Usiamo internet da qualche decennio ormai, e a quanto pare ci troviamo di fronte a un bivio. Il tipo di connessione che la rete rende possibile ha prodotto molti benefici: le persone riescono a comunicare più facilmente, possono informarsi o divertirsi e trovare una miriade di nuove opportunità un tempo irraggiungibili. Tuttavia, pur riconoscendo questi aspetti positivi, molti sono convinti che internet abbia dei problemi gravi.

Il movimento neobrandesiano (che prende il nome da Louis Brandeis, giurista e giudice della corte suprema statunitense che ha contribuito a formare il movimento contro i monopoli) chiede di “fare a pezzi big tech” e vi dirà che il problema è la monopolizzazione del mercato e l’eccessivo potere nelle mani delle principali aziende tecnologiche. Secondo altri attivisti invece il vero rischio è che le aziende o lo stato usino le infrastrutture digitali per violare la nostra privacy o limitare la libertà d’espressione. Ognuno avanza proposte diverse per imporre alle aziende un capitalismo digitale più etico.

Man mano che le persone online aumentavano, le aziende hanno cominciato a intravedere delle possibilità per fare soldi, ma in un primo momento la legge le ostacolava

Di sicuro questi attivisti dicono molte cose vere, e alcune riforme che propongono potrebbero fare una grande differenza nelle nostre esperienze online. Ma nel suo nuovo libro Internet for the people: the fight for our digital future (Verso 2022), il giornalista statunitense Ben Tarnoff sostiene che queste critiche non colgono il vero problema di internet. Monopoli e sorveglianza sono il risultato di un difetto molto più profondo del sistema. “La radice è facile da trovare. Internet è a pezzi perché è diventata un affare”, scrive Tarnoff.

Internet for the people conduce i lettori in un viaggio attraverso la storia del world wide web. Al centro dell’analisi del giornalista c’è la questione della privatizzazione: com’è avvenuta e che conseguenze ha avuto sulle infrastrutture e i servizi che ormai sono diventati indispensabili.

Il libro ripercorre una serie di momenti cruciali nello sviluppo di internet: il 1969, quando la Advanced research projects agency network (Arpanet), cioè la prima rete pubblica di computer, è entrata in funzione; il 1976, quando la Defense advanced re­search projects agency (Darpa), l’agenzia governativa che sviluppava tecnologie per scopi militari, ha collegato per la prima volta due reti; il 1983, quando Arpanet è passata alle regole di trasmissione dei dati conosciute come tcp/ip, che in seguito sono diventate lo standard di internet; il 1986, quando la National science foundation ha lanciato la Nsfnet (National science foundation network), una infrastruttura di rete pubblica utilizzabile da molte più persone – soprattutto ricercatori – per comunicare.

Come spiega Tarnoff, il governo statunitense ha avuto un ruolo fondamentale per permettere tutti questi sviluppi, secondo “un’etica aperta” contraria all’“impulso commerciale che rinchiude gli utenti dentro un sistema proprietario”, tipico del settore privato. Prendiamo il caso dei protocolli tcp/ip che hanno fatto comunicare tra loro reti diverse. “Se fosse stato proprietà di privati, un linguaggio di questo tipo non sarebbe mai stato creato”, scrive Tarnoff. Non solo la ricerca di base era molto costosa, ma non era chiaro in che modo ricavarci guadagni. La Darpa aveva perfino offerto all’azienda di telecomunicazioni At&t l’opportunità di rilevare Arpanet. La At&t rifiutò: non capiva come farci dei soldi.

Negli anni novanta internet ha attraversato una radicale trasformazione. Secondo Tarnoff, è stato il decennio in cui “all’improvviso la rete è morta e ne è nata una nuova”. Man mano che le persone online aumentavano, le aziende hanno cominciato a intravedere delle possibilità di guadagno, ma in un primo momento la legge le ostacolava. Tuttavia, in un’epoca di egemonia neoliberale questa situazione non poteva durare.

Nonostante il potenziale mondiale di internet, le decisioni sul suo futuro furono prese a Washington, negli Stati Uniti. Secondo i repubblicani guidati dal presidente della camera Newt Gingrich e i democratici del presidente Bill Clinton, il percorso da fare era chiaro: internet doveva essere privatizzata. La data fatidica fu il 30 aprile 1995, quando la National science foundation network (Nsfnet), l’infrastruttura pubblica di internet, fu chiusa e ceduta alle aziende. In un momento in cui si riponeva grande fiducia nel mercato, testimoniata da un grande programma di privatizzazione, le aziende e le élite politiche hanno voluto farci credere che non avevamo alternative. Non c’è da stupirsi se a metà degli anni novanta l’amministrazione Clinton sosteneva che quella fosse l’unica via per ottenere un’internet migliore, più accessibile economicamente e aperta all’innovazione. E tuttavia la privatizzazione ha portato a qualcosa di molto diverso.

Invece di aspettare invano cos’hanno da offrirci Google o Amazon, la tecnologia dovrà essere prodotta dalle comunità e dai collettivi per raggiungere obiettivi diversi

Oggi gli Stati Uniti hanno tariffe tra le più alte del mondo in cambio di un servizio pessimo e l’oligopolio delle telecomunicazioni controlla l’accesso alla rete della maggioranza delle persone. Nel frattempo i moderni monopoli tecnologici – Facebook, Google, Microsoft e Amazon – stanno comprando una quantità sempre maggiore dei cavi sottomarini che connettono il mondo.

Secondo Tarnoff, costruendo “imperi che controllano sia le condutture sia le informazioni che vi transitano dentro, stanno ricreando una forma ancora più privatizzata della rete rispetto a quella degli anni novanta”.

L’altra faccia di questa medaglia è la riorganizzazione della rete mondiale per rispondere alle esigenze economiche dei giganti e non degli utenti. Il momento in cui questo processo è cominciato coincide con la bolla delle aziende dot-com nei primi anni duemila, quando nuovi imprenditori cercavano modi per guadagnare da quello che facevano online. Il loro successo fu enorme.

Definiamo spesso i servizi offerti da queste aziende “piattaforme”, ma Tarnoff rifiuta il termine, che secondo lui permette di “esibire un’aura di neutralità”, quando in realtà le aziende stanno plasmando quello che facciamo per adattarlo ai loro scopi. Tarnoff preferisce chiamarli centri commerciali online, spazi privati che sembrano pubblici, in cui siamo spinti a ritrovarci per permettere a chi li controlla di fare profitti.

Tarnoff analizza il modo in cui si è sviluppata questa privatizzazione passando in rassegna i vari settori della rete. Prende inoltre in considerazione i contributi di aziende importanti come eBay, Google e Amazon alla creazione del modello del centro commerciale online, all’espansione dell’infrastruttura del cloud, alla trasformazione del processo di produzione dei dati in un’attività redditizia e all’ampliamento dell’uso di internet dall’ambito domestico o lavorativo a molti aspetti della società.

Invece di realizzare i sogni utopistici e libertari degli anni novanta, questi sviluppi hanno creato nuovi modi per sfruttare persone marginalizzate, reso possibile una nuova ondata di estremismo di destra e contribuito a creare un mondo ancora più ingiustamente disuguale.

Per affrontare la situazione bisogna andare alla radice del problema: l’internet privatizzata ci ha deluso. Le leggi sulla privacy e i provvedimenti antitrust potrebbero avere degli effetti positivi, ma non bastano. “Un’internet nelle mani dei privati permetterà sempre a poche persone di controllarne molte”, scrive Tarnoff. E poiché questa tendenza fa parte del capitalismo, per sistemare la rete sarà necessaria una strategia completamente diversa: la deprivatizzazione. Ma non c’è ancora un accordo generale su quali dovrebbero essere le sue caratteristiche.

Invece che esporre un piano concreto per un’internet pubblica, Tarnoff spiega che sarà fondamentale la sperimentazione. Nel futuro che lui ha in mente la tecnologia dovrà assumere caratteristiche diverse: non sarà più “qualcosa che si fa alle persone, ma qualcosa che le persone fanno insieme”. Invece di aspettare invano cos’hanno da offrirci Google o Amazon, la tecnologia dovrà essere prodotta dalle comunità e dai collettivi per raggiungere obiettivi diversi.

Tarnoff ci lascia comunque delle indicazioni sul percorso da intraprendere. Sul piano delle infrastrutture propone di usare reti gestite da singole comunità, che di solito offrono un servizio migliore a un costo inferiore. Sul piano dei servizi, immagina dei social network dedicati alle piccole comunità e tenuti in piedi grazie ai finanziamenti pubblici.

L’autore, tuttavia, fa notare che il decentramento non è di per sé un bene, come potrebbero sostenere alcuni attivisti per i diritti digitali e certi libertari in campo tecnologico. “Il decentramento non produce necessariamente più democrazia: può servire a concentrare il potere con la stessa facilità con cui può contribuire a distribuirlo”, scrive Tarnoff.

In fin dei conti, un’internet pubblica richiederà soluzioni differenti per aspetti diversi della rete. In alcuni casi sarà preferibile il decentramento, in altri sarà richiesto un approccio regionale o nazionale. Come mi ha detto Tarnoff di recente: “Non puoi decentrare del tutto internet né puoi centralizzarla del tutto”.

Impostando la discussione non più solo sulla sorveglianza, sulla libertà d’espressione o sul monopolio, ma sulla privatizzazione, il libro Internet for the people c’incoraggia a immaginare in una prospettiva più ampia come potrebbe funzionare un’internet diversa. In un momento in cui il futuro del settore tecnologico sembra più in discussione che mai, abbiamo un disperato bisogno di un dibattito del genere. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1467 di Internazionale, a pagina 41. Compra questo numero | Abbonati