco, di solito qualche settimana. Invece per le malattie croniche come il diabete e l’ipertensione, i pazienti prendono medicine ogni giorno, spesso per anni. Qualcuno ha osservato che il prezzo delle azioni della Gilead è sceso quando ha prodotto un farmaco rivoluzionario per l’epatite C. Dato che con quella cura i pazienti guarivano completamente, gli utili dell’azienda ne avrebbero risentito.

Negli anni, in genere i virus e i loro ospiti hanno trovato un compromesso

L’altro problema è che oggi non c’è modo di individuare in tempi brevi la maggior parte dei virus, un elemento essenziale per fare una diagnosi e prescrivere il farmaco giusto. Secondo Racaniello, “è un po’ come il problema dell’uovo e della gallina: nessuno sviluppa farmaci per questi virus perché non è possibile individuarli. E nessuno avvia ricerche per individuarli perché non esistono farmaci da prescrivere”.

Da parte loro, i governi sono riluttanti a finanziare le ricerche sui panvirali, sia perché sono costose sia perché i risultati sembrano lontani, soprattutto dal momento che molte malattie hanno origine in altri paesi. “Negli Stati Uniti non siamo bravi a prevenire, ma sappiamo reagire”, osserva Daszak. “Vi ricordate quando il presidente Barack Obama ottenne cinque miliardi per l’epidemia di ebola in Africa occidentale e i soldati statunitensi andarono a dare una mano? Fu un atto eroico. Ma quanto sarebbe stato eroico se tre anni prima dell’epidemia Obama avesse detto: ‘Vorrei finanziare un grande programma in Africa occidentale per aiutare quei paesi poveri a prepararsi all’eventualità che scoppi un’epidemia?’. Gli avrebbero riso in faccia!”.

Organizzazioni non profit internazionali come la Fondazione Gates hanno provato a riempire questo vuoto di finanziamenti. La fondazione ha sostenuto la Gavi, un’alleanza internazionale che contribuisce a vaccinare i bambini dei paesi poveri e ha aperto un fondo per la lotta all’hiv, alla tubercolosi e alla malaria in tutto il mondo. Secondo Mark Suzman, l’amministratore delegato della fondazione, quando i governi e le aziende private si mettono insieme, spesso si concentrano su programmi come questo e non su problemi che riguardano il futuro, come le pandemie o l’emergenza climatica. Un’eccezione, dice, è la Cepi, la Coalition for epidemic preparedness innovations, una ong fondata nel 2017 per coordinare e finanziare lo sviluppo di nuovi vaccini contro malattie che potrebbero provocare una pandemia. Quando è partito, dice Suzman, il progetto della Cepi era relativamente modesto. “Era solo una risposta all’epidemia di ebola del 2014 e 2015. Oggi, invece, guarda molto lontano”.

La Cepi individua le ricerche più promettenti e poi le aiuta a ottenere risorse dall’industria e dai governi per sottoporre una serie di possibili vaccini ai primi test clinici. L’obiettivo è creare una riserva di potenziali cure per i coronavirus, le febbri emorragiche e altre minacce globali conosciute, che potrebbero entrare subito in produzione nell’eventualità di un’epidemia. Daszak dice che la Cepi sta conducendo un test per il vaccino contro il virus zoonotico Nipah, che esiste negli animali ma può infettare anche gli esseri umani causando patologie respiratorie gravi ed encefaliti fatali. “Questo è un esempio classico”, afferma. “Finora non ci sono state molte epidemie, quindi il mercato è ridotto perché il virus colpisce poche migliaia di persone all’anno, in Malaysia e in Bangladesh. Ma infetta vari tipi di animali, quindi probabilmente continuerà a essere trasmesso alle persone. E se scoppiasse, una pandemia di questo tipo avrebbe conseguenze letali”.

La Cepi finanzia anche lo sviluppo di tecnologie contro la malattia x – tutti i virus potenzialmente pandemici non ancora scoperti – per essere in condizione di realizzare più rapidamente un vaccino nell’eventualità che spuntasse una nuova minaccia. Come mi ha detto Jake Glanville, la cui azienda, la Distributed Bio, ha ottenuto una sovvenzione dalla Fondazione Gates per creare un vaccino universale per l’influenza: “È così che si vince per sempre la guerra, non solo le battaglie contro questi patogeni”.

La Cepi non è l’unico gruppo che sta cercando di trovare soluzioni al problema dei farmaci e dei vaccini. Nel 2014 negli Stati Uniti è stato istituito un collettivo universitario finanziato dal governo federale chiamato Antiviral drug discovery and development center (Ad3c). L’obiettivo è sviluppare farmaci per l’influenza, i flavivirus (compreso quello del Nilo occidentale), i coronavirus e gli alfavirus. Come la Cepi, l’Ad3c lavora in collaborazione con le case farmaceutiche ma si occupa soprattutto di recuperare e riformulare farmaci promettenti che potrebbero rivelarsi preziosi, ma che l’azienda non è interessata a produrre. Per esempio quando la Gilead ha scoperto che il remdesivir funzionava contro i coronavirus, il trattamento è stato dirottato verso l’Ad3c, che ha
reclutato scienziati alla Vanderbilt university e all’università del North Carolina per adattarlo.

Coesistere

Amesh Adalja, uno specialista di malattie infettive e preparazione alle pandemie del Center for health security della Johns Hopkins university, mi ha detto che metodi simili saranno “fondamentali” per prevenire tutto quello che verrà dopo il ­covid-19. Sull’onda della pandemia, le persone capiranno che spendere soldi per organizzazioni come la Cepi è un buon investimento, soprattutto quando si renderanno conto di quanto avere un vaccino contro il coronavirus avrebbe limitato i danni e i disastri che abbiamo visto”.

Sono le piccole cose che fanno perdere tempo quando il tempo è importante

Nonostante questi sforzi, rimane ancora un grande problema: quanto poco sappiamo delle minacce virali del pianeta. I virus rappresentano circa i due terzi di tutti gli agenti patogeni scoperti di recente, sono molto più numerosi di batteri e di funghi. Nel corso dell’evoluzione umana siamo stati esposti a così tanti virus che circa l’8 per cento del genoma umano è costituito da sequenze di dna retrovirali, che si sono inserite nella nostra linea germinale, spesso a nostro vantaggio. Per esempio, si pensa che un antico virus sia responsabile dello sviluppo della placenta. I virus non ricavano alcun vantaggio dal far ammalare le persone, è solo un effetto collaterale. Negli anni, o forse nei secoli, in genere i virus e i loro ospiti hanno trovato un compromesso, arrivando a coesistere. Di solito i virus più pericolosi sono quelli che hanno fatto il salto nell’essere umano da altre specie, come è successo con il Sars-cov-2. La pericolosità dipende in parte dal fatto che la malattia è nuova, quindi il nostro sistema immunitario non ha avuto la possibilità di produrre gli anticorpi. Ma anche dal fatto che un virus sconosciuto ha più probabilità di scatenare una reazione immunitaria eccessiva, che può essere mortale.

La difficoltà, per chi spera di individuare quale sarà la causa della prossima pandemia, è che i virus da analizzare sono milioni. Secondo un recente studio, potrebbero esserci 1,6 milioni di virus zoo­notici, di cui meno dell’1 per cento è stato identificato. “Una cosa di cui abbiamo bisogno sono test diagnostici migliori per cercare questi nuovi patogeni nelle persone”, dice Adalja. “Ci sono già moltissimi casi isolati che nessuno ha mai diagnosticato ma che potrebbero essere il primo segno di un nuovo virus passato agli esseri umani”.

È noto che i virus dell’influenza e i coronavirus possono provocare una pandemia, ma non sono gli unici. Il Nipah e l’Hendra sono paramixovirus scoperti nei pipistrelli negli ultimi trent’anni. Il virus Marburg provoca una febbre emorragica letale quanto l’ebola, ma per la quale non si sta ancora studiando né una cura né un vaccino. Esistono decine di altri virus emorragici, ma finora non hanno fatto il salto agli esseri umani.

Questo genere di ricerche non si fa anche perché il rischio che un unico virus scateni una pandemia è basso. La maggior parte dei virus non solo non è in grado di saltare dagli animali agli esseri umani, ma nella maggior parte dei casi, anche quando lo fa, non è capace di replicarsi in modo pericoloso o di passare da una persona all’altra. Il problema, dice Daszak, è che quando moltiplichi un evento che ha una probabilità su dieci milioni di verificarsi per il numero totale delle interazioni tra esseri umani e animali, alla fine il rischio non è poi così basso. “È facilissimo dimostrare scientificamente che sono eventi rari e quindi non dovremmo preoccuparcene”, ha aggiunto. L’hiv, per esempio, in origine si trovava nei primati, ed è stato trasmesso alle persone solo dieci volte circa in un secolo. Ogni volta è sparito in poco tempo, ma una volta no. “Statisticamente se si esamina la probabilità che un virus riesca a entrare in una persona, replicarsi e infine trasmettersi attraverso i rapporti sessuali, il risultato è irrisorio. Ma quello di cui non abbiamo tenuto conto è l’adattabilità dei virus e della portata delle interazioni tra esseri umani e animali”.

Di recente Daszak, sperando di arrivare a una stima più precisa di quali virus potrebbero essere una minaccia, è andato in una zona agricola della provincia cinese dello Yunnan e ha prelevato campioni di sangue dalle persone del posto, alla ricerca degli anticorpi che avrebbero dimostrato con quale frequenza erano state esposte ai coronavirus dei pipistrelli. In genere gli anticorpi si possono individuare anche due o tre anni dopo l’infezione. “Ci siamo occupati solo dei corona, non di tutti gli altri virus che ci sono lì”, dice Daszak. “E abbiamo scoperto che il 3 per cento della popolazione era stata esposta. Questo implica che normalmente nella Cina rurale questi virus passano agli esseri umani a una velocità incredibile”.

Significa anche che nel sudest asiatico ogni anno da un milione a sette milioni di persone sono infettate da un coronavirus dei pipistrelli. “Nella maggior parte dei casi non si ammalano neanche. Può darsi che ci sia stata qualche piccola epidemia che nessuno ha notato o casi di morte attribuiti all’influenza o a qualche altra causa. Comunque, il livello di trasmissione è molto alto. Non è difficile immaginare che uno di quegli agenti patogeni sia mutato e sia diventato il covid-19”, dice Daszak. Controllare le zone di possibile trasmissione richiede un grande sforzo, e tracciare e testare gli animali è anche più impegnativo. Come osserva Racaniello, “sappiamo dai tempi della Sars che i pipistrelli ospitano coronavirus pericolosi. Quindi è lì che bisogna cercarli. Ma neanche questo è facile. Bisogna entrare in una grotta abitata dai pipistrelli e catturarli in qualche modo. È un lavoro costoso e noioso”.

Negli Stati Uniti, per esempio, alcune specie di topi ospitano l’hantavirus, che periodicamente infetta le persone, spesso quando inalano escrementi di topo aerosolizzati, per esempio spazzando in un capanno o un garage polveroso. L’infezione, che comincia come un’influenza ma nel 38 per cento dei casi diventa mortale, non si trasmette (ancora) da una persona all’altra, quindi attualmente il rischio di pandemia è basso, dice Racaniello. “Ma la domanda che dovremmo farci è: cosa dovrebbe succedere perché quel virus diventi trasmissibile da persona a persona? E anche, cos’altro c’è nei topi che potrebbe essere un pericolo per le persone? Negli Stati Uniti pochissimi di questi animali sono stati esaminati per vedere di quali virus sono portatori”.

Sotto l’amministrazione Obama, l’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha creato il programma Predict per riempire questo vuoto, usando la sorveglianza biologica e i modelli informatici predittivi per identificare le fonti più probabili di malattie zoonotiche. Nei dieci anni della durata del programma, i ricercatori hanno scoperto più di mille nuovi potenziali virus zoonotici, compreso un ceppo sconosciuto di ebola. Daszak, il cui gruppo ha ricevuto sostegno economico dal programma, ha definito il progetto “visionario”. A settembre, quando il progetto ha smesso di essere finanziato, poco prima che scoppiasse la pandemia, l’amministrazione di Donald Trump ha autorizzato due rinnovi di sei mesi. Un portavoce dell’Usaid ha dichiarato che a settembre ci sarà un “passaggio pianificato” a un nuovo programma di prevenzione chiamato Stop spillover, fermiamo la trasmissione, con un budget presunto tra i cinquanta e i cento milioni di dollari in cinque anni. “Per far funzionare questi programmi ci vuole pazienza”, dice Racaniello. “Ma sono programmi costosi e non sempre producono risultati a breve termine, perciò rischiano più di altri di essere tagliati quando si vuole ridurre la spesa”.

Camerun, 2011. Il virologo Nathan D. Wolfe nella foresta vicino al villaggio di Nyabissam (Brent Stirton, Getty Images)

Uno dei problemi per chi va a caccia di virus che potrebbero provocare pandemie è capire quali animali possono esserne la fonte. I pipistrelli, portatori originari di molti virus, di rado li trasmettono direttamente agli esseri umani. Da uno studio è emerso che in Cina i pipistrelli ospitano più di 500 diversi coronavirus, ma anche paramixovirus, virus emorragici come l’ebola e virus dell’influenza. Più spesso, spiega Daszak, i pipistrelli infettano altri animali, che poi infettano noi. “Circa un quinto di tutti i mammiferi sono pipistrelli e sono dappertutto. Non ce ne rendiamo conto perché volano di notte. Ma ci sono, e lasciano cadere escrementi ovunque, come gli uccelli, solo che non li vediamo”. Secondo gli scienziati tra tutte le migliaia di specie di pipistrelli, solo pochi – come i pipistrelli della frutta e quelli ferro di cavallo – sono i principali serbatoi di malattie che si trasmettono dagli animali alle persone.

Inoltre i pipistrelli volano, vivono a lungo e sono presenti in molti habitat diversi, il che significa che noi, e altri animali, abbiamo più probabilità di entrare in contatto con loro che con altre specie. Racaniello racconta di un’epidemia scoppiata in Australia negli anni novanta, quando i pipistrelli cominciarono a frequentare una stalla che ospitava cavalli da corsa, infettarono i cavalli che a loro volta trasmisero la malattia ai loro addestratori. In Malaysia il virus Nipah è stato trasmesso alle persone dai maiali delle fattorie di una zona in cui vivevano i pipistrelli della frutta. In Medio Oriente il coronavirus della Mers – che probabilmente è partito da un pipistrello – è diventato endemico nei cammelli, che a un certo punto lo hanno trasmesso alle persone.

“Prima di quell’epidemia, non sarebbe venuto in mente a nessuno di cercare un virus nei cammelli”, dice Racaniello. “E questo vale per tante altre cose. Per esempio, sapevamo che i pipistrelli erano portatori di coronavirus simili a quello della Sars, ma solo quando abbiamo cominciato a cercare le cause della prima epidemia di Sars abbiamo scoperto che era passato dai pipistrelli agli zibetti per poi arrivare a noi. Come per quasi tutti gli altri animali del mondo, non ne avevamo idea. Quindi bisogna fare molti tentativi”.

A questo scopo, Daszak ha contribuito a lanciare un ambizioso progetto chiamato Global virome project. L’obiettivo è identificare il 70 per cento dei presunti 1,6 milioni di virus potenzialmente zoonotici nell’arco di dieci anni, al costo di 1,2 miliardi di dollari. “Nel 2013 abbiamo trovato il parente più stretto dell’attuale Sars-cov-2 in un pipistrello che vive in Cina”, dice Daszak. “Abbiamo sequenziato una parte del suo genoma. Poi abbiamo smesso perché non somigliava al virus della Sars e quindi abbiamo pensato che fosse a basso rischio. Con il Virome project avremmo potuto sequenziare l’intero genoma e avremmo scoperto che si lega alle cellule umane e gli avremmo assegnato un livello di rischio più alto. E magari i vaccini per la Sars che stavamo studiando allora avrebbero potuto funzionare anche per questo, così avremmo avuto qualcosa di pronto”.

Racaniello è d’accordo: “Personalmente mi piacerebbe esaminare tutte le creature della Terra”, dice, ma ammette che ci sono anche modi per restringere il campo. I virus zoonotici pericolosi per le persone si trovano più facilmente nei mammiferi e negli uccelli, per tutti gli altri animali è un salto genetico troppo grande. Nell’ambito di quel gruppo, gli animali più vicini a noi dal punto di vista evolutivo sono anche quelli più pericolosi, perché abbiamo in comune un maggior numero di recettori che i virus usano per infettare una cellula.

Da sapere
La pandemia nel mondo
Morti accertate dovute al covid-19. Dati aggiornati al 28 giugno 2020, scala logaritmica (Fonte: The Economist)

Secondo la Johns Hopkins university, più di 500mila persone sono morte a causa del covid-19 dall’inizio della pandemia. Il numero dei contagi registrati nel mondo ha superato i dieci milioni.


Collaborazione proficua

Un altro fattore di rischio è la probabilità che abbiamo di entrare in contatto con un particolare tipo di animali, svolgendo attività come l’abbattimento di alberi, il commercio di animali selvatici o l’agricoltura. Si ritiene che il morbillo sia nato dopo la domesticazione dei bovini, mentre i suini e il pollame sono portatori dell’influenza suina e aviaria. Ma anche se per alcuni animali domesticati ci sono i vaccini – ce n’è uno che funziona molto bene per il coronavirus del pollame, e di recente è stato creato un vaccino per la Mers dei cammelli – non c’è modo di vaccinare gli animali selvatici, e neanche animali di città come i topi.

“È per questo che dobbiamo studiare”, dice Daszak. “È stato dimostrato più volte che qualsiasi malattia, una volta arrivata alla trasmissione tra esseri umani, sbarca negli Stati Uniti. Dalle analisi risulta che il paese è sempre tra i primi cinque. Dell’ebola dicevamo che, non essendo una malattia respiratoria, non sarebbe mai uscita da un villaggio o da un paese. E invece lo ha fatto. E se ce ne fosse un’altra con un lungo periodo di incubazione asintomatica, come il covid-19, immaginate cosa potrebbe succedere”.

Sull’onda della pandemia di covid-19, hanno cominciato a emergere nuovi sistemi di cooperazione e investimento globali. Alla fine di marzo, la Fondazione Gates ha istituito un acceleratore terapeutico per il covid-19 per fare lo screening _di un gran numero di farmaci e composti esistenti che non sono mai arrivati sul mercato, con l’obiettivo di verificare se potrebbero funzionare con altre malattie. Lo _screening, affidato all’istituto belga Rega, esaminerà 14mila composti della Scripps research institute library e delle biblioteche private di 15 aziende farmaceutiche, tra cui la Bristol-Myers Squibb, la Eli Lilly, la Merck, la Novartis e la Pfizer, alla ricerca di possibili usi in campi diversi. Dato che la sicurezza dei farmaci è già stata verificata, l’unica cosa da testare è la loro efficacia, il che rende il processo più rapido. La disponibilità a condividere composti brevettati, dice Suzman della Fondazione Gates, è “abbastanza senza precedenti”. E anche se al momento questa collaborazione è concentrata sul covid-19, la speranza è che, quando la crisi sarà passata, quella stessa raccolta possa essere usata per progetti più ambiziosi, come un farmaco anticoronavirus ad ampio spettro. “Sono cautamente ottimista che questo possa essere un precedente”, dice Suzman. “E che in futuro porterà a una maggiore e più proficua collaborazione sanitaria internazionale”.

Monalisa Chatterji, una microbiologa che fa parte dell’équipe della Fondazione Gates per la scoperta dei farmaci, è d’accordo: “Il dialogo è cominciato” e servirà per le future pandemie, dice. “Chiediamoci se debba esserci una biblioteca condivisa stabile di farmaci non usati a cui tutti i laboratori di ricerca possano accedere. Se sia necessario fare qualcosa di simile per la diagnostica e se debba esserci almeno un accordo tra tutte le case farmaceutiche per consentire l’accesso alle proprie biblioteche in caso di pandemia. Sembra una piccola cosa, ma sono le piccole cose che fanno perdere tempo quando il tempo è importante”.

Il problema principale, secondo quasi tutte le persone con cui ho parlato, è se riusciremo a mantenere questa volontà politica ed economica. Dopo la Sars e l’ebola, sia Racaniello sia Daszak erano sicuri che la prevenzione delle pandemie sarebbe stata una priorità. Invece tutte le epidemie sono state dimenticate in fretta. E anche se è difficile immaginare che l’attuale catastrofe possa essere dimenticata, i ricercatori temono che i finanziamenti e l’attenzione svaniranno di nuovo a causa delle pressioni della concorrenza. Come ha osservato Racaniello, negli Stati Uniti il budget combinato dei National institutes of health e della National science foundation per il 2019 è stato di 47 miliardi di dollari, meno del 7 per cento dei 686 miliardi stanziati per la difesa. “Secondo me, i virus sono una minaccia come uno stato canaglia lo è per l’esercito”, dice. O per usare le parole di Daszak: “Non pensiamo mai a quanto costa proteggerci dal terrorismo. Mandiamo i droni, diamo ascolto alle voci, abbiamo tutta una serie di strategie. Dobbiamo cominciare a pensare alle pandemie nello stesso modo”. ◆bt

Jennifer Kahn è una giornalista statunitense che collabora con il New York Times. Dal 2009 insegna alla UC Berkeley graduate school of journalism.

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Questo articolo è uscito sul numero 1365 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati