Amokura Panoho, 62 anni, ne aveva dodici quando scoprì il suo vero nome. Seguendo le usanze maori, suo nonno le aveva dato quello della bisnonna. Ma quattro anni dopo la sua nascita, i genitori si erano separati e sua madre aveva deciso di dare una svolta occidentale alle loro vite. “Francesizzò il mio nome, che diventò Amor. Alcune delle mie cugine e cugini mi chiamano ancora così”. Oltre al nome, le fu tolta anche la lingua. “A scuola i miei genitori venivano picchiati se parlavano maori. Per questo non vollero che lo imparassi, un fatto che per me è ancora un grande trauma”. L’esperienza di Panoho non è un’eccezione. Più del 16 per cento degli abitanti della Nuova Zelanda si identifica come maori, la popolazione originaria di quei territori. Ma appena un quarto di loro è madre lingua maori. “Mi vergogno di non conoscere la mia lingua, perché identità e lingua sono collegate”, dice Panoho.

Gli psicologi hanno usato una parola proprio di questa lingua per descrivere questo stato d’animo: whakamā, vergogna. Quella che i nativi provano perché non riescono a padroneggiare la loro lingua può causare disturbi mentali. Ma la situazione è migliorata molto rispetto al passato. Cinquant’anni fa il maori, chiamato anche te reo (la lingua), era vicino all’estinzione.

Legati e picchiati

Quando nel 1769 il capitano James Cook piantò la bandiera britannica in quella che oggi è la Nuova Zelanda, la lingua locale è stata ostacolata. Nel 1840 maori e inglesi firmarono il trattato di Waitangi, che lasciava ai nativi terre, boschi e zone di pesca. Ma la lingua e la cultura maori sono state a lungo considerate inferiori rispetto a quelle occidentali. Il Native schools act del 1867 stabilì che l’inglese doveva essere la lingua d’insegnamento in tutte le scuole. I bambini che parlavano maori in classe erano legati e picchiati. Tame Iti, un noto attivista e artista, ha raccontato che una volta fu costretto a scrivere sulla lavagna cento volte la frase “non parlerò maori”.

Negli anni settanta del novecento i giovani maori si ribellarono contro la repressione della loro cultura, incoraggiati da movimenti nati in altre zone del mondo in opposizione alla guerra in Vietnam e all’apartheid in Sudafrica. La zia di Panoho, Hana Te Hemara, era una dei leader del movimento di emancipazione Ngā Tamatoa (i giovani guerrieri). Questi giovani girarono il paese per promuovere una petizione che chiedeva l’insegnamento della loro lingua nelle scuole. Ci vollero due anni per raccogliere trentamila firme.

“A quei tempi non si facevano online, bisognava bussare a ogni porta, scuola e pub per parlare con le persone”, racconta Panoho. Molte storie di quell’epoca le ha sentite da studente, quando ha vissuto per qualche anno a casa della zia. Poteva essere anche pericoloso. “Capitava che i cani fossero aizzati contro i manifestanti, che ricevevano ogni insulto possibile”.

La petizione fu firmata anche da molti non maori. Fu un primo, timido cambiamento nel modo di considerare la popolazione indigena, le sue usanze e la sua lingua. Nel 1972 gli attivisti, guidati da Hana Te Hemara, che aveva 22 anni, presentarono la petizione al parlamento. Energica e vistosa, la donna lasciò il segno. “Zia Hana era famosa perché andava alle manifestazioni con i tacchi alti”, racconta Panoho. “Diceva sempre: ‘Se sei donna in un sistema patriarcale coloniale, il tuo aspetto sarà usato come un’arma contro di te’. Ma lei ribaltava la situazione e usava la sua bellezza per rafforzare la causa”. La petizione fu accolta e nel 1987 il maori fu riconosciuto come una delle lingue ufficiali della Nuova Zelanda.

Il 50° anniversario della presentazione della petizione è stato festeggiato in grande stile a settembre del 2022. Ad animare il progetto, chiamato “I am Hana”, sono state Panoho e sua figlia Monowai. Te Hemara è stata anche celebrata con un grande murales a New Plymouth (Ngāmotu, in maori).

La donna è stata una grande fonte d’ispirazione per Panoho, che quando era adolescente decise di voler insegnare la sua lingua. “Tutti i miei figli parlano maori. Ne vado fiera”, dice. Con Monowai, 41 anni, e con la nipote Arihia Turei, 16 anni, gestisce il Marae, un centro comunitario che è anche una scuola maori, voluto da Hana Te Hemara. Visto che inizialmente le scuole maori non ricevevano sostegni dal governo, la donna raccolse i soldi per costruire la struttura. È stato il primo istituto del paese a usare solo il maori per le lezioni. I figli di Panoho hanno frequentato quella scuola.

Hana, Amokura e Monowai rappresentano tre generazioni di donne maori, e tutte hanno un’esperienza unica di cosa significhi accettare la propria identità. Monowai indossa un kākahu, un mantello tradizionale che simboleggia whenua (la terra) e moana (il mare). “La mia lingua e la mia cultura sono il nucleo della mia esistenza”, dice. Ha imparato a leggere e scrivere in inglese solo a quattordici anni. “I miei genitori temevano che questo rinvio mi avrebbe sfavorito. Ma oggi li ringrazio per questa scelta, che ha arricchito la mia vita e le mie possibilità di carriera”.

Monowai è dispiaciuta che sua madre non abbia avuto la stessa possibilità. “I miei genitori fanno parte della generazione dimenticata”, spiega. Arihia Turei, la figlia di Monowai, è invece ancora più immersa nella cultura tradizionale. Il maori è la sua lingua madre. “Quando ero giovane, a volte avevo paura di mostrare la mia identità maori. La gente per strada ti fissava. Mia figlia non ha più paura, né si vergogna”.

Nuovi termini

Oggi la cultura nativa è popolare e le frasi in maori compaiono per strada, nelle pubblicità e sui social network. I turisti se ne accorgono ancora prima di scendere dall’aereo: il video sulla sicurezza della compagnia aerea Air New Zealand racconta una storia maori sul prendersi cura della Terra. La tradizione maori è esibita con orgoglio, come mostra il caso della haka, la danza eseguita dalla squadra nazionale di rugby prima delle partite.

Una parte della popolazione non è d’accordo con il fatto che la Tvnz, l’emittente pubblica, usi una lingua che molti non conoscono

Molte emittenti televisive e radiofoniche trasmettono esclusivamente in maori. Per strada, in parlamento e in tv è normale vedere persone con i tatuaggi tradizionali sul viso. Gli uomini hanno il moko kanohi, un tatuaggio che copre tutto il volto. E sono sempre più numerose le donne con il sacro moko kauae, un tatuaggio su mento e labbra. Anche tra gli altri neozelandesi comincia a diffondersi l’uso di alcune parole maori. Se nel 2018 quelli con una conoscenza di base della lingua erano appena il 24 per cento della popolazione, nel 2021 erano al 30 per cento. L’inglese è di gran lunga la lingua più parlata, ma è infarcito di parole maori.

Anche la discussione sul nome del paese è tornata attuale. Nel 1642 l’esploratore Abel Tasman usò quello di una provincia olandese per ribattezzare quella terra. Per sottolineare l’assurdità di questa situazione, ad agosto del 2022 l’artista Hohepa ‘Hori’ Thompson è andato nella Zelanda, nei Paesi Bassi, per restituire simbolicamente il nome “Nuova Zelanda” alla provincia olandese.

Nella lingua popolare il paese è spesso chiamato Aotearoa, che significa “terra della lunga nuvola bianca”. Oggi questo nome compare sui documenti governativi, sui mezzi d’informazione e anche sul passaporto dei cittadini neozelandesi. Il partito Te Pāti Māori ha presentato una petizione per cambiare ufficialmente il nome della Nuova Zelanda, raccogliendo settantamila firme. Il partito, che ha due seggi in parlamento, chiede inoltre al governo di sostituire tutti i nomi di città e altre località con quelli di origine maori entro il 2026.

Difficilmente queste proposte saranno approvate. I partiti di opposizione sono contrari. Una petizione per mantenere il nome attuale è stata firmata da più di settantamila persone. Secondo un sondaggio del 2021, al 58 per cento della popolazione piace il nome attuale, il 31 per cento propone Aotearoa Nuova Zelanda e solo il 9 per cento vorrebbe che il paese si chiamasse Aotearoa.

La diffusione del maori nella vita quotidiana ha causato una sorta di guerra culturale. Una parte della popolazione non è d’accordo con il fatto che la Tvnz, l’emittente pubblica, usi una lingua che tante persone non conoscono. Le aziende che usano il maori, come il produttore di cioccolata Whittaker’s, sono molto criticate.

Da sapere
Una cultura da scoprire
Neozelandesi che conoscono più di qualche parola o frase in maori, per fascia d’età e anni; % (fonte: financial times)

Ostinatamente ottimista

Questa rinnovata attenzione nei confronti della popolazione indigena non significa che i problemi di razzismo ed emarginazione siano stati risolti. Secondo una ricerca recente, il 93 per cento dei maori dichiara di avere a che fare con il razzismo ogni giorno.

Monowai Panoho ritiene che i maori siano ancora svantaggiati sotto molti punti di vista. Lei vive a Gisborne, la città in cui il sole sorge prima al mondo. “Qui la maggior parte degli abitanti è maori. Le loro prospettive per il futuro non sono buone, c’è molta povertà e criminalità”.

Rispetto al resto della popolazione, i maori tendono ad avere una situazione abitativa difficile, hanno un accesso limitato al mercato del lavoro e finiscono di più in carcere. Molti ragazzi entrano in bande criminali, contesti in cui il tatuaggio sul viso è usato come un segno di affiliazione. Questa tradizione sacra per i nativi ha quindi finito per avere una connotazione negativa. “È triste vedere come i bambini qui non riescano a immaginare un futuro diverso dalla vita in una gang”, dice Monowai.

Tuttavia, Amokura Panoho rimane ottimista. “C’è ancora molto da fare, ma abbiamo già fatto tanta strada. Hana mi ha insegnato a non arrendermi mai”. L’influenza della zia si vede anche nell’aspetto. Amokura non si veste mai di nero. “Sii colorata e piena di vita. Così anche il tuo messaggio sarà ascoltato con più attenzione”. ◆ vf

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati