Questo articolo fa parte della serie Before it is lost, in cui scrittrici e scrittori di paesi del Pacifico raccontano la lotta contro il cambiamento climatico che minaccia la sopravvivenza delle loro isole.

Possiedo un cestino che non potrei mai gettare via. È poco pratico, con una base che occupa l’intera superficie di un qualsiasi tavolino da caffè e un manico alto e rigido che rende impossibile sistemarlo su una mensola. L’ho salvato innumerevoli volte dal cumulo di oggetti da donare a un negozio di beneficenza. Lo scorso Natale, mentre io e mio marito facevamo gli scatoloni per il trasloco e stilavamo un crudele inventario delle nostre cose, l’ho salvato di nuovo e ho espresso ad alta voce ciò che pensavo di quel cestino e dei molti anni che avrebbe ancora vissuto con noi: “Non lo getterò mai via”, ho detto. “Mai”.

Il cestino intrecciato viene da Tuvalu, un paese nel Pacifico meridionale, quattromila chilometri a nordest di Sydney. Spesso chi è originario di questa regione è esasperato dal continuo uso dell’aggettivo “minuscola” per descrivere un’isola qualsiasi di cui si parla nei mezzi di comunicazione, ma nel caso di Tuvalu l’aggettivo è azzeccato.

È il quarto paese più piccolo del mondo per estensione e, con i suoi undicimila abitanti, il terzo meno popoloso. Tuvalu ha anche un’altra crudele particolarità: è uno dei paesi più a rischio per l’innalzamento del livello dei mari. Spesso è citato insieme a Kiribati, perché questi sono i primi stati insulari che potrebbero diventare completamente inabitabili e poi sparire sott’acqua in un futuro terribilmente prossimo.

Salinità nelle falde, ondate di caldo, maree, inondazioni, distruzione della barriera corallina, erosione della costa: tutto questo è già cominciato. La sottile lingua di terra, che è l’isola principale, in un punto è larga appena venti metri, stretta tra l’oceano che infuria da una parte e la laguna dall’altra.

Tre anni fa, quando ho visitato Tuvalu, acquistare il cestino in un mercato pieno di sarong e corone di fiori e portarlo a casa in Australia mi è sembrato un gesto di recupero. Era il privilegio di avere un pezzo tangibile di un’isola sulla quale incombe una minaccia terribile. Un ricordo della cultura e dell’artigianato di un paese che ho avuto la fortuna di vedere e che potremmo perdere. Tutti siamo coinvolti dalla crisi climatica, ma nessuno lo è più di chi vive nel Pacifico. La storia del clima qui è piena di perdite e ingiustizie. Anche se contribuisce in modo del tutto trascurabile alle emissioni globali di gas serra, la regione ne patisce gli effetti in modo sproporzionato.

Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale il tasso di aumento delle temperature in superficie nelle acque in alcune aree del Pacifico sudoccidentale è il triplo rispetto alla media globale. Ed è qui che sono cinque dei quindici paesi più esposti ai rischi legati al cambiamento climatico. Secondo un rapporto del 2021 del Pacific island climate change monitor, negli ultimi trent’anni in gran parte di questa regione il livello medio del mare si è alzato tra i dieci e i quindici centimetri, contro una media globale di 9,7 centimetri.

Fiji ha offerto a Tuvalu dei terreni su cui trasferire i suoi abitanti. Ma l’offerta per quanto generosa non può soddisfare la comunità internazionale, perché un paese andrebbe perduto

Le perdite già subite – in termini di territorio, sicurezza, vite umane, specie – sono enormi. Le perdite che potrebbero verificarsi sono impensabili.

Ho visitato Tuvalu nel 2019 per seguire il Forum delle isole del Pacifico. L’allora primo ministro, Enele Sopoaga, ha usato in modo sfacciato la cultura e la bellezza naturale dell’isola come arma per promuovere davanti a politici, capi delle ong e giornalisti in visita la battaglia che il suo paese stava conducendo.

Quasi tutte le sere c’era un fatele, una festa con balli e musiche tradizionali. Le isole lo organizzavano a turno mettendo da parte pesce e aragoste, e portando noci di cocco e taro per imbandire un lauto pasto per le centinaia di visitatori. Dopo aver mangiato, c’erano canti e danze. Tra le isole c’era una grande competizione, i gruppi si sfidavano tra loro e si deridevano amichevolmente.

Una mattina, prima dell’alba, Sopoaga ha invitato gli ospiti ad andare sulla spiaggia per imparare un metodo di pesca tradizionale di Tuvalu, in cui si nuota nella laguna tutti sulla stessa linea, percuotendo l’acqua con rami di palma per radunare nell’acqua bassa i pesci, che sono poi circondati e catturati con le reti.

Nuotare all’alba in quel mare perfetto e tiepido, vicino a quella spiaggia di sabbia bianca, sentendo persone che cantavano e lanciavano richiami dalla riva mentre accendevano fuochi per cucinare quello che avremmo pescato è stata una delle esperienze più belle che mi sia mai capitato di vivere.

Era diplomazia che si faceva strada a colpi di cultura. Il primo ministro voleva mostrarci cosa avremmo potuto perdere a causa della crisi climatica, farci toccare con mano l’unicità di Tuvalu, renderla distinguibile nell’elenco dei piccoli paesi del Pacifico, isole intercambiabili e senza caratteristiche parti­colari.

Fiji ha offerto a Tuvalu dei terreni su cui trasferire i suoi abitanti. Ma l’offerta, per quanto generosa e forse – dio non voglia – necessaria, non dovrebbe soddisfare la comunità internazionale. Tuvalu non è Fiji, le sue isole non sono interscambiabili. Anzi, nelle danze sono fortemente competitive.

Ho passato solo una settimana a Tuvalu, ma se quest’isola dovesse scomparire mentre sono in vita mi si spezzerebbe il cuore. Ecco perché ho portato con me quel cestino, ecco perché occupa molto più spazio di quello che ho a disposizione nel mio piccolo appartamento.

È un pezzo fisico di un’isola che il mondo non dovrebbe deludere. Qualcosa che può essere toccato e tenuto in mano, che proviene da un paese che in futuro potrebbe trasformarsi in uno stato digitale, una nazione dispersa o insediata altrove.

Le scrittrici e gli scrittori di queste pagine provengono da tutto il Pacifico e portano nelle ossa e nel sangue le loro isole, quelle meravigliose terre minacciate. Sono persone straordinarie: una veterana del giornalismo esperta di clima, una famosa accademica, un saggista candidato ai premi Pulitzer. Lo dico non solo perché sono orgogliosa di poter pubblicare i loro scritti, ma anche per rafforzare l’idea che, pur essendo indiscutibilmente vittime della crisi climatica, i popoli del Pacifico sono anche, senza ombra di dubbio, degli eroi della battaglia per il clima. Una battaglia che conducono da decenni con orgoglio, creatività e intelligenza. Una battaglia alla quale anche il resto del mondo deve unirsi, prima che sia persa. ◆ gim

Kate Lyons è una giornalista dell’edizione australiana del quotidiano britannico The Guardian, per il quale segue il Pacifico. Questo articolo e quelli delle pagine successive sono usciti sul Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati