Jennifer Finch sorride, ma è visibilmente frustrata. “Ovunque vada, ovunque mi giri, mi ritrovo davanti questa faccia di merda”, dice la bassista delle L7, una band di Los Angeles. “Francamente, non ne posso più”. Finch ha in mano una copia del numero di gennaio 1992 di Spin, la prima copertina dedicata ai Nirvana da una grande rivista statunitense. La faccia è quella del suo ex fidanzato, il batterista dei Nirvana Dave Grohl.

Questo intervento è tratto dal documentario del 2016 L7: pretend we’re dead, ma il sentimento risale a molto prima. Quando la rivista uscì in edicola, Finch e le L7 erano in studio per registrare il loro terzo album, Bricks are heavy. Le L7 si erano formate nel 1985, due anni prima dei Nirvana, e nel 1990 i due gruppi erano stati insieme in tour nel Regno Unito. Poi, con l’album Nevermind, del 1991, i Nirvana di Grohl, Krist Novoselic e Kurt Cobain erano passati in un attimo dall’oscurità alla fama internazionale: Nevermind vendeva più di 300mila copie alla settimana e stava per scalzare Dangerous di Michael Jackson dalla vetta della classifica di Billboard.

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Non fu l’unico importante album grunge a uscire nel 1991. Ten dei Pearl Jam arrivò in tutti i negozi ad agosto e Badmotorfinger dei Soundgarden a ottobre. Nell’aprile 1992, quando uscì Bricks are heavy, il grunge, nato a Seattle, nello stato di Washing­ton, era definitivamente esploso, e nei grandi magazzini si trovava, per esempio, tutto l’occorrente per imitare il look di Chris Cornell, il cantante dei Soundgarden. Ma, come avrebbero scoperto Finch e le sue compagne, quel successo non era destinato a tutti: nonostante le recensioni entusiastiche, Bricks are heavy non arrivò oltre il 160° posto della classifica di Bill­board.

Dal revival dei sandali in gomma alla nostalgia pop della serie tv Yellowjackets, gli anni novanta sono tornati. L’ultima raccolta di saggi di Chuck Klosterman, The nineties: a book, racconta quello che l’autore definisce “l’ultimo decennio con una cultura propria, pienamente formata e riconoscibile”; la serie di Vice Dark side of the 90s ripercorre la guerra del Golfo, il Viper Room e le vicende sentimentali del cantante dei Counting Crows, Adam Duritz. E quest’estate, con il trentesimo anniversario di album come Dirty dei Sonic Youth e Sweet oblivion degli Screaming Trees (oltre che della colonna sonora di Singles, che esattamente trent’anni fa preconfezionò il “suono di Seattle” per il pubblico di massa), la nostra voglia di rivivere e consumare ancora il decennio che ci ha dato Baywatch e Beavis and Butt-head non sembra conoscere soste.

Ma non c’è molto da festeggiare. La musica alternativa e grunge negli Stati Uniti dei primi anni novanta fu molto bianca e maschilista, e sminuì il contributo importante di tante artiste che non si conformavano a quel modello. Band femminili come 7 Year Bitch e Babes in Toyland vendevano molti meno dischi rispetto ai loro colleghi maschi, erano meno considerate dalle case discografiche e ricevevano meno attenzione dalla stampa.

Quando non furono completamente ignorate, le donne vennero oggettificate dalla stampa ed emarginate da un’industria che le trattò come una moda passeggera, promuovendo solo un manipolo di musiciste e solo per un breve periodo. Ripercorrere il decennio che ci ha dato il grunge è l’occasione ideale per riesaminare, rivalutare e riscrivere la storia, soprattutto quella delle donne che hanno costruito quella scena.

“Se leggi qualsiasi articolo dell’epoca, sembra quasi che non ci fossero donne che facevano musica”, ha detto nel 2013 Gretta Harley alla rivista Seattle. Harley, chitarrista punk, si trasferì a Seattle nel 1990, proprio mentre il grunge si apprestava a cambiare la città trasformandola in un fenomeno musicale. Insieme al batterista Dave Parnes e alla bassista Tess Lotta fondò il gruppo Maxi Badd (poi ribattezzato Danger Gens). Nel 2011, quando con il ventesimo anniversario dell’uscita di Nevermind è spuntata una serie di tributi, Harley si è resa conto che nessuno rifletteva davvero la scena di Seattle e soprattutto il ruolo delle donne.

Nel 2013 Harley ha tratto ispirazione da tutto questo per realizzare lo spettacolo teatrale These streets insieme all’attrice e scrittrice Sarah Rudinoff e alla drammaturga Elizabeth Kenny. “Abbiamo cominciato a prendere tutti i libri scritti sul grunge, e le donne erano quasi completamente assenti”, dice Harley. “Quando in un libro di 250 pagine sugli anni d’oro del rock di Seattle ci sono solo due paginette sulle donne c’è qualcosa che suona… sbagliato”, ha scritto Laura Dannen in un’anticipazione dello spettacolo sulla rivista Seattle Met. “Come se una chitarrista fosse una specie d’inafferrabile tigre del Bengala, catturata fugacemente su nastro magnetico”. These streets racconta le esperienze delle donne nel grunge a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, basandosi su interviste con più di quaranta musiciste – da Carrie Akre degli Hammerbox a Kim Warnick dei Fast­backs, da Kim Virant delle Lazy Susan a Valerie Agnew ed Elizabeth Davis-Simpson delle 7 Year Bitch –, e accende i riflettori sulle protagoniste che tante ricostruzioni hanno sempre ignorato.

Anche le donne che raggiunsero una certa notorietà sono state regolarmente sminuite. Come i Nirvana, le L7 avevano pubblicato uno dei “singoli del mese” dell’etichetta indipendente Sub Pop, Shove /Packin’ a rod, del 1990. Dopo il secondo album in studio, Smell the magic, del 1990, anche quello uscito per la Sub Pop, la band aveva firmato un accordo (che in Pretend we’re dead è descritto come “un contratto di merda”) con la Slash Records, sussidiaria della Warner Bros, in un momento in cui le major discografiche facevano carte false per mettere sotto contratto qualsiasi gruppo con delle chitarre che suonasse nei dintorni dello stato di Wash­ington. Quando finalmente conquistarono la copertina di Spin, nel 1993, il titolo della rivista era una specie di insulto mascherato. Accanto alla foto delle L7 c’era scritto: “More than babes in boyland” (non solo belle ragazze nel paese dei maschietti).

La musica alternativa e grunge degli Stati Uniti nei primi anni novanta è stata molto bianca e maschilista, e ha sminuito il contributo importante di tante artiste

Il titolo di Spin incarnava tutto ciò contro cui si battevano le L7. Non era solo sessista, ma fabbricava una rivalità tra L7 e Babes in Toyland, appiattendole entrambe sullo stereotipo del girl group. Le L7 spesso evitavano le interviste di gruppo e rifiutavano di partecipare a speciali sulle “donne nella musica” perché erano convinte di meritare articoli dedicati solo a loro e non volevano essere classificate in base al genere. “Quando abbiamo pensato al nome della band non ne cercavamo uno che chiarisse che eravamo donne”, ha spiegato la cantante e chitarrista Donita Sparks nel 2012 su Spin. “Volevo che la gente ascoltasse la nostra musica e pensasse ‘Chi cazzo sono queste?’. Non volevo che mi accomunassero a nessuno. Il fatto che fossimo donne non era un manifesto politico”.

La disparità di trattamento era ancora più evidente se non eri bianca. Tina Bell, nera, aveva formato i Bam Bam a Seattle nel 1983 insieme al marito, il chitarrista Tommy Martin, ed era la cantante e la principale autrice della band. I Bam Bam avevano suonato con Melvins, Soundgarden e Alice in Chains. Il loro ep del 1984 Villains (also wear white) precede Come on down dei Green River, considerato spesso il primo album della storia del grunge. Eppure, anche se Bell è stata chiamata “la madrina del grunge”, è stata quasi sempre lasciata fuori dalle ricostruzioni della scena.

“Il sound del grunge, sotto molti aspetti, è stato forgiato da una nera”, scrive Stephanie Siek in un articolo del 2021. “Il motivo per cui questa donna è pressoché sconosciuta ha che fare solo con il razzismo e la misoginia”.

Alla fine Bell lasciò i Bam Bam e abbandonò la musica; è morta tragicamente nel 2012, poco dopo che era stata organizzata una reunion della band. Eppure, quando qualcuno la cita, di solito è perché si dice che Kurt Cobain fosse un suo fan (scoprì il gruppo quando faceva il roadie per i Melvins).

Capita spesso che le musiciste siano legittimate per la loro vicinanza con colleghi maschi più famosi, e Bell non fa eccezione. Se eri una musicista e Cobain faceva il tuo nome, diventavi automaticamente di moda. “In generale, nella maggior parte dei casi la partecipazione delle donne è stata ignorata o tagliata dal racconto”, scrive Jen B. Larson in un omaggio a Bell pubblicato sul sito Please Kill Me. “Anche se le donne hanno ricoperto ruoli chiave nell’innovazione della musica, tendiamo ad accorgerci di loro con il senno di poi, e solo quando devoti cercatori di vinili si mettono a scavare meticolosamente nel passato. Questa dinamica è particolarmente ricorrente con le musiciste nere”.

Nel 2016, per il 25° anniversario del grunge, la rivista musicale britannica Q ha pubblicato uno speciale che raccoglie le testimonianze di addetti ai lavori e musicisti che fecero parte della scena. Prevedibilmente, non ci sono donne. Live through this delle Hole, uscito nel 1994, è l’unico disco di una band con una donna incluso nella lista dei 25 album grunge più influenti. E, ovviamente, non ci sono donne nemmeno nel sondaggio sottoposto ai lettori di Rolling Stone sui migliori album grunge di tutti i tempi.

Se i mezzi d’informazione s’interessavano alle donne nella scena grunge e alternativa, sembrava che parlassero di un genere a sé. A questo genere, però, non dedicavano profili o servizi approfonditi. Alle donne era riservato il “trattamento-lista”, il modo più facile per fingere di occuparsi di qualcuno nella musica, senza sforzarsi di dedicargli un’analisi. Da “cinque gruppi guidati da donne che esprimono l’indomita ferocia del grunge” a “dieci band femminili fondamentali degli anni novanta che non potete non conoscere”, la superficialità del format era la spia che per le riviste il lavoro o il contributo musicale delle donne non era degno di considerazione. Quando il tema della lista non era la musica, era l’aspetto fisico e il sex appeal. Nel 2011, Sf Weekly è riuscito nell’impresa di oggettificare le donne e celebrare le band maschili in un colpo solo: “Dato che questa settimana Nevermind compie vent’anni e i Pearl Jam festeggiano due decenni di attività”, si legge, “pensiamo sia arrivato il momento di ricordare le dieci donne più sexy del grunge”. Le liste, poi, elencano spesso artiste che avevano poco in comune tra loro, a parte il sesso. Tra le “dieci migliori rocker donne degli anni novanta” di Diffuser.fm c’erano Donita Sparks delle L7, Björk e Juliana Hatfield: tutte donne, d’accordo, ma musicalmente diversissime.

E poi c’erano gli speciali sulle “donne nella musica”: magari dedicavano più spazio alle artiste ma, di nuovo, appiattivano il loro contributo mettendole tutte in un unico calderone. “Con il numero al femminile ti chiudono in un ghetto”, ha detto Janet Weiss, ex batterista delle Sleater-Kinney. “La gente ci paragona sempre a band che hanno cantanti donne. Mi sembra una mentalità molto ristretta”.

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Quando negli anni novanta ricevevano attenzione, le donne dovevano sempre raccontare le loro esperienze con il sessismo, alimentare false faide con altre musiciste o parlare del loro aspetto fisico, dei loro gusti in fatto di moda o di chi frequentavano. “Quando sei una donna che lavora in un mondo di uomini, la cosa è sottolineata costantemente”, scrive Jillian Mapes in un articolo sulle musiciste rock pubblicato da Flavorwire. “A volte, questa sensazione di esserti conquistata uno spazio meritato in un mondo di uomini ti dà forza. A un certo punto, però, il ruolo simbolico di ‘sfavorita in quanto donna’ diventa superato, anche se sulla stampa o tra i fan è rappresentato come una boccata d’aria fresca”.

Quando non le trattavano come oggetti, i mezzi d’informazione tendevano a parlare delle donne più per i loro comportamenti che per la loro musica. Si soffermano, per esempio, sul fatto che la cantante delle L7 aveva lanciato un assorbente usato tra il pubblico al festival di Reading del 1992 dopo che la folla aveva tirato fango sulla band. O su Alanis Morissette che aveva raccontato di aver praticato una fellatio a un attore in un cinema. O su qualsiasi cosa facesse Courtney Love (“Love ha sconvolto la scena grunge come un uragano, sposando il re e facendo parlare di sé non solo per la sua musica ma anche per le sue buffonate in pubblico”, si legge nella lista delle dieci migliori rocker donne degli anni novanta compilata da Diffuser.fm, un testo che rispecchia gran parte degli articoli scritti allora su di lei).

Nei primi anni novanta il grunge era spesso associato alle riot grrrl, il movimento underground femminista di Olympia, un’altra città dello stato di Washington. In apparenza, le due scene erano simili: entrambe erano nate sulla costa nordoccidentale degli Stati Uniti, entrambe affondavano le radici nel punk ed erano accomunate dall’etica del “do it yourself”. I gruppi grunge e riot grrrl spesso suonavano insieme, incidevano per le stesse case discografiche e si frequentavano.

Non tutti, però, erano d’accordo su quell’associazione. “Nel grunge c’era un immaginario sessista che puntava a scandalizzare”, osserva Allison Wolfe, componente del gruppo riot grrrl Bratmobile in un articolo uscito nel 2021 sul Guardian per il trentennale dell’etichetta discografica Kill Rock Stars. “Noi non ci riconoscevamo in tutto questo. Il punto era trovare una strada per avere una voce e sapere che anche se non avevamo grandi doti musicali avevamo qualcosa da dire, ed era più interessante della metà delle stronzate che dicevano i maschi”.

Le musiciste erano spesso etichettate dai giornalisti come riot grrrl, che lo fossero o no. Questo non era solo un atteggiamento pigro e irrispettoso: metteva in luce tutta la limitatezza del vocabolario e dei riferimenti che si usavano quando si parlava di donne che facevano musica. Riot grrrl era diventata un’espressione onnicomprensiva che serviva solo a categorizzarle.

Allo stesso tempo, le band riot grrrl venivano ridicolizzate e sminuite dai mezzi d’informazione. I giornalisti e i critici non entravano quasi mai nel merito dei contenuti musicali, ma si concentravano sull’aspetto fisico e l’abbigliamento delle ragazze. Il settimanale musicale britannico Melody Maker scriveva che “la cosa migliore che può fare una riot grrrl è cominciare a leggere qualcosa, possibilmente non una pulciosa fanzine”; negli Stati Uniti, il settimanale Newsweek descriveva il movimento riot grrrl come “un femminismo con le faccine che sorridono al posto dei puntini delle i”.

“Penso che ci abbiano voluto dipingere come ragaz­zine ridicole che giravano in mutande”, dice Corin Tucker delle Sleater-Kinney e delle Heavens to Betsy in un’intervista per Riot grrrl retrospectives, un progetto video del Museum of pop culture di Seattle. “Si rifiutavano di farci delle interviste serie, travisavano quello che dicevamo, prendevano i nostri articoli e le nostre fanzine e li estrapolavano dal contesto. Abbiamo scritto tantissimo sugli abusi e le aggressioni sessuali ai danni delle adolescenti e delle giovani donne. Penso che siano concetti molto importanti e i giornali non li affrontavano mai”.

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Da nessuna parte si parlava delle musiciste che avevano influenzato band riot grrrl come Bratmobile e Bikini Kill. Era come se Kim Gordon non avesse mai fondato i Sonic Youth, come se le Slits non fossero mai esistite. Le donne che facevano musica erano considerate una curiosità: ogni gruppo femminile era descritto come fosse il primo, la sua storia cancellata e ogni collegamento con il futuro negato. “C’erano tantissime idee importanti di cui secondo me i mezzi d’informazione tradizionali non volevano parlare, per cui era più facile concentrarsi sul fatto che le ragazze portavano le mollettine sui capelli o si scrivevano ‘troia’ sulla pancia”, osserva Sharon Cheslow, fondatrice nel 1981 delle Chalk Circle, prima band punk tutta al femminile di Washington Dc, in un’altra intervista per Riot grrrl retrospectives.

Le artiste erano viste come intercambiabili e paragonate automaticamente l’una all’altra. “Il contributo storico di PJ Harvey all’indie rock è formidabile, ma la politica che il rock impone alle donne ne ha fatto una pietra di paragone inevitabile per qualsiasi donna con la chitarra elettrica e il piede sul distorsore”, ha ricordato Charlotte Richardson Andrews in un articolo sul Guardian del 2012.

Questo valeva anche per le radio e i concerti. Negli anni novanta, se tra gli artisti invitati a un festival o inseriti nel palinsesto di una radio c’era già una donna, era molto difficile aggiungerne un’altra. Mi ricordo che nel 1992 andai al Lollapalooza e rimasi delusissima perché un festival che si vantava di valorizzare la diversità aveva in programma solo una band di cui faceva parte una donna, i britannici Lush (tra l’altro, per sbaglio restai chiusa in un bagno chimico così mi persi tutta l’esibizione dei Pearl Jam, e da allora ho una paura matta sia della band di Eddie Vedder sia dei bagni chimici, ma questa è un’altra storia).

Il festival itinerante Lilith Fair fu inaugurato nel 1997 proprio per contrastare la carenza di donne sui palchi dei festival e per dare sostegno e visibilità alle artiste (oltre che per rifornire il pubblico femminile di strisce per la pulizia del viso). Il primo anno incassò 16 milioni di dollari, più di tutti gli altri festival itineranti, ma molti non erano entusiasti. “L’ultima tendenza del rock: le donne”, annunciava Elizabeth Vargas di Nbc News all’inizio di un servizio dedicato al Lilith Fair. Le Sleater-Kinney rifiutarono di partecipare; Shirley Manson dei Garbage, e non solo lei, criticò l’evento per la mancanza di diversità. Per di più, quel festival contribuì all’equivoco che la musica fatta dalle donne dovesse essere intima, educata e accompagnata da una chitarra acustica, rafforzando lo stereotipo che la musica femminile fosse esclusivamente rivolta a un pubblico femminile.

Il Lilith Fair rappresentava un approccio più mainstream e commerciale al femminismo rispetto al movimento riot grrrl, ma entrambi contribuirono all’idea degli anni novanta come una specie di utopia che incoraggiava e supportava i gruppi guidati da donne, alimentando così l’illusione della parità di genere nella musica. Se è vero che le musiciste ebbero un notevole successo durante il decennio, la “rivoluzione delle ragazze” era tutt’altro che finita.

Il collegamento con le riot grrrl giovò molto al grunge perché faceva sembrare una scena dominata dai maschi più femminista, più progressista e meno sessista di quello che era in realtà. Quando le donne si scrivevano addosso con il pennarello i giornali le ignoravano; quando lo faceva Eddie Vedder dei Pearl Jam diventava una cosa fica e sovversiva. Durante l’esecuzione di Porch all’Mtv Unplugged del 1992, Vedder si scrisse “pro-choice!!!” su un braccio con un pennarello nero; qualche mese dopo si presentò al Saturday Night Live indossando una maglietta con l’immagine di una stampella di metallo e uno slogan per il diritto all’aborto. Sempre nel 1992 firmò un editoriale a favore del diritto all’aborto per Spin. Evidentemente, i mezzi d’informazione tradizionali potevano accettare che la musica fosse politicizzata, purché a parlare fossero gli uomini.

Mentre la rabbia delle riot grrrl spaventava i giornalisti, che ne travisavano deliberatamente il messaggio mettendolo alla berlina, Vedder aveva il permesso di essere arrabbiato. Nel 1993 Time dedicò una copertina a questa nuova stirpe di rocker bianchi che esprimevano “le passioni e le paure di una generazione”. Vedder e Cobain avevano rifiutato di farsi intervistare per l’articolo, ma la faccia di Vedder era comunque in copertina. Questa tendenza sarebbe continuata per tutti gli anni novanta: si esaltavano gli uomini per la loro rabbia mentre donne come Alanis Morissette erano accusate di cavalcare l’indignazione per motivi di marketing. Le musiciste donne dovevano essere arrabbiate quanto bastava per vendere i dischi, ma non tanto da rischiare di offendere qualcuno.

Certo, ai gruppi grunge maschili va comunque riconosciuto di aver sposato una linea progressista e femminista, in aperto contrasto con il maschilismo e il sessismo dei Mötley Crüe e di altre band metal degli anni ottanta. Molti di questi gruppi hanno contribuito a portare la politica di genere nel main­stream, e hanno sfidato regolarmente il sessismo nei testi delle canzoni, nelle interviste e nei video. Hanno promosso organizzazioni, cause e musiciste femministe, portandole all’attenzione di un pubblico più vasto. Da bambina guardavo i gruppi hair metal degli anni ottanta su Mtv, e il fatto che dei musicisti maschi e bianchi promuovessero l’idea che le donne non fossero solo pezzi di carne da scopare mi colpiva molto di più degli effetti speciali dei video dei Ratt.

Durante le interviste, Cobain supportava e citava regolarmente gruppi di musiciste come Shonen Knife e The Breeders, contribuendo a farli conoscere di più. Alcune di quelle band, come le L7, suonavano da più tempo dei Nirvana. Purtroppo, però, per mettere le ragazze in primo piano serviva che un uomo parlasse bene di loro. Cobain e Vedder hanno aiutato diverse musiciste portandole con loro in tour o suonando con loro ai concerti per promuovere molte cause diverse, da Rock for choice a Rock against rape. Mi ricordo che un mio amico pensava che Rock for choice fosse stato organizzato da Vedder: lo dava per scontato perché aveva visto una sua foto in cui indossava una maglietta della manifestazione (in realtà le organizzatrici erano le L7 e Sue Commings, caporedattrice di La Weekly). Negli anni novanta diverse band di primo piano, tra cui Rage Against the Machine e Mudhoney, hanno suonato ai concerti di Rock for choice. Indossando la maglietta della manifestazione Vedder aveva sicuramente dato più visibilità alla causa, ma aveva anche messo in ombra il lavoro importante delle L7 e di altre musiciste.

La cosa spesso trascurata, e che è invece importante ricordare, è che a influenzare il messaggio femminista di Cobain furono delle musiciste (soprattutto Kathleen Hanna e Tobi Vail delle Bikini Kill) durante gli anni formativi che i Nirvana passarono a Olympia. L’attivismo di Cobain non nacque dal nulla, nacque dalla sua contiguità con il movimento riot grrrl. “Fin dall’inizio ha avuto consapevolezza della questione di genere”, scrive la critica musicale Ann Powers in un articolo sull’eredità culturale dei Nirvana pubblicato dal sito The Daily Beast. Cobain promuoveva le Bikini Kill e le riot grrrl nelle interviste, ma non sarebbe mai diventato femminista senza di loro.

Quella grunge non è certo l’unica scena musicale che ha emarginato il contributo delle donne. In un articolo sulla misoginia della scena punk pubblicato dal Guardian nel 2014, la giornalista Charlotte Richardson Andrews osserva che le donne dovettero lottare per avere visibilità all’interno di un ambiente dove tutto il potere era in mano agli uomini. Troppo spesso le donne erano escluse da un’industria che promuoveva soltanto “i pochi fortunati a cui i cu­stodi del settore si degnano di concedere spazio”. La descrizione si applica perfettamente anche al grunge.

Nel 1999, Billboard elesse la cantante pop Mariah Carey artista del decennio. Per chi era cresciuto con il grunge, era un risultato catastrofico. I gruppi grunge ormai non c’erano più, sostituiti da boy band e principesse del pop fabbricate in serie, oltre che dallo scempio di Woodstock 1999. “Girl power”, il messaggio di emancipazione delle riot grrrl, era stato preso e commercializzato per vendere astucci per matite e magliette.

Fortunatamente, però, le pioniere di ieri si sono rifiutate di restare sullo sfondo. Dopo sei album in studio, nel 2001 le L7 si presero una pausa a tempo indeterminato per poi riformarsi nel 2014 e per la prima volta in vent’anni andare in tour con la formazione originale. Quest’anno stanno facendo una tournée per festeggiare i trent’anni dall’uscita di Bricks are heavy. Le Sleater-Kinney nel 2021 hanno pubblicato Path of wellness, il loro decimo album in studio, e sono tornate a esibirsi dal vivo. Kim Gordon dei Sonic Youth è in libreria con This woman’s work: essays on music (Un lavoro da donna: saggi sulla musica), un’antologia curata in collaborazione con la giornalista musicale Sinéad Gleeson. “‘Com’è essere una ragazza in una band?’. Durante la mia carriera di musicista mi sono sentita ripetere continuamente questa domanda, che mi ha fatto sentire una tipa strana, o come se fossimo tutte uguali”, ha scritto Gordon in un post su Instagram per promuovere il libro. “Una volta ho chiesto al mio ragazzo: com’è avere il pene? Per me è lo stesso tipo di domanda. Speriamo che questo libro contribuisca a smontare il mito che se sei una musicista sei un prodotto preconfezionato e facile da digerire”.

Sarebbe ora. ◆ fas

Lisa Whittington-Hill

è una giornalista e l’editrice della rivista canadese This Magazine. Si occupa di arte, cultura pop e musica. Questo articolo è uscito sul sito Longreads con il titolo The women who built grunge.

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Questo articolo è uscito sul numero 1476 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati