1. Appunti per un’autobiografia politica

Quando ero bambino, l’imprecazione preferita della mia famiglia era sempre preceduta da un grido stonato: Non aprite l’acqua, cazzo! Di solito veniva pronunciata standosene tremanti sotto la doccia, tutti insaponati, o, peggio ancora, con gli occhi pieni di shampoo. Il grande tema della storia della mia famiglia: la mancanza d’acqua in casa. Era il risultato di una serie di piccoli disastri. Una cisterna costruita male. Un serbatoio altissimo (la nostra casa aveva tre piani). Una pompa a bassa potenza. Un imprenditore fraudolento che aveva frazionato dei terreni senz’acqua potabile a sufficienza. Un sindaco che aveva concesso dei permessi. Un padre che aveva scelto di credere nella buona fede dell’umanità: il mio.

Mio zio Rodi era del nord, di Tecate. Raccontava migliaia di barzellette, aveva un arsenale di aneddoti esilaranti che arricchiva con un sacco di parolacce

In quel sistema precario, bastava che qualcuno si lavasse le mani o sciacquasse un bicchiere perché il getto della doccia s’interrompesse bruscamente. Durante la settimana la routine imposta da mia madre dettava un ordine rigoroso, che funzionava quasi bene. Nel fine settimana invece, o durante le vacanze, lavarsi era un’impresa. In una famiglia di sette persone, farsi una doccia richiedeva forme di sponsorizzazione e consenso. Vado io. Posso andare? Vado io. Vado io. Sei volte, con le rispettive negoziazioni. Sì. No. Tocca prima a me. Aspetta che finisca la lavatrice. Io devo uscire prima. Se mi lasci andare prima, ti presto la racchetta. Le nostre relazioni politiche.

A volte l’acqua mancava per diversi giorni e mio padre faceva venire un camion cisterna che ci riforniva con un enorme tubo. L’acqua scendeva con molta forza nella cisterna di casa, rimuovendo la terra che ne copriva le pareti e il fondo. Dovevamo aspettare che l’acqua si stabilizzasse, che la terra si sedimentasse. Circa un’ora. Nessuno poteva aprire alcun rubinetto. Poi a un certo punto mio padre ordinava: Andate a vedere se ora l’acqua è pulita. Noi andavamo di sotto, sollevavamo il coperchio metallico e infilavamo la testa nella cisterna. Nel buio totale. Impossibile capire alcunché: se l’acqua era verde, se là sotto viveva un mostro marino.

Tornavamo su.

Dicevamo bugie.

Ci lavavamo con poca acqua sporca.

Una volta a mio padre fu proposto di candidarsi sindaco. Ce lo raccontò a cena tra risate sardoniche. Due tizi che conosceva vagamente si erano presentati nel suo studio medico con quella proposta. Non ricordo di quale partito fossero, ero troppo piccolo per trattenere informazioni come quelle sigle impronunciabili, ma presumo uno dei tanti che spuntano solo per svanire dopo aver succhiato tutti i fondi concessi dall’istituto elettorale.

Gli dissero che sarebbe stato un candidato perfetto, perché lo conoscevano tutti ed era una persona onesta. Non ho mai dimenticato la risposta di mio padre: pensate un po’, sono proprio le due ragioni per cui non sono adatto.

Quel giorno la cena fu una festa. Tutti a immaginarci mio padre nei panni del sindaco, ridendo. Quando fosse stato al governo, con ogni multa ti avrebbe mollato un ceffone. Non avrebbe concesso nessun sussidio, gli allevatori avrebbero dovuto chiederglielo venti volte, supplicandolo, proprio come dovevamo fare noi per la paghetta. Può darmi il sussidio? Può darmi il sussidio? Per favore, su, può darmi il sussidio? E la cosa migliore sarebbero stati i suoi discorsi incendiari.

L’aneddoto però smise molto presto di essere divertente. Mio padre ricevette anche un’altra visita in studio. Gli ispettori del fisco. Lo accusavano di dichiarare delle spese non compatibili con la sua attività: la benzina, per esempio. Lui cercò di difendersi sostenendo che faceva spesso visite a domicilio, a malati gravi, e poi come sarebbe dovuto andare da casa allo studio e viceversa? Quelli gli risposero che non era un trasportatore né un corriere, e gli appiopparono una multa stratosferica.

Come se non bastasse, poi la candidatura di mio padre se la prese il proprietario del negozio di ferramenta.

Era il 1986, durante i mondiali di calcio. Un pomeriggio il vicino bussò alla porta e chiese di me. Disse che aveva comprato un Atari per i figli e che non riusciva a installarlo. Mi chiedeva di aiutarlo. Quando entrai in casa sua, scoprii che in realtà l’Atari era già installato. Quello che voleva era qualcuno con cui giocare. A Space invaders.

La tragedia era che ai suoi figli l’Atari non interessava affatto. Erano iperattivi. Volevano andare in cima alla collina a picchiare gli ubriaconi. Entrare nelle case in costruzione o in quelle abbandonate per rubare. Giocare a baseball, a guardie e ladri, a nascondino, a football americano. Tutte cose che facevano con i miei fratelli minori.

Il pomeriggio dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora, il vicino continuava a suonare il campanello per invitarmi a giocare: Ho comprato un nuovo gioco, mi diceva, come se avesse bisogno di convincermi. Mi offriva una bibita. Non parlavamo di nulla. I suoi figli svolazzavano lì intorno, sorvegliati da una tata. Il più delle volte la moglie non c’era, immagino che fosse a giocare a canasta con le amiche, a un funerale, a qualche evento di beneficenza. Quando la moglie tornava, io me ne andavo. Lei mi diceva sempre la stessa cosa: L’acqua ce l’avete? Salutami tua madre.

Tutto finì quando il vicino fu nominato sindaco ad interim. In paese c’era stata una rivolta popolare per rovesciare il sindaco in carica, eletto in modo fraudolento. Il vicino non era nemmeno un politico. Era il direttore di un caseificio. Un caseificio di proprietà di una delle famiglie che controllavano la vita politica del paese. Difficile capirlo a tredici anni, eppure era quel che succedeva nel nostro paese fin dai tempi della colonia.

Passarono due anni e il sindaco ad interim rimase in carica perché non furono indette nuove elezioni (c’era un rischio importante che il partito al potere perdesse di nuovo e dovesse ricorrere a nuovi brogli). E poi, un giorno, accadde il miracolo: l’acqua a casa nostra non era più un problema. Il vicino aveva mantenuto la sua promessa matrimoniale. Ma questo lo scoprimmo solo anni dopo: la moglie aveva accettato che lui diventasse sindaco ad interim in cambio della costruzione di una nuova cisterna per il nostro quartiere.

Naturalmente mio padre s’incaricò subito di farci sentire in colpa: quell’acqua è sporca, ci diceva, è acqua corrotta.

Così continuammo a lavarci con poca acqua
sporca.

2. Un’altra famiglia

Il cane arrivò in primavera con una doppia garanzia di felicità. Innanzitutto perché era un regalo di compleanno di mia nonna Ele, e poi perché l’emissario che ce lo portava da Guadalajara a Lagos de Moreno era mio zio Rodi. Era il 1983 e io avevo nove anni, anche se il cucciolo era per il mio fratellino, che ne faceva cinque. Il mio fratellino era miope, dislessico, aveva un amico immaginario e, oltre alla sua vita quotidiana con noi, sosteneva di vivere un’esistenza parallela con quella che chiamava la sua altra famiglia. L’altra famiglia del mio fratellino viveva in una fattoria con pecorelle verdi e mucche arancioni. Il mio fratellino aveva urgente bisogno di un cane.

A quel punto della nostra vita, la mia e quella dei miei quattro fratelli, mia nonna Ele era la persona che più amavamo al mondo. Non più dei nostri genitori, certo, ma i genitori si amano in modo diverso, in automatico, quasi senza rendersene conto. Noi invece eravamo consapevolmente innamorati della nonna Ele. Mio zio Rodi era del nord, di Tecate. Parlava a voce alta, raccontava migliaia di barzellette, aveva un arsenale di aneddoti esilaranti che arricchiva con un sacco di parolacce. Festeggiavamo il suo passaggio per la puritana località di Lagos de Moreno come fosse una pioggia di meteoriti. Se il cane era un regalo di mia nonna Ele che ci arrivava dalle mani di mio zio Rodi, cosa poteva andare storto?

Mio fratello maggiore decise di battezzare il cane con il pomposo nome germanico di Kaiser. Era un Weimaraner, razza originaria della Germania, quindi la scelta sembrava sensata. Incoronammo imperatore il cane più pazzo che abbia mai messo zampa sul pianeta Terra.

La prima notte lo lasciammo dormire nel giardino di casa. Il Kaiser ululò fino all’alba. Pensammo che fosse normale, che gli sarebbe passata presto. Per otto anni continuammo ad aspettare che gli passasse. Accompagnava gli ululati con quello che finì per diventare uno dei rumori caratteristici della casa: dei graffi ansiosi sulla porta metallica della cucina.

Si possono applicare ai cani le categorie della moralità umana? Voglio dire, si può dire che un cane è malvagio?

A quel punto della nostra vita, la mia e quella dei miei quattro fratelli, mia nonna Ele era la persona che più amavamo al mondo. Non più dei nostri genitori, certo, ma i genitori si amano in modo diverso, in automatico, quasi senza rendersene conto

La prima disgrazia del Kaiser fu la rogna. In seguito contrasse un’interminabile serie di malattie alle quali sopravvisse imperterrito, tra cui lo scorbuto e la parvovirosi, questa per ben due volte. Il Kaiser sembrava immortale. Eppure, la rogna non gli passò mai, non la sopportava, e noi con lui. Provammo tutti i rimedi dettati dalla scienza e anche quelli suggeriti dalla vulgata: per un po’ gli facemmo addirittura il bagno col sapone marca Zote. Se ripenso al Kaiser, una delle immagini che mi viene in mente è quella di lui sdraiato a pancia in su che si gratta disperatamente.

Elenco delle marachelle più famose del Kaiser (escluse le avventure in giro per strada): mangiare tre polli con mole, il piatto che preparavamo sempre per il compleanno di mio padre (recidivo), traumatizzare gli altri animali domestici della famiglia (gatti smunti, pappagalli paranoici, pesci insonni), molestare sessualmente le mie cugine, mangiarsi una poltrona del salotto, montare gli ospiti più illustri, volare dal secondo al primo piano nel tentativo di scappare da una finestra aperta.

Il Kaiser, come tutti gli esseri viventi, credeva di avere una missione nella vita. La sua era quella di scappare di casa. Usava tutta la sua intelligenza, che non era molta, per escogitare piani di fuga. Viveva attaccato alle porte dalle quali poteva svignarsela in strada. Una sensazione permanente della mia infanzia: la tensione prima di aprire una qualsiasi porta, all’inizio solo un pochino, per capire se il cane era lì dietro in attesa. La principale strategia del Kaiser era la forza bruta: infilava la testa nella fessura e spingeva, spingeva, spingeva finché… bam! S’intrufolava.

Elenco delle attività preferite del Kaiser in giro per strada: rubare dal macellaio, uccidere le galline nel pollaio del vicino, mangiarsi i manicaretti della vicina – la leggenda narra che una volta abbia mangiato un piatto di fagiolini –, inseguire cagne in calore, inseguire cagne non in calore, strusciarsi con intenzioni sessuali sulle gambe dei passanti, inseguire estranei, abbattere ciechi, abbaiare istericamente agli automobilisti, essere investito.

Con il passare degli anni e l’aiuto di alcuni psicologi, il mio fratellino si dimenticò della sua altra famiglia. O meglio, sostituì quella fantasia con l’allevamento di animali esotici. L’elenco degli animali che mio fratello portò a casa negli anni include: un’iguana, varie salamandre, un falco, dei conigli, un’aquila, qualche serpente, un coyote. Una volta tornò a casa con dei cuy, tipo porcellini d’India, avete presente? Quei topi che aspirano a sembrare conigli o quei conigli declassati alla categoria di topi. Erano parecchi, non so quanti. E andò come sempre: mio padre gli diede ventiquattr’ore per restituirli. Credo che il mio fratellino si fosse ormai rassegnato al fatto che gli animali gli sarebbero durati solo un giorno. Nonostante tutti i precedenti, nessuno aveva previsto che ventiquattro ore di convivenza ravvicinata tra quei roditori e il Kaiser fossero troppe. Non ho intenzione di addolcirvi la scena, mi dispiace, se ci sono lettori sensibili da queste parti, vi prego di non continuare a leggere.

Ok, sono rimasti solo quelli con lo stomaco forte?

Va bene, ecco qui: la mattina dopo, mentre eravamo a scuola, il Kaiser sventrò tutti i porcellini d’India, uno per uno, senza che i miei genitori se ne accorgessero. Tornando a casa trovammo il giardino intriso di sangue, ricoperto di interiora, visceri, e pezzi di cadaveri: una testolina qui, delle zampe là, code, lombi, altre teste (dietro l’angolo squadroni di psicologi a sfregarsi le mani). La chiusura di un ciclo perfetto: il regalo arrivato in casa nostra per salvare il mio fratellino da deliri e allucinazioni finì per diventare il carnefice della più brutale delle realtà. Il trauma definitivo. Da quel giorno non portò mai più a casa nessun animale, mai più. Fino a quel momento eravamo tutti convinti che sarebbe diventato veterinario, biologo, zoologo o circense. Il Kaiser lo trasformò in un musicista. Debuttò durante l’adolescenza cantando in un gruppo dark che si chiamava La espuma del gusano (La schiuma del verme). In certe canzoni, se prestavi molta attenzione, potevi sentire l’eco delle urla dei cuy, il terrore di fronte al muso assassino del Kaiser.

La pazienza dei nostri vicini durò otto anni, finché uno sventurato giorno il proprietario delle galline non lanciò oltre la recinzione una polpetta di carne marinata con pezzi di vetro. Il Kaiser accorse immediatamente. Morì poche ore dopo, fra atroci sofferenze, una morte orribile. Quel giorno il cane moriva, sì, ma nasceva la leggenda.

La memoria è così, tende a edulcorare ogni cosa. Così il peggior cane della storia diventò la fonte delle storie familiari migliori, quelle che raccontavamo tra le risate, godendoci le facce stupite degli ascoltatori. Ma questo è il meno

Dopo il Kaiser ci furono altri cani, diversi, tutti insignificanti: erano cani buoni, obbedienti, insulsi. Faccio perfino fatica a ricordare i loro nomi.

La memoria è così, tende a edulcorare ogni cosa. Così il peggior cane della storia diventò la fonte delle storie familiari migliori, quelle che raccontavamo tra le risate, godendoci le facce stupite degli ascoltatori. Ma questo è il meno. La lezione del tempo fu scoprire che il regalo di mia nonna Ele ci aveva salvato come famiglia e come individui. Perché la vera missione del Kaiser nella vita era quella di attirare su di sé, sul suo pelo rognoso, tutte le nostre frustrazioni e i nostri rancori, le nostre tristezze e le nostre paure. Kaiser!, gridava uno. Cane di merda!, reclamava un altro. La catarsi familiare era un urlo isterico lanciato al solo scopo di controllare il cane.

Cosa sarebbe successo se non avessimo avuto la scusa del cane?

Sicuramente saremmo stati un’altra famiglia. Sicuramente non saremmo stati così felici.

3. Attraversare il confine

Il primo confine fu il muro che faceva da recinzione alla casa della mia famiglia, a Lagos de Moreno, negli anni ottanta del secolo scorso. Avevo dieci anni quando ci comunicarono che dovevamo lasciare l’appartamento che affittavamo al centro del paese, e mio padre decise di costruire in fretta e furia una casa in una nuova frazione sulla collina. Dato che saremmo stati gli unici abitanti dell’isolato – intorno non c’era letteralmente nulla – papà ritenne necessario costruire una sorta di muro di cinta. All’inizio, più che per proteggerci da minacce esterne, il muro serviva a delimitare il giardino intorno alla casa, per evitare che i proprietari dei terreni adiacenti, quando avessero costruito le loro case, invadessero il nostro. A dirla tutta, i futuri vicini erano due sorelle e un fratello di papà (tutti quei terreni appartenevano a mio nonno, che li aveva distribuiti come eredità tra i suoi figli), il che rendeva ancora più urgente la costruzione del muro, perché un ipotetico conflitto di confine avrebbe in quel caso assunto proporzioni epiche. Ma è meglio non correre troppo.

La nuova casa era grande, ma non era una casa lussuosa. Era grande perché la famiglia era numerosa: mio padre, mia madre, i miei quattro fratelli, il cane pazzo, un numero casuale di gatti, due coppie di pappagallini, i numerosi animali esotici che il mio fratellino continuava ad adottare (falchi, gufi, salamandre, conigli, iguane, coyote) e io. Intendo dire che non era certo una villa, anzi, era ben lontana dall’esserlo. Per esempio: la prima volta che ci fu un temporale, cominciò a piovere in tutte le stanze, con l’acqua che cadeva come una cascata dalle pareti, perché papà aveva finito i soldi e aveva rimandato l’impermeabilizzazione a più avanti.

“Non è la stagione delle piogge”, continuava a ripetere papà, per difendersi, nonostante i secchi che ci toccava riempire con la pioggia e le lacrime di mamma.

L’orto di mio nonno era un terreno di dieci ettari, piantumato con alberi da frutto e con il muro di cinta più bello che avessi mai visto in vita mia: una siepe di fichi. Dall’altra parte c’erano la ferrovia e la fabbrica della Nestlé

Papà era un medico generico – ora è in pensione – e riceveva tutti i giorni nel suo studio, tranne la domenica pomeriggio. Mamma invece si dedicava a occuparsi di noi e alla riproduzione in serie della vita domestica: cucina, pulizie, bucato, approvvigionamento. Frequentavamo una scuola religiosa, andavamo in vacanza al mare ogni morte di papa – una volta ogni cinque o sei anni, per capirci –, compravamo i vestiti in un negozio in centro, gli unici prodotti importati che possedevamo ce li portava una sorella di papà che era emigrata dall’altra parte del muro di confine. Però avevamo un videoregistratore, un’enciclopedia, un abbonamento al Reader’s Digest, la televisione via cavo e l’iscrizione al circolo sportivo, dove prendevamo lezioni di nuoto e tennis. Spiego tutto questo perché bisogna sempre chiarire da dove si scrive, a partire da che luogo: da un lato o dall’altro del confine; di qua o di là dal muro. E poi perché i muri non sono statici, si muovono, hanno vita propria.

Fuori dal muro della nuova casa c’erano solo terreni incolti, le erbacce crescevano senza controllo, i fratelli di papà non si preoccupavano di tenere puliti i loro terreni. Il recinto, per alto che fosse, non ci proteggeva dalle bestiacce che s’intrufolavano in giardino: ratti, serpenti, scarafaggi, lucertole che scoprivano, sbalordite, la splendida vita che mio fratello minore garantiva ai suoi animali esotici. La paranoia di papà e mamma cominciò presto a crescere quanto le erbacce intorno a noi: immaginavano che un ladro avrebbe potuto nascondersi tra l’erba, scavalcare il nostro muro ed entrare in casa. Così papà chiese a un muratore di installare in cima al muro un sofisticatissimo sistema di sicurezza: una corona di appuntiti cocci di vecchie bottiglie di vetro. A pensarci, l’idea non è diversa dal filo spinato a concertina con cui molti paesi proteggono i loro confini.

Una delle proprietarie dei terreni adiacenti era la sorella di papà che viveva dall’altra parte del muro di confine, la mia zia dall’altra parte. Aveva in programma di costruire una casa in quel terreno solo un domani, quando suo marito – anche lui messicano-statunitense, nonché veterano della guerra in Corea – fosse andato in pensione. Di solito veniva a trovarci d’estate, con le valigie piene di acquisti che la famiglia le commissionava nei gloriosi anni che precedettero l’Accordo di libero scambio. Vestiti. Giocattoli. Profumi. Articoli sportivi. Piccoli elettrodomestici. Alloggiava a casa dei miei nonni e il giorno del suo arrivo bisognava avere molta pazienza prima che accettasse di aprire le valigie e distribuire gli acquisti. Era ovvio che le piaceva farsi desiderare, rimandare quel momento, farci sentire il suo potere; lei era il muro che separava il nostro terzomondismo dal primo mondo.

“Zia, a che ora le apri le valigie?”, le chiedevamo.

“Ouch”, rispondeva lei, che adorava usare interiezioni in inglese, “ma voi non avevate voglia di vedermi? O mi volete bene solo perché vi compro le cose?”.

La mia coscienza geopolitica, quella dei miei fratelli e cugini, si formò in quei giorni, attraverso quei ricatti sentimentali: vivevamo da questa parte del muro, dalla parte sbagliata, e dovevamo essere pazienti, affettuosi, rispettosi, stoici se volevamo essere ricompensati da mia zia, che agiva come rappresentante della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.

Insieme alla sorella di mio padre venivano a trovarci i suoi quattro figli – due femmine e due maschi –, i nostri cugini dall’altra parte. Io, i miei fratelli e i miei cugini cercavamo di comunicare con loro, ma era difficilissimo, per via della barriera linguistica: loro parlavano pochissimo spagnolo – sembrava si vergognassero di essere mezzi messicani – e il nostro inglese scolastico era molto scarso. Come se non bastasse, avevamo differenze culturali insormontabili: a noi piaceva l’heavy metal, mentre loro dicevano che era una roba satanica (a onor del vero, devo aprire questa parentesi, perché la verità è sempre complessa, specialmente nella letteratura, ed è mio dovere annotare qui che uno di quei cugini ora è un esperto di cultura maya e delle civiltà precolombiane ne sa più di tutti noi, i cugini messicani. E però un po’ di quella diffidenza gli è rimasta, perché continua a vivere dall’altra parte, ha un ottimo incarico in un’università californiana e in Messico ci viene solo per soggiorni di studio e ricerca).

Appena la zia dall’altra parte ci consegnava gli acquisti, il nostro status cambiava: era come se salissimo di un gradino sulla scala delle classi sociali. Il giorno dopo, quel giocattolo o quell’articolo sportivo ci avrebbe resi uguali, momentaneamente, a quelli che andavano a fare shopping a San Antonio o a Laredo, a San Diego o a Tucson. Il problema era che la zia dall’altra parte veniva da questa parte solo una volta ogni due anni, più o meno, cosa che limitava non poco la nostra mobilità sociale.

Dopo aver aperto i pacchetti degli acquisti, quando stavamo appena cominciando a divertirci, di solito ci mandavano a fare una passeggiata nell’orto del nonno con i cugini dall’altra parte, immagino perché gli adulti potessero parlare delle loro cose. L’orto di mio nonno era un terreno di dieci ettari, piantumato con alberi da frutto e con il muro di cinta più bello che avessi mai visto in vita mia: una siepe di fichi. Dall’altra parte c’erano la ferrovia e la fabbrica della Nestlé, che negli anni cinquanta aveva avviato il processo d’industrializzazione della vita rurale del paese. Da quella parte c’era il futuro, la modernità: latte in polvere, cereali zuccherati, latticini con aromi artificiali; da questa parte, protetta dalla fila di fichi, la nostalgia anticipatoria di quel giardino, il simbolo dell’infanzia che stavamo perdendo. Di fatto, la Nestlé aveva comprato al nonno parte dei terreni e il nonno, con quei soldi, aveva acquistato i terreni della collina, che aveva frazionato e distribuito tra i figli, ma questa è un’altra storia.

Mentre vagavamo fra meli, peschi, melograni e limoni, i miei fratelli, i miei cugini da questa parte e io interrogavamo i nostri cugini dall’altra parte su com’era la vita dall’altra parte, volevamo sapere cosa c’era lì che non ci fosse qui. Volevamo ci raccontassero dei centri commerciali e dei loro negozi, dei parchi di divertimento e degli stadi, ma loro insistevano a dire che la differenza era il comportamento delle persone. Secondo loro, lì era tutto più pulito. Lì si rispettavano le leggi e si applicava la giustizia. Lì, se lavoravi sodo, potevi comprarti tutto quello che volevi, cambiare macchina ogni anno, andare in vacanza a trovare la tua famiglia nel terzo mondo. Qui no. Qui c’erano solo strade sporche, fame, svalutazioni, inflazione, rancore, risentimento, rituali satanici.

Poi arrivavamo ai confini dell’orto del nonno e ci mettevamo a mangiare fichi.

“Ve l’ha dato il nonno, il permesso?”, chiedevano i nostri cugini dall’altra parte, che se ne stavano lì impalati a guardarci mentre prendevamo d’assalto gli alberi.

Noi non rispondevamo, in parte perché non li capivamo bene, e in parte perché le nostre madri ci avevano insegnato a non parlare con la bocca piena. Ricordo che il più piccolo di loro avrebbe voluto assaggiare un fico, ce l’aveva scritto in faccia, ma i suoi fratelli glielo proibivano perché, oltretutto, i fichi non erano stati lavati.

Tornavamo a casa dei nonni, i miei cugini dall’altra parte parlavano in inglese con mia zia dall’altra parte e noi finivamo in castigo per aver saccheggiato il frutteto. Papà ci toglieva i nuovi acquisti, declassandoci. Ci veniva il mal di pancia.

Quasi vent’anni dopo, nel 1998, a venticinque anni, andai a trovare una ragazza che era andata a studiare a Tijuana e finalmente conobbi il muro dei muri, il confine tra Messico e Stati Uniti. Non avevamo intenzione di attraversarlo – all’epoca non avevo né il visto né il passaporto –, ma un pomeriggio, durante una passeggiata sulla spiaggia, ci fermammo per un po’ a contemplare le sbarre che, dalla sabbia, si addentravano nell’acqua e si perdevano all’orizzonte, separando i due paesi via terra e via mare. Era un’immagine così ridicola che faceva un po’ ridere e parecchio piangere. Nessun muro, nemmeno uno acquatico, era riuscito a impedire che le storie fluissero da una parte all’altra del confine.

La storia della famiglia di papà con l’altra parte non si limitava a sua sorella. Il nonno era emigrato dall’altra parte del muro di confine quando era giovane e ancora single – negli anni venti del ventesimo secolo – e lo stesso avevano fatto i suoi due fratelli minori; ma il nonno era stato l’unico a tornare, perché quello che aveva visto non gli era piaciuto, e aveva vissuto in California. I suoi due fratelli erano rimasti, si erano sposati, avevano avuto figli e nipoti. Il più giovane aveva partecipato alla seconda guerra mondiale e poi negli anni sessanta era finito morto ammazzato a Sacramento: una vicenda oscura che è già un possibile romanzo, uno che non scriverò, almeno per il momento.

Il nonno invece era tornato in Messico, aveva sposato la nonna e avevano avuto dieci figli – sei femmine e quattro maschi – tra cui mio padre. Se al nonno fosse piaciuta l’altra parte, se avesse intravisto un futuro di progresso e felicità, se il calcolo delle sue possibilità tra restare dall’altra parte o tornare da questa parte gli avesse consigliato, come alla maggior parte delle persone, di restare lì, tutti noi – mio padre, i miei zii, i miei fratelli, i miei cugini, io – non saremmo mai esistiti e io non sarei qui a scrivere queste memorie dall’altra parte. Siamo figli e nipoti del fallimento migratorio del nonno.

A quel tempo – nel 1998, intendo, non nel 1920 – stavo attraversando una crisi esistenziale e pensavo che l’unico modo per salvarmi fosse cambiare vita. Mi ero spostato dal paese alla città (o, come avrebbe detto il mio carissimo Jorge Ibargüengoitia, “dal provincialismo alla barbarie”), avevo fatto l’università e adesso avevo un ottimo lavoro che mi rendeva molto infelice. Quel viaggio a Tijuana avrebbe finito per trasformarsi in un rito d’iniziazione e forse per questo contemplavo ossessivamente quelle sbarre che affondavano nel mare, come se potessi nuotare al largo, aggirarle e ricominciare da zero in un altro posto. Ed è proprio quello che ho fatto: ho attraversato il confine tra la mia vita passata e la mia nuova vita, ovvero ho lasciato il mio lavoro, sono tornato all’università, questa volta per studiare lettere, e ho cominciato a scrivere. ◆

Juan Pablo Villalobos è uno scrittore nato a Guadalajara nel 1973. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Ti vendo un cane (Cento Autori 2023). Questo racconto è parte di un’autobiografia non ancora conclusa. S’intitolerà La vida en el pueblo es un laberinto . La traduzione è di Giulia Zavagna.

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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati