All’inizio di ottobre avevo scritto che il movimento per il clima stava sbagliando: nessuno a parte gli attivisti avrebbe visto in Lützerath un simbolo. Evidentemente avevo torto. Lo sgombero ha suscitato grande clamore: nel resto del mondo ci si chiede perché nel 2023 la Germania continui ad abbattere villaggi per far posto alle miniere di carbone, e nel paese a protestare non sono stati solo gli ambientalisti. Ovviamente gli attivisti esagerano quando dicono che il limite degli 1,5 gradi si trova proprio qui, ma fino a un certo punto: le miniere della Renania sono la principale fonte di emissioni in Europa.

A Lützerath non è stata demolita solo qualche vecchia casa, ma anche l’idea che la crisi climatica possa essere risolta con compromessi che non danneggiano nessuno. Non sono solo i Verdi a cullare questa illusione, ma tutti i partiti. La maggior parte della società cerca di non vedere ciò che è ovvio.

Se la strategia del compromesso è fallita, viene da chiedersi qual è l’alternativa. C’è una maggioranza a favore di misure radicali in difesa del clima, anche contro gli interessi delle aziende energetiche e di milioni di automobilisti? Per ora nessuno sa rispondere, nemmeno il movimento per il clima. Lo sgombero di Lützerath è anche un segno della sua impotenza: negli ultimi anni ha cercato di influenzare le decisioni del governo con manifestazioni di massa, e ora è tornato a dover affrontare le ruspe con piccoli gruppi di attivisti, come nel 2018 nella foresta di Hambach. Partecipare ai talk show è servito a poco: ora il movimento deve cercare di imporre la difesa del clima non con le parole, ma con i fatti.

È troppo presto per valutare lo sgombero di Lützerath in prospettiva storica, ma di sicuro cambierà per sempre il movimento per il clima e la nostra idea del ruolo della politica nella crisi climatica. Stavolta penso di non sbagliarmi. ◆ gac

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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati