a Said Herbert

N

on resta neanche un’auto nel parcheggio del carcere di Cadereyta e il sole picchia come una bottigliata in testa. Parcheggiamo nell’ultimo buco, in un triangolo formato da un muro di cemento, un pezzo di terreno incolto e una garitta di sorveglianza. Scendiamo dalla Cutlass, firmiamo il registro degli sbirri e percorriamo a piedi un corridoietto di rete cromata, senza tetto e con il filo spinato sopra. Dopo un’ora lo vediamo arrivare. Lo riconosciamo da lontano, quando supera la seconda porta.

“Sembra che l’abbiano passato in candeggina”, dice Nelson.
“Chiudi il becco”.
“Pare che l’abbiano lavato a suon di botte. Sembra più vecchio e più scassato di Don Manos, che Dio l’abbia in gloria”.
Mi piazzo dietro di lui e gli mollo una pacca nelle costole. Nelson si piega, dai suoi due metri e dieci di altezza, come se gli avesse fatto male. Bebito supera le ultime due porte, gli vado incontro e ci abbracciamo e Nelson ci raggiunge, ci abbraccia pure lui e ci stringe con la sua goffaggine da orso e torniamo verso il parcheggio, ognuno ancora con un braccio attorno alle spalle dell’altro. Lungo il corridoio ci sono secondini ogni tre o quattro metri, e davanti a loro non si dice manco ciao. Saliamo sulla Cutlass in silenzio. Nelson al volante, Bebito davanti, io dietro.
“Chi ti ha dato la grana?”, chiede Bebito appena chiudiamo le portiere.
“Zio Chapete. Da parte di Maruca”.
“Vecchia stronza. Lei e Urko”.

“Urko si sta occupando della faccenda del fu-nerale”.
“Quanto ti hanno dato?”.
“Centomila”.
“Taccagni di merda”.
“Lo so, bro. Erano ottantamila. Vuoi il resto?”.
Bebito mi guarda dal retrovisore. Ha gli occhi pieni di lacrime.
“Sei mio fratello. Quando mai ti ho chiesto il resto?”.
Mi rincuora: sono tre settimane che non becco un lavoro. Quei ventimila mi basteranno per tirare avanti un mese. Poi mi ricordo che il corpo di mio padre è ancora steso in attesa che qualcuno lo lavi, lo trucchi, gli metta il vestito e la cravatta, e l’entusiasmo svanisce.
“Ti vedo bene”, dice Nelson, aggrappato al volante mentre usciamo dallo svincolo e aspettiamo che passi un camion pieno di arance di Montemorelos per immetterci sulla strada verso Monterrey.
Bebito abbassa il finestrino e si guarda nello specchietto laterale.
“Mi vedo uno schifo. Ho passato quattro mesi in galera, in mezzo a tutti gli altri, perché Urko ha detto che non aveva intenzione di pagare per farmi avere dei privilegi. Mi hanno pestato a sangue”.

Ci fermiamo alla pompa di benzina. Bebito manda Nelson all’Oxxo a prendere birre e sigarette e scende dall’auto e si mette a fare il pagliaccio davanti al mio finestrino: si toglie la maglietta per mettere in mostra i muscoli che si è fatto in un anno di galera. Nelson torna e Bebito si rimette la maglietta e salgono entrambi davanti e Nelson mette in moto la Cutlass e Bebito si accende una Marlboro, stappa una Tecate e mi porge una lattina. Dico di no.

“L’hai già visto?”.

“Papà? No”.

“Chi ha trovato il corpo?”.

“Tuo fratello”.

“Muñeco?”.

“Mm”.

“Appunto, stronzo. Anche lui è tuo fratello”.

“Dice di no”.

Bebito beve un sorso di birra.

“È Urko, bro. Ci vuole mettere tutti contro”.

Cerco i suoi occhi nel retrovisore.

“Non è Urko. Muñeco ce l’ha con me per via del crack”.

“Ci parlerò io con quel bastardo rancoroso”.

“Lascia stare. Tanto domani me ne torno a Zacatecas”.

Bebito si slaccia la cintura di sicurezza e si gira verso di me, appoggiando la guancia sullo schienale.

“Hai della roba?”.

“No”.

“Io sì”, dice Nelson.

Gli passa una bustina e il tappino di una penna Bic che tira fuori da sotto l’ascella. Bebito si fa un tiro, poi mi guarda di nuovo attraverso lo specchietto.

“Né roba né birra. Che ti prende, stai in rosso o cosa?”.

“I do what I can”.

“Ma cosa? Sei entrato in un gruppo o che cazzo?”.

“È da un anno e mezzo che vado ai Narcotici Anonimi”.

“Dove?”.

“A Zacatecas”.

Si fa altre due sniffate e tira su con il naso e tossisce e ridà la bustina a Nelson e poi si gira del tutto all’indietro per guardarmi in faccia.

“Ti rispetto, fratello. Ci vuole fegato. Sul serio, stavi cominciando a pisciare fuori dal vaso”.

Nelson litiga con un camionista: quello non mette le frecce, lo stringe in curva, accelera quando proviamo a superarlo.

“Stronzo del cazzo”.

“Già”.

Facciamo un tratto in silenzio. Quando finalmente sorpassiamo il camion, mio fratello dice:

“Hai passato davvero il segno quando hai fregato quel crack a Muñeco. Gli sbirri l’hanno portato via e l’hanno riempito di botte”.

“Me l’ha raccontato”.

“Papà ha detto che non ti avrebbe ammazzato solo perché sei sangue del suo sangue, ma che quando ti rivedeva ti sparava una pallottola nel culo”.

Non rispondo. Nelson ride e piange allo stesso tempo. Poi Bebito. Poi anch’io: sappiamo tutti e tre che non parlerò mai più con mio padre, che mio padre non mi sparerà mai una pallottola nel culo.

“E adesso che combini?”.

“Ho un giro di manutenzione”.

“Ma che fai, lavoro e basta o cosa?”.

“Be’, quello che serve: idraulica, muratura, elettricità, tinteggio case, lucido pavimenti. Mi sono appena comprato una lucidatrice”.

“Ti è sempre piaciuto sgobbare. Ce lo diceva Don Manos, pace all’anima sua. ‘Perché non prendete esempio da vostro fratello maggiore, sfaticati?’. Lo diceva pure a Urko, che manco era suo figlio”.

Nelson frena per non schiantarsi contro una Cherokee. Il traffico comincia ad andare a passo d’uomo.

“E ti gira bene?”.

“A sturare tubature e lucidare pavimenti…? Non mi lamento. Certo, dopo una vita nel nostro giro, qualsiasi centesimo che arriva sembra poca roba”.

“E che ne hai fatto?”, chiede Nelson, mentre si affianca in seconda alla macchina vicina.

“Di cosa?”.

“Del crack”.

“In che senso? Me lo sono fumato, cazzo”.

“Tutto?”.

“Tutto. Ti pare che se no andavo dai Narcotici Anonimi?”.

Restiamo bloccati vicino al parque Fundidora.

“Ora di punta”, si scusa Nelson. “Ora salgo e taglio per Colón”.

Bebito apre un’altra Tecate.

“L’ha trovato Muñeco”.

“Sì. Non so bene com’è andata. Tua madre ha parlato con la mia e poi lei con me. Dicono che gli è venuto un infarto in bagno”.

“Mentre cacava”.

“Dicono che si stava lavando le mani”.

“Per colpa dell’eroina”.

“Pare di no. Dicono che non si faceva più”.

“Non si faceva più di un cazzo”, interviene Nelson. “Da quando era uscito dal Boston. Lo so perché gli ho offerto un tiro e per poco non mi piglia a botte. È che, bro, era rimasto un po’ segnato. Anche lui l’avevano messo in cella insieme a tutti gli altri. Avevamo pagato perché avesse dei privilegi, ma il tizio che avevano messo alla sicurezza non ha voluto la grana. Era tipo una lezione per quella guardia che avevamo fatto sparire. Ogni giorno gli davano delle bastardissime scosse nei coglioni. Perché pensi che abbia ceduto le case e le auto ai federali? Non si sarebbe mai arreso se non l’avessero tenuto per le palle”.

Imbocchiamo Colón e andiamo avanti fino a Guerrero.

“Dopo prendi Diagonal”.

“Cosa?”.

“Qui, bro”.

“Ma le onoranze funebri…”.

“Prima voglio passare dalla Boda romana”.

Nelson svolta a destra, riprendiamo Guerrero dove la traversa finisce contro il muro intonacato con pezzetti di specchi rotti, poi Nelson gira a sinistra e attraversiamo Treviño su calle Marco Polo, verso Vidriera. Parcheggiamo davanti a La Boda romana, il locale che era di papà. Ci sono i sigilli con scritto “chiuso” su tutte le porte e le finestre. La facciata è piena di buchi di Ak-47. Gli spari si confondono con vecchie scrostature dei muri che rivelano quindici o venti spessi strati di vernice.

“Stronzo d’un Urko”.

“Non è stato lui”, si azzarda a dire Nelson. “Quel giorno stava al bancone. Secondo te ordinava una sparatoria in cui sarebbe stato coinvolto?”.

Bebito gli molla uno schiaffo col dorso della mano.

“Tu che cazzo ne sai, coglione? Non sai un cazzo di niente”.

Nelson annuisce. Resto a guardarlo senza che se ne accorga. Non avevo notato che è pieno di capelli bianchi. Ricordo quando era un colosso che colpiva di testa i palloni contro la porta avversaria nelle partite di strada al parco della raffineria della mia infanzia.

“È stato Urko a spifferare ai bastardi”, dice Bebito. “Perché pensi che mi abbiano incastrato? L’infame preferisce stare dalla parte di quei coglioni che hanno perso la guerra pur di ricavarne qualcosa”.

“Scusa, Bebito”, dice Nelson.

“E cos’è quella stronzata che non hanno preso i soldi? Quando mai si è visto che un cazzo di secondino rifiuta i soldi? Quello l’ha detto Urko per tenerli buoni mentre lo metteva in culo a papà”.

“Hai ragione”, risponde Nelson e accende il motore della Cutlass.

Tony è fermo sulla parte più alta: alcuni gradini larghi e pieni di gente, sopra il marciapiede. Le sue urla si sentono fino a metà della strada. Mentre passiamo davanti all’agenzia funebre, abbasso il finestrino dell’auto per avere un’immagine chiara di quello che sta succedendo. Tony sta piantando un indice nel petto di un grassone ben vestito che fa da guardia alla porta. Il tipo si pizzica un orecchio come se stesse per strapparselo. Qualche gradino più in basso rispetto alla discussione, Muñeco fuma.

Nelson gira il volante della Cutlass e si dirige verso il parcheggio. Vedo zio Chapete vicino a un telefono pubblico. Indossa un abito nero e ha le braccia conserte e mormora una preghiera. Guarda in lontananza.

Parcheggiamo. Scendiamo dalla macchina. Ci passano vicino i polpacci di tre cuginette cicciottelle e formose in minigonna. Gli uomini che ci restano (non saranno più di otto) si scansano per farci passare verso il marciapiede. Indossano abiti neri mezzo storti, comprati all’ultimo momento da Del Sol o El Nuevo Mundo. Ci imbattiamo in Iris: tacchetta, con un aspetto terribile, avanti e indietro di fronte all’entrata del parcheggio.

È vestita a lutto con un miniabito nero senza spalline che le mette in risalto le tette e il culone da hostess di ristorante di lusso.

“Digli di non dire cazzate”, dice quando io, Bebito e Nelson le passiamo accanto. “Era il mio uomo, stronzi”.

Profuma di sapone Camay e shampoo Menen alla pesca.

Zio Chapete ci accoglie a braccia aperte in mezzo al marciapiede, come se volesse abbracciarci e allo stesso tempo impedirci di passare. Ha gli occhi rossi perché si è appena fatto uno spinello.

“Ha solo chiesto che lo aspettiamo, capo. Non farne un dramma”.

Vuole fare il duro, ma in realtà sta supplicando.

“Chi?”, chiede Bebito. “Urko?”.

“Il tuo fratellino Urko, capo. Non la fare tanto lunga”.

“Quel coglione non è mio fratello”.

Bebito scansa Chapete e cammina dritto verso la scalinata che porta alle cappelle. Lo seguiamo.

Muñeco ci vede arrivare. Butta il mozzicone dello spinello, mi guarda storto e incrocia le mani dietro la schiena.

“Capito, Bebo…? Non ci lasciano entrare, amico, finché non arriva ‘il figlio’. ‘Il figlio’, dicono, cazzo. Ha esagerato, quel frocio di merda”.

Muñeco cerca di trattenere Bebito, ma Nelson lo scansa con una manata. Bebito sale i gradini e raggiunge Tony, gli fa una presa da lotta libera e lo tira giù. Tony cerca di difendersi, ma quando riconosce nostro fratello apre le braccia in segno di resa.

“Non mi lasciano entrare”.

“Lo so, bro. Neanche a me. Nemmeno a lui, che è il maggiore”, dice Bebito, mollandolo e indicandomi con la testa. “Ma evitiamo scenate”.

“Ma che cazzo”.

Bebito gli accarezza la nuca e gli dà un bacio sulla guancia.

“Ti dico solo una cosa, ragazzino: è così che lo vuoi ricordare per l’ultima volta?”.

Marta, la madre di Tony, afferra suo figlio. È il fratello che conosco meno: l’avrò visto dieci volte in tutto. Don Manos Torpes non lo voleva nel giro. Studia. Non deve avere neanche diciotto anni. Si mette a urlare. Si libera dalla madre e torna verso di noi. Io, Tony, Bebito e Muñeco ci sediamo sul marciapiede ad aspettare che mio cugino Urko si faccia vivo e ci dia il permesso di entrare a salutare il vecchio.

Passano meno di dieci minuti. Urko scende da una Land Rover scortato da Vicky, il suo autista, e da un tirapiedi basso e tarchiato, che di sicuro si sta scopando. Dietro di loro ci sono zia Maruca e donna Quecha, la madre di Muñeco e di Bebito.

“Questa, cazzo, proprio non me l’aspettavo, Sultanes”, dice Bebito a denti stretti, ridendo, con voce da cronista.

Mi guardo attorno e faccio il conto delle vedove. Manca solo mia madre. All’improvviso mi sento orgoglioso di niente.

Urko passa accanto a Bebito e al resto dei parenti, viene dritto verso di me e mi abbraccia.

“Scusami, cugino: gli avevo spiegato che dovevano aspettare il figlio maggiore. Ma siccome sono delle vere teste di cazzo, mi hanno confuso con te”.

Indossa una giacca di pelle tre quarti Dolce & Gabbana che, nel caldo soffocante dell’estate nel Nuovo Regno di León, lo fa sembrare elegante come un gang-ster italiano e allo stesso tempo ridicolo come un figlio di un elettore del Partito di azione nazionale di San Pedro. Si copre con la mano l’occhio strabico per vedere meglio. Lo trovo ingrassato. Si gira verso Bebo e dice, scoprendosi la faccia e fingendo di parlare a tutti:

“Io credo che sia giusto che a salutare per primo il grande capo sia il suo primogenito, no?”.

Si volta e, senza aspettare risposta e prendendomi per il braccio, mi accompagna verso l’ingresso dell’agenzia di pompe funebri. Gli altri ci seguono. Iris prova a infilarsi davanti con la sua silhouette da hostess di ristorante di lusso, ma Urko le dà una gomitata e per poco non la fa cadere.

“Vaffanculo. Era il mio uomo”.

Urko si copre di nuovo l’occhio strabico con il palmo della mano, per guardarmi di sottecchi con l’altro. Dietro di noi ci sono Maruca, zio Chapete, Tony e sua madre Marta. Mi volto e cerco Bebito e lo vedo qualche gradino più in basso, abbracciato da Muñeco e da sua madre donna Quecha e protetto dai due metri e dieci di altezza di Nelson. Mi viene in mente, senza motivo, che Nelson era l’autista che ci portava a scuola da piccoli. Faccio un cenno dubbioso a Bebito e lui mi manda un bacio con la punta delle dita e mi sorride con uno di quei suoi sorrisi perfetti che, insieme ai pick-up ultimo modello, al Buchanan’s, alla musica Banda e alle armi di grosso calibro che gli comprava mio padre, gli hanno dato il privilegio di scoparsi i più bei culi del Regno.

Il grassone ben vestito che fa la guardia alla porta apre entrambe le ante di legno e ci lascia passare.

Io e Urko avanziamo barcollando, spinti da quelli che ci stanno dietro. È buio. Si sente il clic di un interruttore. Poi si sente il ronzio che fanno i vecchi neon lunghi, che vibrano come frigoriferi. Una macchia di luce piatta cade sulle mattonelle. In fondo a una stanza lunga, dipinta di verde e caffè, c’è il feretro. È coperto da composizioni floreali bianche, gialle e viola. Urko mi lascia il braccio. Sento la gente dietro di me appiattirsi lungo le pareti della cappella, come se volesse stare alla larga dal morto. Sento l’odore nauseabondo dei ceri che cominciano a essere accesi. Sento i primi singhiozzi, tutti falsi, tranne quello di Bebito che, da qualche angolo alle mie spalle, più che un pianto sembra un respiro rauco, un rantolo di muco rappreso.

Mi avvicino al feretro con gli occhi asciutti. All’improvviso mi vergogno di non avere la cravatta. Penso al mattino in cui l’ho conosciuto.

Avevo sette anni e mia nonna mi tirò giù dal letto (era ancora notte) e mi consegnò a mia madre alla porta sul retro di un bordello che si chiamava El Siglo XX. Quello che ricordo meglio è com’era truccata: mamma aveva le palpebre coperte da un ombretto argentato che le arrivava fino alle tempie.

Mentre si struccava con la crema Theatrical, mi portò in taxi a bere un frappè in un posto in calle Villa-grán. Stava albeggiando quando lo incontrammo dall’altra parte della strada. Stava montando una bancarella di magliette heavy metal.

“Salutalo”, mi disse lei. “È tuo padre”.

Mia madre continua tuttora a sostenere che lo trovammo per caso, ma io so che l’aveva pianificato: si era innamorata di un tizio che non mi sopportava, e così aveva fretta di liberarsi di me. Due mesi dopo andai a vivere a casa di Manos Torpes – nel quartiere tutti chiamavano così mio padre perché riusciva a tenere tra le dita una bottiglia da un litro di Carta Blanca come fosse una da mezzo. Aveva pugni potenti quanto quelli di Julio César Chávez e dita e palmi più robusti di quelli di Blue Demon.

Anni dopo l’aiutai a gestire lo spaccio al dettaglio a colonia Treviño. Mi chiamavano Manitas. Ma anche se ero il maggiore, per papà non sono mai stato il primogenito. Quel posto è spettato a Bebito, il figlio di donna Quecha, con la quale si sposò. Lo sapevamo tutti. Tutti lo rispettavamo. Tranne, a quanto pare, mio cugino Urko.

Mi metto sull’inginocchiatoio di legno e cuscini di raso, in modo che la mia testa resti appena sopra la sua, che giace orizzontale e comoda – o almeno così pare – nella bara aperta. Il suo volto è ancora quello dell’unico stronzo più bello di me che io abbia mai visto in vita mia.

I froci dell’agenzia funebre non hanno osato rovinarlo: appena un tocco di trucco. Ha una barba sale e pepe ben curata, si notano le zampe di gallina e il naso e la bocca sottili e anche la cicatrice di una coltellata che gli attraversa l’occhio sinistro. È bello, il mio vecchio. Mi viene voglia di ucciderlo. Mi viene voglia di dargli un bacio sulla bocca.

A mezzogiorno del giorno dopo, quando usciamo dal cimitero, Bebito ci costringe ad andare a mangiare qualche taco, prima di avviarci al rosario.

“Dobbiamo arrivare insieme e per ultimi”, ordina.

Marta, la madre di Tony, non vuole lasciare che suo figlio venga con noi finché Bebito non giura sulla memoria di Don Manos che è per la sua sicurezza, che zero coca e che non gli faremo bere troppa birra. Alla taquería io e Nelson ci sediamo a un altro tavolo per non far incazzare Muñeco. Poi ripartiamo tutti insieme con la Cutlass verso La Boda romana.

“Vai verso avenida Carranza”, ordina Bebito a Nelson.

Io, Tony e Muñeco siamo ammucchiati sul sedile posteriore. Muñeco sta attaccato al finestrino pur di non toccarmi, come se avessi la rogna. Di tanto in tanto mi guarda oltre la spalla e avrebbe voglia di spararmi.

“Qui”, dice Bebito.

Parcheggiamo in Magallanes, la via parallela sul retro del locale. Abbassiamo i finestrini per accenderci una Marlboro. L’isolato è deserto. Soffia quel venticello rovente che esce dalla bocca a Monterrey d’estate. Non si sente niente, solo molto in lontananza gli accordi di Eslabón por Eslabón. Ognuno si fuma il suo.

“Voglio una pistola”, dice Tony.

“Che cazzo di pistola, ragazzino del cazzo. È un funerale, non un lavoro”.

“Allora perché non entriamo dalla porta principale, come gli altri?”.

Bebito non risponde.

Saliamo la grata di casa di Norma, prima Nelson e Bebito e poi Tony e poi io. A Muñeco bisogna dare una mano perché è fuori forma. Ci sediamo sul tetto mentre Nelson scavalca un paio di muri di cinta e scende fino in cortile lungo il muro di casa di Conchis. Lo aspettiamo giocando a lanciare monete da cinque pesos contro il muro di mattoni. Saranno quasi le quattro e il sole batte come una bottigliata in testa e fa un caldo cane, ecco perché mi tolgo la camicia. Dopo circa quindici minuti, si sente un fischio. Mi avvicino al bordo dei tetti. Dal cortile della Boda romana, Nelson mi saluta con una bustina da un’oncia di coca. Scendiamo dal muro. Vicky, l’autista di Urko, ci viene incontro.

“Che diffidenti”.

Nessuno risponde.

Dentro continua a suonare Lalo Mora, e ci sono Buchanan’s 18 da due litri presi al Costco e bustine di coca e specchi da 15x20 centimetri su tutti i tavoli e in cucina c’è El Carnal che, a tutta velocità, prepara enormi tortillas di coscia e carne sfilacciata e accanto al jukebox ci sono uno sgabello alto e un cuscino rosso con pile di monete da dieci pesos: tutto come aveva disposto Manos Torpes. Maledetto Urko, non si è dimenticato nemmeno delle spogliarelliste bulgare di don Raciel Pulido, che ora ballano in un angolo, annoiate, senza palo e con addosso tute dai colori sgargianti.

Mi rimetto la camicia. Tony si lancia su alcune strisce e sniffa come un tossico e nessuno lo ferma: fanculo a sua madre Marta, mi dico. Muñeco, Bebito e Nelson occupano un tavolo. Io cammino fino all’angolo del bancone più vicino alla porta, dove servono mio cugino Urko e il suo tirapiedi rasato, succhiacazzi. Urko mi passa una tortilla enorme.

“Ci siamo appena fatti i tacos”, dico a mo’ di scusa.

Urko abbassa gli angoli della bocca come se facesse spallucce e fa scivolare il mio piatto lungo il bancone fino a dove lo afferra il suo tirapiedi. L’occhio ballerino di mio cugino traballa di nuovo. Urko se lo copre con la mano. Si è tolto la giacca Dolce & Gabbana e adesso indossa una casacca da cuoco rosso brillante e un cappellino da chef con stampati sopra dei teschi bianchi su fondo nero, fregandosene del fatto che tutti sappiamo che non è lui a cucinare.

“Ti fermi?”.

Faccio cenno di no con la testa. Urko mi afferra per la nuca e si avvicina sopra il bancone come se stesse per baciarmi. Non smette di tenersi l’occhio strabico con l’altra mano. Il suo alito sa di Listerine.

“Resta, bro. Resta qui con me adesso, che sei pulito”.

“Si spargono in fretta, le voci”.

“Bebito è pieno di merda, ma tu sai cosa voleva mio padre”.

“Non era tuo padre”.

“Voleva tenerli fuori dal giro. Per la loro sicu-rezza”.

“Non l’hai mai chiamato papà”.

“Per questo mi ha voluto come braccio destro. Mi servi per calmare la banda, bro. Tu li conosci. Sono bravi ragazzi, ma non vedono l’insieme. Non vedono le opportunità”.

“E io sì, vero? Perché mi sono sniffato una quantità di crack senza senso”.

“Non stiamo parlando di quello”.

Deluso, mi lascia e torna in cucina e si rimette a servire tortillas giganti.

Ordino un’acqua minerale e un mazzo di carte e continuo a fare un solitario sul bancone. Qualcuno ha appena spento il jukebox e non me ne sono accorto. In fondo si sentono i rosari delle madri. Vicky mi passa accanto diretto verso la strada.

“Dì a tuo cugino che sarò nel pick-up, ok?”.

Annuisco. Quando Vicky apre la porta, butto un’occhiata fuori. Sta cominciando a fare buio.

Iris si è seduta vicino a Bebito. È ubriaca fradicia e tira coca dal tavolo con l’unghia lunga del mignolo e si avvicina molto al volto di mio fratello mentre parla e, sotto il tavolo, gli sfiora il ginocchio con il suo. Il tirapiedi di Urko si gira verso di me, sorridendo:

“Sta già cercando un rimpiazzo, la troietta”.

Urko gli dà una manata in testa e gli dice qualcosa che non capisco. Non so se lo fa perché ci sono io, ma il fatto è che in famiglia tutti sappiamo che Iris aveva una gemella, e che quando parla ti si avvicina sempre così, sempre, da quando era bambina, e noi pensavamo che ce la saremmo scopata appena fosse cresciuta un po’, senza immaginare che il fortunato sarebbe stato nostro padre. Perfino Urko pensava di farsela, e dire che quasi non gli piacciono le tipe. Alla fine, le abbiamo voluto bene come a una sorella minore.

Muñeco si siede al bancone accanto a me.

“E tu, stronzo, da quando in qua giochi al so-litario?”.

Gli dico la verità:

“È solo per fottere il vizio e non tirarmi una striscia. Solo finché me ne vado”.

“Avresti dovuto fotterlo prima il vizio, cazzone. Mi avresti risparmiato la pestata della mia vita”.

“Lo so, bro”.

Restiamo seduti un momento in silenzio, io concentrato sul gioco, lui a bere.

“Almeno, coglione, mi consola che non hai potuto salutare il vecchio”, dice infine Muñeco.

Poi, come uno che porta in mano una ferita altrui come fosse una torcia olimpica, afferra il suo bicchiere e scompare in fondo al locale.

Si sbaglia.

Un paio di mesi prima che lo mettessero dentro (circa quattro mesi dopo che avevo smesso di fumare crack, avevo cominciato a frequentare le riunioni e a lavorare nelle manutenzioni), Manos Torpes mi aveva chiamato al cellulare. Mi disse che gli aveva dato il numero mia madre.

“Come stai?”.

“Bene”.

Pensai: “Mi sta cercando per farmi fuori”.

Non menzionò mai il panetto di crack con cui ero scappato dal Regno.

“Sono qui a Zacatecas, figlio. Ho bisogno di un favore”.

Disse che stava arrivando da Guadalajara con un carico medio quando qualcuno lo aveva avvertito che lo avrebbero fermato a un posto di blocco dei marines. Disse che si era fermato sul ciglio della strada e aveva seppellito due chili di coca e qualche bottiglia. Disse che poi aveva guidato fino al posto di blocco, e che i militari lo avevano fatto scendere, perquisito, maltrattato e che gli avevano quasi smontato il pick-up, ma non avevano trovato nulla e alla fine, controvoglia, l’avevano dovuto lasciar andare. Disse che ora era a Zacatecas, senza soldi né merce e cacato sotto dalla paura e che l’unica cosa di cui aveva bisogno era una dose per calmarsi un po’ e continuare per la sua strada. Disse che era in territorio nemico, e che non poteva certo andare da solo a procurarsela perché rischiava di essere riconosciuto e fatto fuori e che, senza soldi, come poteva fare? Che per favore gli dessi una mano, che parlassi io con gli spacciatori, che in fondo io non ero nessuno. Mi suonò come tutta una storia superassurda per attirarmi fuori e piantarmi una pallottola nel culo o qualche bastonata, ma che potevo fare? Dall’altra parte della linea c’era mio padre. Gli diedi il mio indirizzo, riagganciai e composi il numero del miglior spacciatore della città; sapevo che a Manos Torpes non era mai piaciuto farsi di robaccia.

Rimanemmo insieme per meno di cinque minuti. Non volle entrare in casa: si fermò all’angolo e mi chiese di uscire a portargli la roba. Salii sul sedile del passeggero, facendomela sotto per la paura. Lui, al volante, sembrava ancora più paranoico di me. Appena chiusi la portiera, mi rifilò un manrovescio che per poco non mi staccò la testa.

Fu allora che capii che non era venuto ad ammazzarmi: quello era il gesto più affettuoso di cui fosse capace.

“Come va, coglione? Mi ha detto tua madre che sei entrato ai Narcotici Anonimi”.

Mi sentii ridicolo mentre annuivo e gli porgevo la bustina da tre grammi e mezzo di coca sul sedile. Papà prese la droga e si fece due sniffate. Poi rimase in silenzio, aspettando che facesse effetto. Fece una smorfia di approvazione. Per tutto il tempo, non mi guardò mai negli occhi.

“Bene”, disse, porgendomi la mano destra “come disse la formica: fanculo e che Dio ti benedica”.

Non riuscii a trattenermi:

“Ti voglio bene, papà”.

Fece un’altra smorfia d’approvazione, senza guardarmi. Ci stringemmo la mano.

“Vivo”, disse. “Morto, a che serve”.

Scesi dal pick-up. Riuscii a intravedere il suo volto con la coda dell’occhio mentre metteva in moto. Stava piangendo.

Esco dalla Boda romana come se volessi solo andare a prendere una boccata d’aria. L’unico che capisce le mie vere intenzioni è Bebito: incrociamo lo sguardo prima che io varchi la soglia, e credo stia per alzarsi per raggiungermi, ma alla fine si limita a un vago cenno d’addio con la mano. Glielo restituisco e me ne vado.

È una bella notte: la temperatura è scesa un po’ e soffia un’aria quasi fresca, cosa rarissima nell’estate di Monterrey. Accendo una sigaretta. Mi fermo accanto al furgone di Urko. Dentro, al posto di guida, Vicky russa. Penso a quanto sarebbe facile girare l’isolato, raggiungere la Cutlass di Nelson, che è aperta, prendere la pistola automatica che il nostro ex autista porta sempre nel cruscotto, tornare davanti alla Boda… far fuori prima Vicky, coprendomi gli occhi per non beccarmi le schegge di vetro del finestrino, infilarmi la pistola dietro la schiena, entrare nel locale fingendomi spaventato, avvicinarmi a mio cugino Urko come per dargli una spiegazione, tirare di nuovo fuori la pistola e ficcargliela in bocca – uno, due, tre colpi – passare poi l’arma a Bebito (“digli che sono stati gli sbirri”), come fosse uno scettro, e poi sparire.

(Mi chiedo se mio padre sarebbe mai stato capace di una cosa simile).

Penso tutto questo in molto meno tempo di quanto ci si metta a raccontarlo: giusto il tempo di un tiro di sigaretta. Poi mi metto a camminare lungo Marco Polo in direzione Vicente Guerrero, in cerca di un taxi che mi porti alla stazione degli autobus.

Poche strade più avanti, incappo in un gruppetto di sei o sette teppisti che si tracannano bottiglioni di birra da un litro in un androne.

Due di loro scendono sul marciapiede, aggressivi, mi sbarrano il passo. Mi ricordo che sotto i pantaloni ho una cintura portasoldi con ventimila pesos: sufficienti per sopravvivere un mese. Mi tiro su le maniche e mi stiracchio, preparandomi alla rissa.

Una voce, dalla zona più buia dell’androne, dice:

“Non fate gli idioti: questo è Manitas”.

I due teppisti si avvicinano, mi riconoscono o fingono di riconoscermi al buio, e si scostano per lasciarmi passare.

“Scusi, signore”, dice uno.

“Le mie più sentite condoglianze, Manos Torpes”, dice l’altro. Come se fossi erede di chissà cosa: niente, solo di un soprannome.

Cammino fino ai confini di colonia Treviño, mentre le auto mi sfrecciano accanto come fulmini, coi finestrini abbassati e la musica sparata a tutto volume. All’incrocio tra Guerrero e Colón mi volto per dare un’ultima occhiata al mio quartiere: un’oscurità densa, punteggiata da poche lucine colorate. Poi fermo un taxi e gli chiedo di portarmi alla Central Camionera. Ed è tutto. Qui finisce Monterrey. Qui finisce il mio Regno. ◆

Julián Herbert è uno scrittore e poeta nato ad Acapulco nel 1971. I suoi libri sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, turco e italiano. Tra i suoi molti riconoscimenti il Premio ibero-americano de novela Elena Poniatowska. È anche cantante della band folk rock Los Tigres de Borges. Questo testo è tratto dalla raccolta di racconti Tráiganme la cabeza de Quentin Tarantino (Penguin Random House 2017). La traduzione è di Sara Cavarero.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati