Quando ero bambina, nell’Albania degli anni novanta, il padre di una delle mie amiche era un trafficante di esseri umani. Lo chiamavamo B lo Zoppo. B lo Zoppo non era sempre stato un trafficante: prima che il mio paese passasse dall’essere uno stato comunista a uno liberale, lavorava come operaio in un cantiere navale, dove fabbricava reti da pesca e riverniciava le barche.

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Non aveva neanche l’aspetto di un trafficante: era piccolo, anemico e zoppicava. Non aveva scelto di entrare in quei giri, ma le privatizzazioni arrivate insieme al pluralismo politico avevano costretto i dirigenti dei cantieri navali a licenziare molte persone. E così B e sua moglie si erano ritrovati senza lavoro. B non si considerava un trafficante: per lui quello era un lavoro come un altro. Era pagato per aiutare le persone a raggiungere in gommone l’Italia e aveva bisogno di soldi per sfamare i suoi figli. Era un po’ spaventato, ma non si vergognava di quello che faceva. Per decenni gli albanesi erano stati uccisi dallo stato ogni volta che cercavano di attraversare il confine. Nei rarissimi casi in cui ci riuscivano, i parenti rimasti indietro venivano deportati. Negli anni novanta gli albanesi erano finalmente liberi, e B lo zoppo li aiutava a realizzare i loro sogni. Ne parlava con una punta d’orgoglio.

I commenti della ministra dell’interno Suella Braverman hanno offeso e danneggiato le decine di migliaia di albanesi che sostengono il loro paese d’adozione

Una notte, sparì e non tornò più. Alcuni dissero che era stato ucciso, altri che era annegato nell’Adriatico, divorato dagli stessi pesci che finivano nelle sue reti.

Dalla fine della guerra fredda l’emigrazione è stata per l’Albania una benedizione e una maledizione. Una benedizione perché, senza i soldi inviati dagli emigrati albanesi alle loro famiglie, tante persone avrebbero dovuto affrontare l’impatto devastante della “terapia d’urto” delle riforme neoliberiste, che promettevano di trasformare uno stato comunista isolato e fallito in un fiorente paradiso capitalista. Una maledizione perché, contrariamente a quanto la propaganda dei conservatori britannici vorrebbe far credere, nessuno si diverte a lasciare il suo paese solo per il gusto d’infastidire gli abitanti di un altro. A parte i pericoli delle traversate non autorizzate, e anche quando avviene seguendo percorsi legali, l’emigrazione lacera le famiglie e la fuga dei cervelli è una ferita aperta.

Ogni anno lo stato albanese investe in medici e infermieri che poco dopo la laurea abbandonano il paese, attratti da stipendi più alti e migliori condizioni di vita in occidente. Sostenere un sistema d’immigrazione a punti o pensare che il Regno Unito debba investire per attirare immigrati altamente qualificati significa approvare di fatto una forma di sfruttamento. Gli albanesi lavoreranno e pagheranno le tasse perché gli anziani britannici siano assistiti da infermiere albanesi. Negli ospedali albanesi mancherà il personale, affinché i pazienti nel Regno Unito possano continuare a ricevere cure adeguate.

I governi occidentali non sono affatto preoccupati da tutto questo. Per loro la migrazione è una statistica. B lo Zoppo era uno dei centinaia di migliaia di albanesi il cui destino è stato segnato dalle migrazioni. Proprio come me. Per il governo britannico e la sua ministra dell’interno, Suella Braverman, siamo entrambi criminali.

A parte i pericoli delle traversate non autorizzate, e anche quando avviene seguendo percorsi legali, l’emigrazione lacera le famiglie e la fuga dei cervelli è una ferita aperta

Parlare di “invasione” degli albanesi che sbarcano sulle coste meridionali britanniche, come ha fatto Braverman durante una seduta del parlamento il 31 ottobre – anche a prescindere dalla plausibilità di questa espressione in un paese con uno dei più bassi tassi di richiedenti asilo in Europa – suggerisce un’improvvisa inversione di tendenza e le brutte intenzioni da parte del governo di Londra.

La verità è che dalla fine della guerra fredda l’Albania registra il più alto tasso di emigrazione d’Europa, una tendenza che le Nazioni Unite prevedono continuerà per almeno altri vent’anni. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, quando l’Unione europea strangolò paesi come la Grecia (dove più della metà della popolazione immigrata è albanese), i soldi inviati alle famiglie d’origine diminuirono in modo significativo.

Il covid-19 ha inferto un altro duro colpo a uno stato già debole e dalle forti disuguaglianze. Ha costretto molte aziende a chiudere e ha fatto aumentare le spese sanitarie. Non ha aiutato il fatto che i nostri “alleati” dell’Europa occidentale abbiano fatto incetta di vaccini senza preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine per gli altri paesi. Ma, nonostante tutto, nell’estate del 2021, all’indomani del ritiro della Nato dall’Afghanistan, l’Albania – un paese con 2,8 milioni di abitanti e tra i più poveri d’Europa – ha accettato di ospitare quattromila rifugiati afgani rifiutati da tutti gli stati più ricchi della Nato.

È vero che nell’ultimo anno è cresciuto il numero di albanesi che emigrano, sia verso l’Unione sia verso il Regno Unito. È un dato allarmante per l’Albania, ma non per un paese del G7, che non rischia il collasso per questo. Gli albanesi sanno – anche grazie ai social network – che dopo la Brexit ci sarà una forte carenza di manodopera nel Regno Unito e sperano di sostituire i lavoratori dell’Unione europea che il paese ha perso. Sanno anche che Calais è sempre più vulnerabile, visto che per Londra condividere le informazioni con le autorità francesi è diventato più complicato. Avere dei legami più deboli con le agenzie europee fa sì che gli agenti britannici debbano chiedere a quelli albanesi dati che prima avrebbero ottenuto dai francesi. È insomma un problema molto britannico, più precisamente dei conservatori.

Nel Regno Unito vivono attualmente circa 140mila albanesi: sono lavoratori edili, medici, avvocati, addetti alle pulizie, imprenditori o professori universitari. La maggioranza è ben integrata: paga le tasse, fa la fila, giura fedeltà alla monarchia. Quando tutti sono etichettati come criminali, le loro differenze, le loro storie personali, i loro contributi alla società diventano invisibili. L’ideale della democrazia viene preso in ostaggio dalle metafore di guerra. Quando un’intera minoranza viene etichettata come “invasore”, il progetto d’integrazione viene meno. Rimangono solo la violenza e un mondo diviso tra amici e nemici, che alimenta la rabbia e legittima l’ostilità.

Gli albanesi sono diventati le ultime vittime di un progetto ideologico che espone le minoranze a ste­reotipi negativi, xenofobia e razzismo, il tutto per nascondere i propri fallimenti politici. Gli albanesi purtroppo continuano a guardare al Regno Unito come a un modello di stabilità, integrazione liberale e buon governo. Ovviamente conoscono le recenti turbolenze: è proprio sui social network del mio paese d’origine che ho scoperto il meme che definiva Rishi Sunak primo ministro del mese. Ma gli albanesi guardano alla situazione attuale come se fosse una strana eccezione. Questo potrebbe spiegare perché, sebbene si siano giustamente offesi per essere stati chiamati invasori, nessuno di loro ha sottolineato il paradosso di trattarli da un lato come nemici e, dall’altro, chiedere al governo di Tirana di cooperare come si farebbe tra paesi amici.

Le autorità albanesi hanno affermato che sono pronte a collaborare con Londra per risolvere la “crisi” dei migranti. La realtà è che hanno sempre collaborato, come ha ammesso la stessa Braverman. Tuttavia sono scettica sulle probabilità di successo della collaborazione con un governo a cui si deve l’emergenza che ora sta cercando di risolvere.

Ma la vera questione riguarda la moralità, più che l’efficienza. I commenti di Braverman hanno offeso e danneggiato decine di migliaia di albanesi che sostengono il loro paese d’adozione, pur portando con sé il trauma di aver abbandonato quello d’origine. Come cittadini britannici, dovremmo chiedere le dimissioni della ministra dell’interno. Come cittadini albanesi, dovremmo chiedere alle autorità del nostro paese d’origine di non collaborare con Londra se prima non arriveranno delle scuse. ◆ ff

Lea Ypi ènata a Tirana, in Albania, insegna teoria politica alla London school of economics e collabora con il quotidiano britannico The Guardian. Il suo ultimo libro è Libera: diventare grandi alla fine della storia (Feltrinelli 2022).

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Questo articolo è uscito sul numero 1486 di Internazionale, a pagina 45. Compra questo numero | Abbonati