Diciamolo subito: è impossibile lottare seriamente contro la crisi climatica senza una profonda ridistribuzione delle ricchezze, sia all’interno dei paesi sia a livello internazionale. Chi sostiene il contrario mente. E mente anche chi sostiene che la ridistribuzione è impossibile tecnicamente o politicamente. Farebbero meglio a difendere quello in cui credono, se credono ancora a qualcosa, invece di giocare a fare i conservatori. La vittoria di Lula contro Bolsonaro e il fronte dei grandi interessi agroalimentari in Brasile dà un po’ di speranza. Ma non deve far dimenticare che molti elettori nel sud e nel nord del mondo sono scettici nei confronti della sinistra social-ecologista e preferiscono la destra nazionalista e xenofoba, come hanno dimostrato le elezioni in Svezia e in Italia. Il motivo è semplice: senza una trasformazione fondamentale del sistema economico di ridistribuzione della ricchezza, il programma social-ecologico rischia di rivelarsi un boomerang per le classi medie e popolari.

La buona notizia, se così si può dire, è che la ricchezza è talmente concentrata al vertice che si possono migliorare le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione e al tempo stesso lottare contro il cambiamento climatico, a patto di darsi i mezzi necessari a una ridistribuzione ambiziosa. Tutti dovremo cambiare il nostro stile di vita, ma il punto è che si possono compensare i ceti medi e popolari per questi cambiamenti, sia sul piano finanziario sia garantendo l’accesso a servizi più compatibili con la sopravvivenza del pianeta nel campo dell’istruzione, della sanità, degli alloggi e dei trasporti. E questo passa da una riduzione del reddito dei ricchi.

I miliardari del mondo hanno continuato la loro stratosferica crescita dopo la crisi del 2008, e durante la pandemia hanno raggiunto livelli mai visti

Le cifre parlano chiaro. I miliardari del mondo hanno continuato la loro stratosferica crescita dopo la crisi del 2008, e durante la pandemia hanno raggiunto livelli mai visti. Come mostra il rapporto sulle disuguaglianze globali del 2022, lo 0,1 per cento dei più ricchi del pianeta detiene da solo circa ottantamila miliardi di euro di capitali finanziari e immobiliari, cioè più del 19 per cento dei patrimoni su scala mondiale, l’equivalente di un anno di pil mondiale. La parte in mano al 10 per cento più ricco è pari al 76 per cento del totale, contro appena il 2 per cento del 50 per cento più povero. In Europa, un continente che le élite presentano come un paradiso d’uguaglianza, il 10 per cento più ricco ha quasi il 6o per cento del patrimonio totale, a fronte del 4 per cento posseduto dalla metà più povera della popolazione.

In Francia tra il 2010 e il 2022 i cinquecento maggiori patrimoni sono passati da duecento a mille miliardi, cioè dal 10 per cento a quasi la metà del pil. Le imposte sul reddito pagate dai proprietari di questi patrimoni equivalgono a meno del 5 per cento di questi ottocento miliardi in più accumulati. Un dato d’altronde in linea con le dichiarazioni dei redditi dei miliardari statunitensi. Istituendo una tassa una tantum del 50 per cento su questo arricchimento, che non sarebbe eccessiva in un momento in cui i piccoli risparmi sono soggetti a una svalutazione prodotta dall’inflazione del 10 per cento all’anno, il governo francese potrebbe raccogliere quattrocento miliardi di euro.

Possono esserci altre formule, ma resta il fatto che si tratta di cifre da capogiro: chi sostiene che non sia possibile recuperare fondi in questo modo semplicemente non sa contare. Proprio nei giorni scorsi il governo francese ha messo il veto alla decisione dell’assemblea nazionale di aumentare gli investimenti per la riqualificazione energetica degli edifici (dodici miliardi di euro) e per le reti ferroviarie (tre miliardi), spiegando che il paese non può permetterselo. Il governo sa contare? O sta privilegiando gli interessi di una piccola classe invece di quelli del pianeta e della popolazione, che ha bisogno di alloggi riqualificati e di trasporti efficienti?

In generale, va ovviamente rivisto l’intero sistema fiscale, in Francia e nel resto del mondo. Nel novecento l’imposta progressiva sul reddito fu un successo. Le aliquote tra l’80 e il 90 per cento, applicate ai redditi più alti durante l’amministrazione Roosevelt, per mezzo secolo hanno coinciso con il periodo di massima ricchezza, innovazione e crescita degli Stati Uniti. Per un motivo semplice: lo sviluppo dipende innanzitutto dall’istruzione – gli Stati Uniti all’epoca erano molto più avanti del resto del mondo – e non ha bisogno di una disuguaglianza stratosferica.

Nei prossimi anni bisognerà lanciare un’imposta patrimoniale progressiva, con aliquote dell’80-90 per cento per i miliardari, e tassare il 10 per cento dei patrimoni più alti. Ma serve soprattutto che una parte delle entrate dei più ricchi sia versata ai paesi più poveri. Il sud del pianeta non può più stare fermo ad aspettare che il nord mantenga i suoi impegni. È il momento di pensare al mondo che verrà, o quello attuale si trasformerà in un incubo. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1486 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati