Nessuno immaginava che in Libano le cose potessero peggiorare ancora. Ma è successo. Alcune settimane dopo l’inizio della peggiore crisi economica del paese, aggravata dalla pandemia, 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio, accumulate nel porto di Beirut, sono esplose il 4 agosto. Dato che lo scoppio è stato preceduto da un incendio, le videocamere erano già puntate verso il porto quando il “fungo” è salito verso il cielo. La maggior parte dei video dura solo un paio di secondi, poi le persone che li stavano girando sono state scaraventate a terra. Seguono immagini sfocate e sottosopra, accompagnate da grida, pianti, preghiere e dal rumore di metallo, di vetri che si fracassano e di muri che crollano. L’autore di uno dei filmati che ho visto a quanto pare è morto nell’esplosione. Lo scoppio ha ucciso finora 177 persone, ne ha ferite più di 6.500 e ne ha lasciate trecentomila senza casa.
Ho saputo dell’esplosione da un messaggio WhatsApp dei miei genitori, che vivono a meno di cinque chilometri da lì. La porta del loro appartamento è stata scardinata. I vetri del palazzo, e quelli di molti altri, anche lontani, sono andati in frantumi. Quattro ospedali sono stati distrutti, in un paese che aveva urgente bisogno di posti letto e attrezzature mediche per far fronte all’aumento di casi di covid-19. L’85 per cento delle riserve di cereali è stato perso, in un momento in cui le famiglie povere potevano a malapena permettersi il pane. L’azienda che fornisce elettricità è stata colpita duramente, e già nel centro di Beirut la corrente era limitata a dodici ore al giorno.
Se fosse stato un disastro naturale a provocare tutto questo sarebbe stato crudele. Ma quello che è successo è peggio. Non sappiamo ancora cosa abbia causato l’incendio iniziale, ma sappiamo che più di 2.500 tonnellate di nitrato d’ammonio, probabilmente prelevate da una nave diretta in Mozambico e bloccata a Beirut, erano depositate nel porto da sei anni. Un amico statunitense mi ha chiesto, incredulo, come i leader del paese abbiano potuto permettere una cosa simile. Dato il loro livello di corruzione e incuria, non pensavo che qualcuno potesse sorprendersi.
La prima risposta all’esplosione da parte del presidente, del primo ministro e del presidente del parlamento è stato il silenzio. Come ha notato qualcuno su Twitter, non hanno osato guardare nessuno negli occhi. Hanno lasciato il palcoscenico a Emmanuel Macron, che il 6 agosto è andato a Beirut. Il presidente francese ha tenuto discorsi, incontrato politici e attivisti, e ha offerto aiuto. Il sottinteso coloniale della visita non è sfuggito a nessuno (più di cinquantamila persone hanno firmato una petizione in cui chiedono alla Francia di assumere il controllo del Libano). Macron ha messo completamente in ombra il governo libanese. Ma lo stato ha dimostrato la sua assenza anche in altri modi. Un commentatore si è lamentato del fatto che i nomi delle vittime fossero stati letti in diretta tv dai medici, e che i parenti dei dispersi fossero stati costretti a partecipare alle trasmissioni per elemosinare informazioni sui loro cari. È stato dichiarato lo stato d’emergenza, ma sono soprattutto i volontari, provenienti da tutto il paese, a ripulire le macerie.
Resto sempre sbalordita dal modo in cui i funzionari libanesi comunicano con i cittadini: un ministro della salute che si lamenta dello stato delle riserve alimentari, come se questo non avesse niente a che fare con lui; un ministro delle comunicazioni che c’informa con un messaggio sul cellulare che internet ha ripreso a funzionare, come se fosse un amico che ci dà una buona notizia e non il funzionario responsabile dei problemi della rete; o un ambasciatore che all’estero pronuncia un discorso a favore dei manifestanti che chiedono la caduta del governo, come se quegli slogan non valessero anche per lui. Dopo l’esplosione le dichiarazioni del governo hanno seguito un unico copione: i ministri si sono stupiti, come chiunque altro, hanno condannato i responsabili (altri), e hanno promesso di rendere il paese più sicuro in futuro. Sedici funzionari portuali sono stati arrestati (il 10 agosto il governo si è dimesso).
Conflitti grandi e piccoli
Una persona intervistata da un programma tv ha espresso la sua indignazione per come è stato governato il paese negli ultimi trent’anni. I problemi, però, vengono da più lontano: prima di questi trent’anni non c’erano pace né benessere, ma una guerra civile durata quindici anni, combattuta in gran parte da milizie guidate dagli stessi uomini oggi al potere, in cui almeno 120mila persone morirono e decine di migliaia furono sfollate. I tre decenni ancora precedenti, tra l’indipendenza e l’inizio della guerra civile, erano stati segnati da una serie di conflitti minori.
A scuola non mi è stato insegnato niente della storia del mio paese: il libro di testo si chiudeva con il 1943. Abbiamo invece imparato cose come le cause delle due guerre mondiali, le imprese di un funzionario ottomano particolarmente sanguinario, i danni provocati da un’invasione di locuste nel 1915 o il ritiro delle truppe francesi cominciato nel 1943. Non ricordo di aver studiato le guerre che contrapposero i contadini maroniti ai loro padroni drusi sul monte Libano negli anni sessanta dell’ottocento. L’unica cosa che ricordo di quel secolo, nei miei libri scolastici, sono i ritratti di vari emiri, con le loro barbe e i loro abiti pittoreschi.
Nel 1998 fu introdotto un nuovo programma scolastico, ma la storia si concludeva comunque nel 1943. Tra le novità c’era la letteratura mondiale tradotta (male) al posto di quella araba, un manuale di filosofia pieno d’imperativi (un intero capitolo era dedicato alla necessità di sublimare i desideri) e l’introduzione dell’educazione civica. Se la storia si fermava a prima delle guerre civili, l’educazione civica faceva un balzo in avanti verso un futuro felice. Imparavamo l’importanza di rispettare i cartelli stradali, di non buttare immondizia per terra e di svolgere un ruolo attivo nelle città in cui vivevamo. Tutto questo in un paese senza semafori o parchi pubblici e in cui per le elezioni municipali votiamo dove sono nati i nostri nonni, non dove viviamo noi.
17 ottobre 2019 L’annuncio del governo di una nuova tassa sulle chiamate attraverso WhatsApp fa scoppiare una protesta. La tassa viene ritirata, ma nei giorni successivi centinaia di migliaia di persone continuano a scendere in piazza a Beirut e in altre città per manifestare contro l’intero sistema politico, accusato di essere corrotto e incapace di soddisfare le necessità dei cittadini.
29 ottobre Il primo ministro Saad Hariri si dimette.
19 dicembre Hassan Diab, professore universitario ed ex ministro dell’istruzione, è nominato premier.
7 marzo 2020 Diab annuncia che il Libano non è in grado di pagare la rata da 1,2 miliardi di dollari sul suo debito pubblico, in scadenza due giorni dopo. È la prima volta che il paese si dichiara insolvente.
Maggio-giugno Dopo una pausa dovuta alle restrizioni imposte per contenere la pandemia di covid-19, riprendono le proteste in tutto il paese. In otto mesi la lira libanese ha perso il 70 per cento del suo valore.
10 luglio I negoziati con il Fondo monetario internazionale sono sospesi, in attesa che il paese realizzi alcune riforme.
4 agosto Un’enorme esplosione devasta la zona portuale di Beirut e provoca 177 morti e 6.500 feriti. Trecentomila persone restano senza casa. A causare la detonazione sono 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, un composto chimico usato come fertilizzante ma anche per produrre esplosivi, immagazzinate da anni in un deposito del porto.
5 agosto Le autorità arrestano i funzionari portuali della capitale e decretano lo stato di emergenza.
6 agosto Il presidente francese Emmanuel Macron visita Beirut.
8 agosto Riprendono le manifestazioni contro il governo. Negli scontri con la polizia rimangono ferite 110 persone e un agente viene ucciso.
10 agosto Diab annuncia le dimissioni del governo.
14 agosto Le autorità, che si oppongono a un’inchiesta internazionale sull’esplosione, affidano le indagini al giudice Fadi Sawan, noto per la sua indipendenza.
È stato solo all’università che ho letto per la prima volta la costituzione libanese. Sono rimasta quasi sorpresa scoprendo a vent’anni che quel documento esisteva e che potevo consultarlo da sola. Comincia così: “Il Libano è uno stato sovrano, libero e indipendente”. La prima versione è del 1926, ai tempi del mandato francese; è stata emendata nel 1943 dopo l’indipendenza e rivista ancora nel 1990, alla fine della guerra civile. I seggi parlamentari ora sono equamente divisi tra cristiani e musulmani (prima del 1990 il rapporto era di sei a cinque) e i poteri del presidente (cristiano maronita) sono stati ridotti a favore del primo ministro (sunnita) e del presidente del parlamento (sciita). Queste “disposizioni temporanee” sono inquadrate da clausole che riaffermano l’“obiettivo nazionale” di abolire il “confessionalismo politico”. Il confessionalismo politico è una misura “transitoria”, il cui obiettivo è la sua stessa abolizione.
Persone in Libano e all’estero hanno ripetutamente chiesto la fine di questo sistema. Molti sostengono l’idea di uno stato laico e di un nuovo contratto sociale tra governanti e governati. Ma sono arrivata a pensare che l’idea di temporarietà, la promessa onnipresente ma mai mantenuta di quello che poteva essere e potrebbe essere ancora, sia una caratteristica persistente degli stati postcoloniali. In ogni caso non dovrebbe essere necessario un nuovo contratto sociale per evitare che un governo conservi 2.570 tonnellate di nitrato d’ammonio vicino a un’area residenziale. L’idea fondamentale di governo, che esisteva migliaia di anni prima della nascita dello stato moderno, si basa su un patto di protezione in cambio di obbedienza. Che senso ha avere un governo se non solo non è in grado di proteggerti, ma anzi ti mette chiaramente in pericolo? Il problema di fondo non è il settarismo, ma quello che il moderno sistema di stati permette o meno, quale spazio di manovra concede alle persone, che orizzonte gli dà per immaginare forme alternative di governo.
La terza opzione
Nel corso della pandemia, l’aspirazione verso una giustizia globale ha lasciato spazio alla vecchia idea che il benessere sia una questione interna agli stati. Dato che tutti soffrono ovunque, poche persone hanno chiesto di essere salvate da uno stato che non fosse il loro. È significativo che una (parziale) eccezione a questa regola sia l’Unione europea: l’unico progetto sovranazionale attualmente esistente. Ma è anche significativo che quando la nuvola a forma di fungo si è propagata sopra Beirut, e il mondo l’ha vista, sia stato il presidente francese a emergere dalla nebbia come possibile salvatore.
Nel libro del 1986 Nationalist discourse and the colonial world (Retorica nazionalista e mondo coloniale), Partha Chatterjee cercava – senza trovarlo – un nazionalismo postcoloniale diverso dalle idee coloniali che aveva combattuto. Il mondo postcoloniale è strutturalmente ancorato a categorie coloniali, e limitato nella sua capacità di muoversi al di là di queste. Prima dell’esplosione l’unica opzione pratica disponibile per il Libano era un programma di aggiustamento strutturale. Ora forse ce n’è un’altra, che prevede una qualche forma di tutela francese. Ma potrebbe esisterne una terza, incarnata da chi ripulisce le macerie e promette di lottare per le vite perdute. Può darsi che le proteste di massa dello scorso ottobre si siano esaurite, ma lo spirito rivoluzionario che le animava dura ancora. Speriamo che abbia successo, contro tutte le previsioni. ◆ _ff _
Loubna El Amine è nata a Beirut e insegna scienze politiche alla Northwestern university, negli Stati Uniti.
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Questo articolo è uscito sul numero 1372 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati