Un’antica perla di saggezza da aula scolastica afferma, non senza ragione: stai alla larga dagli aggettivi! Gli editor difficilmente brontolano perché ne manca uno, ma sono pronti a consumare le loro matite a furia di cancellare quelli superflui. In caso di dubbio, meglio astenersi. Il critico Wolf Schneider fa un esempio illuminante: “Se invece di ‘Alla fonte, davanti al portone, vi è un tiglio’, Johann Ludwig Wilhelm Müller, l’autore della poesia Il tiglio, avesse scritto ‘Alla fonte in rovina, davanti al portone fatiscente e coperto di rampicanti, vi è un tiglio vecchio e nodoso’, Schubert non avrebbe messo il testo in musica”. Proprio così. Dopo aver trovato il sostantivo e il verbo giusti, lo scrittore ha tutto quello che serve e può tornare a casa. Così la pensa chi diffida degli aggettivi. Per dirla con il poeta e diplomatico francese Paul Claudel, “la crainte de l’adjectif est le commencement du style”, la paura dell’aggettivo è l’inizio dello stile.
Ernest Hemingway fu il più efficace propagatore di questo purismo stilistico. Da giornalista, conosceva il valore della concisione. Ogni parola contava, dato che per telegrafarla alla redazione bisognava pagarla. Tutti gli aggettivi decorativi e non informativi andavano eliminati. La trasposizione di questo metodo al romanzo ha avuto conseguenze a dir poco rivoluzionarie. Tutti gli scrittori, in particolare gli angloamericani (Francis Scott Fitzgerald, John Cheever, Raymond Carver, Richard Ford) hanno un debito verso questa eredità, che gli piaccia o no. Gli unici scrittori ad aver preso le distanze sono i paladini intenzionali dell’aggettivo, come Vladimir Nabokov, John Updike e il loro discepolo, Nicholson Baker. Un esempio dell’uso magistrale che ne faceva Nabokov si trova in Ada o ardore, quando, caduto in mare, Van si ritrova a nuotare “in quelle acque venate di schiuma, nere e complicate” in cui Lucette, grazie a lui, si è annegata. L’uso di “complicate” è un colpo di genio.
Neanche Borges, lettore dall’infallibile giudizio letterario, si lasciò contagiare da Hemingway, e meno che mai Julio, Carlos, Mario e Gabriel, i quattro vogatori del romanzo di Daniel Kehlmann La misura del mondo.
La critica della stravaganza aggettivale era già fiorente nei paesi di lingua tedesca. Nel 1910 Karl Kraus irrideva il suo bersaglio preferito, Heinrich Heine, definendolo il tipico osservatore che compensa con un tripudio di aggettivi ciò che la natura gli ha negato in sostantivi. Kraus era quindi un precursore di Hemingway, ed entrambi concordavano con Voltaire nel considerare gli aggettivi nemici dei sostantivi. Un aggettivo messo al posto giusto deve dirci qualcosa. Se è qualcosa che già sappiamo, lo scrittore si dovrebbe trattenere. Come dicono in Franconia, “un buon bratwurst non ha bisogno di senape”. Proprio come un buon sostantivo non ha bisogno di un aggettivo.
Eppure, su questo punto, alcuni autori non conoscono freni. Arrancare attraverso l’Enrico di Ofterdingen di Novalis in cerca di un aggettivo originale è come cercare un fiore azzurro nel Sahara. Tutto è “grazioso”, “affascinante”, “romantico”, “vario”, “sublime”, “indescrivibile”, “eterno”, e gli stessi aggettivi ricorrono da una frase all’altra. Nulla di tutto ciò che è descritto è stato davvero visto, sentito o provato. Novalis potrebbe essere un modello negativo in un corso sullo stile. Se invece eliminiamo gli aggettivi in Adalbert Stifter o Gottfried Keller, Marcel Proust o Virginia Woolf, Joseph Roth o Heimito von Doderer, Rudolf Borchardt o Thomas Mann, il testo muore.
L’aggettivo giusto – in altre parole l’aggettivo che sovverte le nostre attese e crea una tensione con il sostantivo – può così diventare il sassolino splendente che ravviva l’intera frase.
E non c’è nulla di meglio di un avverbio o di un aggettivo per suggerire un effetto comico. Due piccoli esempi.
Al culmine della tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, Giuseppe, diventato ormai braccio destro del faraone, riesce a convincere i fratelli (che lo avevano gettato in fondo a un pozzo) a fargli visita in Egitto. I fratelli non lo riconoscono in questa sua nuova, grandiosa veste, ma sono comunque inquieti. Cosa vorrà da loro? Interrogato, Giuda racconta della loro famiglia. Quando Giuseppe sente che il fratello più piccolo, Beniamino, ha già avuto otto figli da due mogli diverse, scoppia a ridere senza nemmeno aspettare la traduzione. Gli uomini di corte si uniscono alla risata, ossequiosi. “I fratelli sorrisero ansiosi”, scrive Mann, e quell’“ansiosi”, in contrasto con il verbo, aggiunge una nota di comicità.
O consideriamo come Borges spiegò il fatto di aver abbandonato gli studi orientali intrapresi nel 1916 circa: “Nello scorrere con entusiasmo e credulità la versione inglese di un certo filosofo cinese mi imbattei in questo brano memorabile: ‘A un condannato a morte non importa di camminare sull’orlo di un precipizio, perché ha rinunciato alla vita’. Qui il traduttore aveva messo un asterisco e mi avvertiva che la sua interpretazione era preferibile a quella di un altro sinologo rivale che traduceva in questo modo: ‘I servitori distruggono le opere d’arte per non doverne giudicare bellezze e difetti’. Allora, come Paolo e Francesca, smisi di leggere. Un misterioso scetticismo si era insinuato nel mio animo”. Qui è la parola “misterioso” che allude alla comicità, o la manifesta.
Quando la concisione è particolarmente importante, l’aggettivo mostra tutta la sua forza. Pensiamo al suo ruolo nelle didascalie teatrali. Si tratta di un genere intermedio interessante, perché le indicazioni dell’autore non sono note al pubblico. Servono a spiegare al regista come raffigurarsi i personaggi. Ogni parola deve colpire nel segno con la brevità di un ordine. Prendiamo le dramatis personæ nella Congiura del Fiesco a Genova di Friedrich Schiller:
Andrea Doria, Doge di Genova, venerabile vegliardo di ottant’anni. Tracce di vivacità. Caratteristiche: aria autorevole e laconismo imperioso.
Giannettino Doria, nipote di Andrea, pretendente al governo. Giovane di ventisei anni ruvido e sgarbato nel conversare, nel portamento e nei modi. Alterigia villana. Fattezze irregolari.
Fiesco, conte di Lavagna, capo della congiura. Disinvolto e bellissimo giovane di ventitré anni, nobilmente orgoglioso, affabile con decoro, ossequioso e scaltro.
Muley Hassan, Moro di Tunisi. Astuto e malizioso all’estremo. Nei tratti del viso un misto singolare di ribalderia e piacevolezza.
Contessa Giulia, vedova Imperiali, sorella di Giannettino Doria. Dama di venticinque anni. Alta e complessa nella persona. Orgogliosa e vana. Bellezza guastata dalle stravaganze, e fastosa senza essere attraente. Faccia beffarda. Abito nero.
Nella poesia, se strappassimo via gli aggettivi otterremmo una terra desolata. Facciamo un esperimento. Immaginiamo l’incontro tra Hemingway e il brano di Giobbe. Storia di uomo semplice di Joseph Roth in cui Mendel ricorda la sua infanzia.
Se Hemingway avesse deciso di riscriverlo secondo le sue regole, il risultato sarebbe stato più o meno questo:
Mendel si ricordava della neve che in quella stagione dell’anno orlava il selciato dei marciapiedi di Zuchnow, dei ghiaccioli ai margini delle spine di botte, delle pioggerelline che cantavano nelle grondaie, per tutta la notte, dei tuoni che riecheggiavano oltre le foreste di pini silvestri, della brina che copriva il mattino, di Menuchim, che Mirjam aveva infilato in un bidone per toglierlo di mezzo, e della speranza che quell’anno sarebbe arrivato il Messia.
Ed ecco la versione originale di Roth:
Mendel si ricordava della neve grigia e vecchia, che in quella stagione dell’anno orlava il selciato di legno dei marciapiedi di Zuchnow, dei ghiaccioli cristallini ai margini delle spine di botte, delle improvvise pioggerelline che cantavano nelle grondaie, per tutta la notte, dei tuoni lontani che riecheggiavano oltre le foreste di pini silvestri, della brina bianca, che copriva dolcemente il mattino celeste, di Menuchim, che Mirjam aveva infilato in un grosso bidone per toglierlo di mezzo, e della speranza che finalmente, finalmente quell’anno sarebbe arrivato il Messia.
La versione di Roth è indubbiamente superiore. Ogni aggettivo e ogni avverbio rendono il ricordo più preciso, l’immagine più nitida. I marciapiedi di legno richiamano un’epoca ormai svanita; le improvvise pioggerelline e i mattini celesti, il vivido mondo dell’infanzia; quel doppio “finalmente”, l’attesa eternamente prolungata dell’apparizione del Messia.
Un’altra frase di Giobbe è composta quasi interamente di aggettivi. È la prima notte di Mendel a New York: “Per la prima volta vide la notte dell’America da vicino, il cielo rosso, le lettere, le immagini, le insegne fiammeggianti, scintillanti, gocciolanti, incandescenti, rosse, blu, verdi, d’oro e d’argento”.
Avremmo preferito che Roth rinunciasse agli aggettivi? Nella Marcia di Radetsky Roth usa gli aggettivi con altrettanta prodigalità, e con più umorismo. Sono anzi proprio gli aggettivi a creare la comicità. Il tavolo al quale von Trotta, appena nobilitato, tenta invano di scrivere una lettera al padre prima di appoggiare “la sterile penna al calamaio”, è “abbondantemente tagliuzzato e inciso per trastullo da coltelli di uomini annoiati”. E così per trecento pagine, in un’effervescente celebrazione dell’aggettivo. Povero Hemingway! E beati noi.
Robert Walser era un altro che si crogiolava negli aggettivi. Nell’Assistente (1908), la città è ornata di bandiere in occasione della festa nazionale svizzera:
Dalla torre di Giuseppe pendeva una grande bandiera ondeggiante. Col suo corpo leggero faceva secondo il vento un balzo ardito e superbo o si arricciava civettuola intorno all’asta, quasi giocando al sole coi propri graziosi movimenti. Poi s’impennava a un tratto vittoriosa e protettrice per ricadere su se stessa in atto commovente e carezzevole.
Può esserci descrizione più vivida delle reazioni di una bandiera al vento che cambia? Questo brano è uno straordinario esempio di ricchezza aggettivale, perché qui gli epiteti svolgono il ruolo attivo. Sono il cuore del passaggio, la sua essenza. Sono gli aggettivi che ondeggiano, balzano e si arricciano o, come nella torre di Hölderlin a Tubinga, “i muri stanno afoni e freddi, nel vento stridono le bandiere”.
Un ultimo esempio ci allontana dalla poesia per condurci verso la sofferenza di un personaggio traumatizzato. In L’altalena del respiro di Herta Müller, il protagonista Leo Auberg, un ragazzo omosessuale di diciassette anni appartenente alla minoranza tedesca della Transilvania, nel 1945 è mandato in un campo sovietico di lavoro forzato, dove resterà cinque anni. Il personaggio è ispirato al poeta Oskar Pastior, che fu deportato in Unione Sovietica insieme ad altri romeni di etnia tedesca (e in seguito sarebbe diventato l’unico membro germanofono del gruppo Oulipo). In là con gli anni, annientato, Auberg si descrive così:
La mia sottomissione orgogliosa. I miei desideri nati nell’angoscia e bruscamente zittiti. La mia riottosa fretta, il mio saltare subito dallo zero al tutto. La mia cocciuta acquiescenza, per cui do ragione a ognuno per poterglielo rinfacciare. Il mio opportunismo mancato. La mia cortese avarizia. La mia invidia fiacca, quando la gente sa cosa vuole dalla vita. Una sensazione come di lana infeltrita, fredda e stopposa. Il mio vuoto scosceso, scavato a cucchiaiate in me, il mio essere pressato dall’esterno e intimamente cavo da quando non devo più soffrire la fame.
Senza gli aggettivi sarebbe stato impossibile descrivere questo paesaggio psicologico devastato, questo campo di macerie e di crepacci. La figura di Pastior non è mai stata tratteggiata con tanta accuratezza, e il suo psicogramma è composto di aggettivi, ognuno dei quali è in tensione con il suo sostantivo e gli conferisce un senso diverso. O meglio: l’aggettivo permette di porre il sostantivo in una prospettiva diversa. Potremmo dire che rende il sostantivo tridimensionale. ◆ fs
Michael Maar è un critico letterario e scrittore tedesco. Questo articolo è un estratto dal suo libro Die schlange im wolfspelz. Das geheimnis großer literatur (Rowohlt 2020) uscito sulla New Left Review con il titolo By their epithets shall ye know them. © 2020 Rowohlt Verlag GmbH, Hamburg.
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Questo articolo è uscito sul numero 1404 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati