La nostalgia per l’impero sembra essere il movente di Vladimir Putin, unita al desiderio di superare la vergogna della debilitante terapia d’urto economica imposta alla Russia alla fine della guerra fredda. Alla base del movimento che Donald Trump continua a guidare c’è la nostalgia per la “grandezza” degli Stati Uniti, insieme al desiderio di superare la vergogna di dover affrontare la malvagità del suprematismo bianco che ha influenzato la nascita del paese e che ancora lo affligge. E la nostalgia anima anche i camionisti canadesi che hanno occupato Ottawa per quasi un mese agitando le loro bandiere bianche e rosse come un esercito conquistatore e rievocando tempi meno complicati, quando le loro coscienze non erano turbate dal pensiero dei cadaveri dei bambini indigeni, di cui si trovano ancora i resti sepolti nei terreni di quelle istituzioni genocide che osavano chiamarsi scuole.

Non è la nostalgia calda e intima suscitata dai confusi ricordi dell’infanzia. È una nostalgia furiosa e distruttiva, che si aggrappa contro ogni evidenza a falsi ricordi di glorie passate.

Tutti questi movimenti e personaggi mossi dalla nostalgia condividono il desiderio di qualcos’altro, qualcosa che sembra distante ma in realtà non lo è. La nostalgia per un tempo in cui i combustibili fossili potevano essere estratti senza preoccuparsi di una estinzione di massa, dei ragazzi che rivendicano il loro diritto a un futuro o dei rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Quello pubblicato il 28 febbraio è stato definito dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres “un atlan­te della sofferenza umana e un atto d’accusa contro il fallimento delle politiche sul clima”. Putin, ovviamente, guida un paese petrolifero che si è rifiutato ostinatamente di ridurre la sua dipendenza economica dai combustibili fossili, nonostante l’effetto devastante delle oscillazioni dei prezzi sui suoi cittadini e nonostante la realtà del cambiamento climatico. Trump è ossessionato dai soldi facili offerti dai combustibili fossili e ha fatto del negazionismo climatico uno dei capisaldi della sua presidenza.

I camionisti canadesi, da parte loro, non solo hanno scelto gli enormi camion e la benzina di contrabbando come simboli della loro protesta, ma la leadership del movimento è anche profondamente legata al petrolio sporco delle sabbie bituminose dell’Alberta. Prima del “convoglio della libertà”, nel 2019 molti di loro avevano partecipato a una prova generale chiamata United we roll, una carovana che univa la difesa degli oleodotti, l’opposizione alla tassa sulle emissioni di anidride carbonica, l’ostilità verso gli immigrati e l’esplicita nostalgia per un Canada bianco e cristiano.

Anche se queste forze sono finanziate dal petrolio, è fondamentale capire che il petrolio è il surrogato di una visione del mondo più ampia, una cosmologia profondamente intrecciata con il “destino manifesto” degli Stati Uniti e la dottrina della scoperta, che inquadrava il mondo all’interno di una rigida gerarchia, con in cima gli uomini bianchi cristiani. Il petrolio, in questo contesto, è il simbolo della mentalità estrattivista: non solo il presunto diritto divino a continuare a estrarre combustibili fossili, ma anche a prendere ciò che si vuole, lasciarsi alle spalle veleni e non voltarsi mai indietro.

Questo è il motivo per cui l’incombente crisi climatica rappresenta non solo una minaccia economica per chi ha investito nelle industrie estrattive, ma anche una minaccia per chi ha investito in questa visione del mondo. Perché con il cambiamento climatico la Terra ci sta dicendo che niente è gratis, che l’era del “dominio” umano (bianco, maschile) è finita, che non esiste un rapporto a senso unico basato sul prendere, e che a ogni azione corrisponde una reazione. Secoli di scavi e perforazioni ora stanno scatenando forze che fanno sembrare vulnerabili e fragili anche le strutture più robuste create dalle società industriali: città costiere, autostrade, piattaforme petrolifere. E per la mentalità estrattivista questo è inaccettabile.

Strani amici

Date le loro cosmologie comuni, non dovrebbe sorprenderci che Putin, Trump e i “convogli della libertà” siano legati, nonostante la distanza geografica e i contesti diversi. Trump ha elogiato il “movimento pacifico di camionisti patriottici che protestano per i loro diritti e le loro libertà più elementari”. La destra statunitense fa il tifo per Putin e i camionisti indossano berretti con la scritta “Make America great again”. Randy Hillier, un parlamentare canadese che è uno dei più accesi sostenitori del convoglio, ha scritto su Twitter che “i vaccini contro il covid uccideranno più persone della guerra tra Russia e Ucraina”.

A prima vista queste alleanze sembrano strane e improbabili. Ma se si guarda un po’ più da vicino, appare chiaro che condividono la tendenza ad aggrapparsi a una versione idealizzata del passato e a non accettare verità scomode sul futuro. Hanno in comune anche il piacere dell’esercizio della forza bruta: i tir contro i pedoni, le menzogne strillate contro il cauto parere scientifico, l’arsenale nucleare contro la mitragliatrice.

Questa energia si sta scatenando in molti ambiti diversi, provocando guerre, attaccando sedi di governo e destabilizzando i sistemi che sostengono la vita sul nostro pianeta. È la mentalità alla base di tante crisi democratiche e geopolitiche e della crisi climatica: aggrapparsi con forza a un passato tossico e non accettare un futuro più interdipendente, definito dai limiti di ciò che le persone e il pianeta possono sopportare. È una pura espressione di quello che la scrittrice bell hooks definiva ironicamente il “patriarcato capitalista imperialista suprematista bianco”, perché a volte certi paroloni sono necessari per descrivere accuratamente il nostro mondo.

Quando è in gioco la loro vita, gli esseri umani sono in grado di cambiare il mondo

A livello politico la priorità è mettere abbastanza pressione su Putin da fargli concludere che la sua invasione criminale dell’Ucraina è un rischio troppo grande. Ma questo è solo l’inizio. “Il tempo per garantire un futuro vivibile sulla Terra sta per scadere”, ha detto Hans-Otto Pörtner dell’Ipcc.

Se c’è un obiettivo politico che ci può unire, è dare una risposta globale a questa esplosione di nostalgia tossica. E in un mondo moderno nato dal genocidio e dall’espropriazione, per farlo bisogna immaginare un futuro diverso da tutto quello che abbiamo conosciuto finora.

I leader dei nostri paesi, con pochissime eccezioni, non sono pronti per raccogliere la sfida. Nell’estrema destra ci sono molte figure nostalgiche e reazionarie come Putin e Trump. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha vinto le elezioni puntando sulla nostalgia per la dittatura militare, e le Filippine sono pronte a eleggere Ferdinand Marcos Jr., il figlio del dittatore che saccheggiò e terrorizzò il paese negli anni settanta e ottanta.

Ma anche molti alfieri del liberalismo sono figure profondamente nostalgiche, che offrono come antidoto all’avanzata del fascismo nient’altro che un neoliberismo riscaldato, apertamente allineato con gli interessi predatori delle multinazionali, dalle aziende farmaceutiche alle grandi banche. Joe Biden è stato eletto presidente degli Stati Uniti grazie alla rassicurante promessa di un ritorno alla normalità precedente a Trump, anche se quello è il terreno su cui è cresciuto il trumpismo. Justin Trudeau è un’eco superficiale di suo padre, l’ex primo ministro canadese Pierre Elliott Trudeau. Nel 2015 la sua prima dichiarazione sulla scena internazionale è stata: “Il Canada è tornato”. Cinque anni dopo Biden ha esordito dicendo “L’America è tornata, pronta a guidare il mondo”.

Qualcosa di utile

Non sconfiggeremo le forze della nostalgia tossica con queste deboli dosi di nostalgia leggermente meno dannosa. Non basta “tornare”. Abbiamo un disperato bisogno di qualcosa di nuovo. La buona notizia è che ora sappiamo cosa vuol dire combattere le forze alla base dell’aggressione imperialista, dello pseudo-populismo di destra e della crisi climatica. Ci vuole qualcosa come il Green new deal, un progetto per liberarsi dei combustibili fossili investendo in posti di lavoro sindacalizzati che fanno qualcosa di utile, come costruire case sostenibili e a prezzi accessibili e buone scuole, a cominciare da quelle per le comunità più trascurate e inquinate. E per questo è necessario abbandonare la fantasia di una crescita illimitata e investire nei settori dell’assistenza e della riparazione.

Il Green new deal è la nostra unica speranza per costruire una solida coalizione multietnica della classe operaia. È anche il modo migliore per evitare che i combustibili fossili finanzino gente come Putin, perché un’economia verde che ha superato la dipendenza dalla crescita infinita non ha bisogno di importare petrolio e gas. Ed è anche il modo per soffocare lo pseudopopulismo di Trump, che guadagna consensi perché cavalca la rabbia contro le élite finanziarie meglio dei leader del Partito democratico, molti dei quali appartengono a quelle élite.

L’invasione russa dimostra l’urgenza di questo tipo di trasformazione verde, ma pone anche nuove sfide. Prima che i carri armati si mettessero in moto si sentiva già dire che il modo migliore per fermare l’aggressione russa era aumentare la produzione di combustibili fossili in Nordamerica. A poche ore dall’invasione, i politici conservatori e gli esperti legati alle industrie stavano già rimettendo freneticamente sul tavolo ogni progetto distruttivo che il movimento per la giustizia climatica era riuscito a bloccare nell’ultimo decennio: ogni oleodotto, ogni terminale per l’esportazione del gas, ogni sogno di trivellazione nell’Artico. Dal momento che la macchina da guerra di Putin è finanziata dal petrolio, la soluzione che ci viene offerta è cercare, estrarre e vendere più petrolio.

È la solita farsa del capitalismo dei disastri. Primo, la Cina continuerà in ogni caso a comprare petrolio russo. Secondo, i tempi sono lunghissimi: ognuno dei progetti sbandierati come soluzioni alla dipendenza dalle esportazioni russe richiederebbe anni per avere effetto, e perché gli investimenti abbiano un senso quei progetti dovrebbero rimanere operativi per decenni, nonostante gli avvertimenti sempre più disperati della comunità scientifica.

Una mano legata

Ma ovviamente i progetti fossili in Nordamerica non servono ad aiutare gli ucraini o a indebolire Putin. La vera ragione per cui vengono rispolverati è molto più banale: da un giorno all’altro la guerra li ha resi molto più redditizi . Nella settimana in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, il petrolio Brent ha toccato i 105 dollari al barile, un prezzo che non si vedeva dal 2014, e in seguito ha superato i 120. Le banche e le aziende petrolifere vogliono approfittarne a ogni costo.

Così come Putin vuole ridisegnare la mappa dell’Europa orientale, l’industria dei combustibili fossili vuole ridisegnare la mappa dell’energia. Negli ultimi dieci anni, il movimento per la giustizia climatica ha vinto alcune battaglie molto importanti. È riuscito a vietare il fracking in interi paesi, stati e province; enormi oleo­dotti come il Keystone xl tra Canada e Stati Uniti sono stati bloccati, come anche molti terminal di esportazione e vari tentativi di perforazione nell’Artico. Grazie ad anni di ostinate campagne, più di 1.500 fondi pensione si sono impegnati a disinvestire circa quarantamila miliardi di dollari dai combustibili fossili.

Ma c’è un segreto che i nostri movimenti spesso tengono nascosto perfino a se stessi: da quando nel 2015 il prezzo del petrolio è crollato, abbiamo combattuto un’industria che ha una mano legata dietro la schiena. Il petrolio e il gas a basso costo sono per lo più esauriti in Nordamerica, quindi le battaglie hanno riguardato soprattutto progetti di estrazione non convenzionali e più costosi: giacimenti nascosti nelle rocce di scisto, nei fondali degli oceani, sotto il ghiaccio artico o nelle sabbie bituminose dell’Alberta. Molti di questi progetti erano diventati redditizi dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq nel 2003, provocando un’impennata dei prezzi del petrolio. Improvvisamente gli investimenti multimiliardari necessari per sfruttare quei giacimenti avevano senso: gli anni del boom stavano per cominciare.

Ma quando il prezzo del petrolio è crollato, quella frenetica spinta all’espansione ha cominciato a vacillare. In alcuni casi, gli investitori non erano sicuri di recuperare i loro soldi, il che ha portato alcune grandi aziende ad abbandonare i progetti nell’Artico e nelle sabbie bituminose. Con i profitti e i prezzi delle azioni in calo, le campagne per il disinvestimento sono state improvvisamente in grado di dimostrare che le azioni dei combustibili fossili non erano solo poco etiche ma anche un pessimo investimento in termini capitalistici.

Ora Putin ha liberato la mano delle compagnie petrolifere e l’ha trasformata in un pugno.

Questo spiega la recente ondata di attacchi contro il movimento per il clima e i pochi esponenti del Partito democratico statunitense che abbiano promosso iniziative per il clima. Il deputato repubblicano Tom Reed ha dichiarato che “gli Stati Uniti hanno le risorse per eliminare completamente la Russia dal mercato del petrolio e del gas, ma non vengono usate perché Biden si è schierato con gli estremisti dell’ambiente”.

È vero l’esatto contrario. Se i governi che negli ultimi anni hanno approvato politiche sostenibili le avessero davvero messe in atto, Putin non potrebbe infischiarsene del diritto e dell’opinione pubblica internazionale scommettendo che ci sarà sempre qualcuno a comprare i suoi idrocarburi. Il problema di base non è che i paesi occidentali non sono riusciti a costruire le infrastrutture per i combustibili fossili necessarie a sostituire le importazioni dalla Russia, ma che stanno ancora consumando quantità oscene e insostenibili di petrolio, gas ed energia.

In un rifugio antiaereo a Kiev, 2 marzo 2022 (Chris McGrath, Getty Images)

Sappiamo qual è la via d’uscita da questa crisi: espandere le energie rinnovabili, alimentare le case con l’energia eolica e solare, elettrificare i sistemi di trasporto. E dato che tutte le fonti di energia hanno un costo ecologico, dobbiamo anche ridurre la domanda di energia in generale, aumentando l’efficienza, usando di più i trasporti pubblici e riducendo gli sprechi. Il movimento per la giustizia climatica lo dice da decenni. Il problema non è che i politici hanno sprecato troppo tempo ad ascoltare i cosiddetti estremisti dell’ambiente, è che non li hanno mai ascoltati sul serio.

Ci troviamo in un momento strano, in cui moltissime cose sono in gioco. La Bp ha annunciato che venderà la sua quota del 20 per cento del colosso petrolifero russo Rosneft, e altre aziende stanno seguendo il suo esempio. Potrebbe essere una buona notizia per l’Ucraina, dal momento che la pressione su questo settore attirerà sicuramente l’attenzione di Putin. Ma dobbiamo tenere presente che probabilmente questo sta succedendo solo perché la Bp sta progettando di sfruttare al massimo la nuova corsa al petrolio e al gas scatenata dall’aumento dei prezzi.

È anche significativo che l’annuncio della Bp sia arrivato poche ore dopo che il cancelliere tedesco Olaf Scholz aveva promesso di costruire due nuovi terminal per l’importazione via mare del gas, consolidando ulteriormente la dipendenza dai combustibili fossili nel bel mezzo di un’emergenza climatica.

Questi progetti erano stati a lungo osteggiati dagli ambientalisti tedeschi, ma ora si sta cercando di farli approvare con il pretesto della guerra, presentandoli come l’unico modo per compensare l’abbandono del gas­dotto Nord stream 2, un’infrastruttura appena completata e costata 11 miliardi di dollari.

Eppure non sono solo i progetti sui combustibili fossili a essere resuscitati. “Stiamo raddoppiando il nostro impegno sulle energie rinnovabili”, ha annunciato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen prima dell’invasione russa. “Questo aumenterà l’indipendenza strategica dell’Europa in materia di energia”.

Guardando tutti questi movimenti che si succedono nel giro di pochi giorni sulla scacchiera geopolitica e l’ondata di sanzioni contro le banche russe e le compagnie aeree russe, abbiamo buoni motivi per essere preoccupati, compresa l’introduzione di misure che puniscono i poveri per i crimini dei ricchi. Ma ci sono anche motivi per essere ottimisti. L’aspetto incoraggiante non è la sostanza delle singole decisioni, ma la rapidità e la determinazione con cui sono prese. Come nei primi mesi della pandemia, la reazione all’invasione russa dovrebbe ricordarci che, nonostante la loro complessità, i sistemi finanziari ed energetici possono ancora essere trasformati dalle decisioni dei comuni mortali.

Se la Germania può abbandonare un gasdotto da 11 miliardi di dollari perché improvvisamente è considerato immorale (lo era anche prima), anche tutte le infrastrutture per il trasporto e il trattamento dei combustibili fossili che violano il nostro diritto a un clima stabile dovrebbero essere messe in discussione. Se la Bp può rinunciare al 20 per cento di un’azienda petrolifera russa, a quale investimento non si può rinunciare per evitare la distruzione di un pianeta abitabile? E se il denaro pubblico può essere usato per costruire terminal per il gas in un batter d’occhio, allora non è troppo tardi per chiedere più solare ed eolico.

Come ha scritto Bill McKibben (Internazionale 1450), Biden potrebbe contribuire a questa trasformazione usando i poteri di cui dispone nei periodi d’emergenza, invocando il Defence production act per costruire grandi quantità di pompe di calore elettriche e aiutare l’Europa ad affrontare le conseguenze della rinuncia al gas russo. È questo è lo spirito di cui abbiamo bisogno ora. Se dobbiamo costruire nuove infrastrutture energetiche, che siano le infrastrutture del futuro.

Momento duttile

Possiamo trarre molte lezioni da questo spaventoso momento. Sui pericoli della proliferazione incontrollata delle armi nucleari. Su quanto è miope umiliare quelle che un tempo erano grandi potenze. Sulla grottesca ipocrisia con cui i mezzi d’informazione occidentali distinguono quali paesi possono essere invasi e distrutti e quali no. Su quali migrazioni forzate sono considerate un problema per chi è costretto a spostarsi e quali un problema per i paesi di destinazione. Su quali lotte per l’autodeterminazione e l’integrità territoriale sono celebrate come atti di eroismo e quali sono definite terrorismo.

E c’è un’altra lezione: quando è in gioco la loro vita, gli esseri umani possono ancora cambiare il mondo che abbiamo costruito, e farlo in modo rapido e drastico. Come due anni fa, quando è stata dichiarata per la prima volta la pandemia, ci troviamo in un altro momento terrificante ma estremamente duttile. La guerra sta ridisegnando il nostro mondo, ma lo sta facendo anche l’emergenza climatica. La domanda è: sfrutteremo il senso di urgenza suscitato dalla guerra per accelerare l’azione sul clima, che ci renderà tutti più sicuri per i decenni a venire? O consentiremo di gettare altro carburante su un pianeta già in fiamme? Questa sfida è stata esposta chiaramente da Svitlana Krakovska, una scienziata ucraina dell’Ipcc. Mentre il suo paese subiva l’attacco del Cremlino, durante un incontro online Krakovska ha detto ai suoi colleghi che “il cambiamento climatico e la guerra all’Ucraina hanno le stesse radici: i combustibili fossili e la nostra dipendenza da questi”.

Le atrocità russe in Ucraina dovrebbero ricordarci che l’influenza corruttrice del petrolio e del gas è alla base di quasi tutte le forze che destabilizzano il nostro pianeta. La tracotanza di Putin? È sostenuta dal petrolio, dal gas e dalle armi nucleari. I camion che hanno occupato Ottawa per un mese e ispirato iniziative simili in tutto il mondo? Una dei leader della protesta si è presentata in tribunale indossando una felpa con la scritta “Io amo il petrolio e il gas”. Sapeva bene chi sono i suoi sponsor. Il negazionismo sul covid e il moltiplicarsi delle teorie del complotto? Dopo aver negato la crisi climatica, non ci vuole molto a negare le pandemie, le elezioni o praticamente qualsiasi forma di realtà oggettiva.

Molte di queste cose ormai sono chiare. Il movimento per la giustizia climatica ha vinto tutti i dibattiti sul bisogno di agire. Quello che rischiamo di perdere, nella nebbia della guerra, è il nostro coraggio. Perché niente permette di cambiare argomento come la violenza estrema, compresa quella che viene sovvenzionata dall’impennata del prezzo del petrolio.

Per evitare che succeda, potremmo prendere a esempio Krakovska, che in quell’incontro ha detto: “In Ucraina non ci arrenderemo. E speriamo che il mondo non si arrenda nella lotta per costruire un futuro che sopravviva ai cambiamenti climatici”. Secondo i partecipanti un suo collega russo è rimasto così colpito da queste parole che ha chiesto scusa per le azioni del suo governo: un breve scorcio di un mondo che guarda avanti e non indietro. ◆ bt

Naomi Klein è una giornalista canadese. Il suo ultimo libro è Il mondo in fiamme (Feltrinelli 2019).

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Questo articolo è uscito sul numero 1451 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati